Guadagnando pochi chilometri all’anno arrivai infine nel Comune di Roma. Nominalmente Roma, ma nei fatti nelle borgate sulla Casilina, lontane e dimenticate. Mi feci tutte le Torri, Torre Gaia, Torre Angela, Torre Maura, Torre Spaccata. Più o meno tre anni a Torre. I ragazzi di borgata erano molto più smaliziati di quelli di paese, ma, se possibile, anche molto più malmessi. Nella borgata i miei alunni vivevano fianco a fianco con la delinquenza. Questa era di volta in volta un fratello, un padre, un cugino, uno zio. Oppure gli amici già usciti dalla scuola o in essa mai entrati. Quando arrivai venni accolta come tutti i colleghi: diffidenza e scherzi pesanti. Erano tutti molto più grandi dell’età regolare. Le battute si sprecavano. Spavaldi, mi sfidavano. Raccontavano le loro avventure delinquenziali. Rifiutavano apertamente la scuola, la sola idea di una promozione sociale attraverso lo studio li rendeva sarcastici e aggressivi. Erano pronti a percorrere le strade dei loro fratelli.
All’inizio non ricevevo un trattamento diverso dagli altri colleghi. Fu la politica che li avvicinò a me. Sorgevano ovunque comitati di quartiere, io li frequentavo, facevo notte con i loro genitori alle assemblee, andavamo assieme a protestare sotto il Campidoglio. Non era una tattica e nemmeno una didattica, la mia. Era solo la mia passione politica ma mi rese una di casa per loro, una come loro, arrabbiata come le loro madri e i loro padri. Mi guardavano con occhi diversi, non ero più una nemica. Prima mi trovarono matta, poi strana, poi simpatica, poi ci incontrammo. Ci volle del tempo. Troppo diffidenti, troppo delusi, troppo ingannati da troppa gente, per credere che mi importasse davvero qualche cosa di loro. E invece mi importava e come. Mi arrovellavo. Non mi sono mai rassegnata a considerarli sconfitti già a quattordici, quindici anni.
Non siete tenuti a commuovervi, nemmeno io ero commossa. Ma incazzata sì e quanto. Quando non li vedevo per qualche giorno li andavo a cercare a casa, anche al campo nomadi me li andavo a riprendere, litigavo con padri e madri che non volevano mandarli a scuola. Facevo patti strategici, contrattando per averli in classe i giorni dispari e lasciandoli alle famiglie i giorni pari. I loro impegni dei giorni pari erano nebulosi-Aiuta-dà una mano al fratello-Mi dicevano-Mi incaponivo-Sì, ma a fare CHE?- Di tutto: idraulico, muratore, attacchino, meccanico, gommista. Io speravo che fosse vero e il più delle volte lo era, ma delle volte non lo era affatto e in classe ci scherzavano su. Io stavo in ansia, loro mi prendevano in giro, il Preside disapprovava la mia prossimità alle famiglie. Per carità, “apprezzava le mie buone intenzioni”, ma “la scuola perde di prestigio, se siamo noi a pregarli di venirci”. Prestigio? Scuola e prestigio: un binomio inconcepibile. Per tutta la società italiana, ieri come oggi. E sempre di più. Con una bella mano di ipocrisia sopra.
Man mano che ci si avvicinava alla città i colleghi peggioravano. Erano sempre più numerosi quelli di ruolo, quelli che “la cattedra tanto non me la toglie nessuno”, quelli che si assentavano ad ogni stormir di foglia, ma incastrando le loro assenze con le vacanze, cosicchè non era possibile prendere un unico supplente che portasse avanti uno straccio di programma. E i miei ragazzi ne cambiavano sei, sette in un anno. Al primo consiglio di istituto dell’anno, io mi alzavo e rivolgendomi ai colleghi di ruolo li pregavo di concentrare i due, tre mesi di assenze che già avevano in programma di fare, in un unico periodo. S’indignavano, protestavano e poi si assentavano. -Scommetti che so il giorno esatto in cui ti ammalerai e quello in cui ti ristabilirai?- chiedevo incontrandoli nella sala professori. Mi odiavano. Io odiavo loro. In ogni scuola dove arrivavo aprivo una sezione sindacale. Nella scuola allora c’era solo il sindacato cattolico attivo, molto grosso e molto frescone.
Quando andai dal responsabile per la scuola del più grande sindacato italiano, Papà Sindacato, che della scuola si disinteressava ampiamente, perché tanto si sa che i professori votano Democrazia Cristiana, mi guardò dubbioso, dicendo che non c’era spazio nella scuola per un sindacato di sinistra. Chiesi un po’ di informazioni tecniche per aprire una sezione. Esitava nel suo comodo scetticismo. Insistetti. Alla fine mi dette le informazioni necessarie. Commentò ironico-Buona fortuna: o diventi un altro Di Vittorio o ti cacciano dalla scuola.-Non mi interessava diventare Di Vittorio ma non ero disposta a farmi cacciare dalla scuola. Ci provarono. Non ero di ruolo. Arrivavo nelle varie scuole preceduta dalle mie note personali.
‘Pericolosa sovversiva.’ Erano gli stessi anni in cui alle riunioni politiche mi si rimproverava di essere legalitaria. Sovversiva? Legalitaria? In qualche modo riuscii a non diventare schizofrenica. Aprivo la mia sezione sindacale, attaccavo la mia bacheca al muro e ottenevo quella preziosa ora di assemblea al mese. Che me ne facevo? Niente di eroico o di rivoluzionario. Convincere i colleghi che fare uno sciopero non si configurava come un attentato alla sacralità dello stato e che ci si poteva rifiutare di adottare i testi raccomandati dal preside. Erano riunioni molto intime. Un paio di colleghi, una bidella. Ma non mi scoraggiavo. Allora avevo energie da vendere. Del resto le mie battaglie erano talmente modeste che a pensarci adesso fanno ridere. Una delle più epiche è stata quella per la carta igienica. Avete letto bene. Da anni distribuivo carta igienica nelle scuole della provincia di Roma. Ho comprato tanta di quella carta igienica che neanche nel reparto diarroici di un ospedale. E ogni volta al Consiglio di istituto di apertura d’anno, dovevo porre una mozione d’ordine: -Si prevedeva di dotare i bagni degli alunni di carta igienica?- No, non si prevedeva, non si prevedeva mai. Non c’erano i soldi. -E poi i ragazzi, si sa, della carta igienica se ne infischiano. I rotoli se li tirano.- In un consiglio di istituto un coltissimo professore di lettere, erudito vero (molte delle voci letterarie di una grande Enciclopedia sono sue) ebbe la sventura di dichiarare che "la volgarità dei ragazzi lo feriva più della loro ignoranza". Non riferirò la mia risposta. Ma il professore *** si pentì di quel suo sfoggio di sensibilità estetica. La mia battuta fece il giro della borgata. Un padre venne apposta al colloquio assieme alla moglie per guardarmi in faccia. La sua era una bella faccia. Ma quella della moglie era addirittura splendente quando le comunicai che in italiano suo figlio andava bene. Per anni le avevano ripetuto che non sapeva scrivere. Tecnicamente era vero. Ma quel ragazzino aveva un mondo ribollente dentro di sé. Al compito in classe me lo mettevo seduto vicino. –Detta- gli dicevo-Detta quello che ti viene in mente. Lo scrivo io.- La carta lo intimidiva, la penna lo paralizzava. Ma piano piano diceva quello che aveva da dire. Cominciava esitante, alla fine non riuscivo più a stargli dietro. -Aspetta -ero costretta a dirgli -non riesco a scrivere così in fretta- Io scrivevo esattamente quello che lui aveva mormorato nella sua trance, poi a casa correggevo il suo tema come ogni altro. Tutti gli errori di sintassi e di grammatica erano lì, dettati da lui naturalmente, ma per quanto mi sforzassi non potevo riprodurre i suoi eventuali errori di grafia. Mi basavo sulle statistiche. Insomma gli addebitavo un certo numero di acca fuori di posto, un mucchietto di doppie, svariati accenti. Ma i suoi temi resistevano. Scriveva bene. Pardòn, pensava bene.
Un giorno protestò: Ma perché fai tutti questi errori!? Andammo avanti così per sei mesi. Poi lo dichiarai svezzato.
domenica 8 luglio 2007
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