Sento il dovere di avvertirvi: per la storia di Andrès y Amelita non aspettatevi un lieto fine. Io non credo al lieto fine. Non crediate che io sia diventata amara con l’età. Al lieto fine non ho mai creduto. Neanche da adolescente. Al cinema da ragazzina, quando the end sfumava su un bacio appassionato o un panorama sereno o un volto sorridente, io mi chiedevo: e poi? Non che io non credessi a quel momento felice, all’equilibrio di quell’istante o alla sua magia, mi facevo catturare come tutti: quello che non credevo era che la storia finisse lì e finisse così. Sapevo che c’era un poi. E sapevo che il poi avrebbe potuto essere molto diverso. Diffidavo.
L’inizio e la fine delle storie è un affare delicato. Questo vale per i rapporti tra i popoli, per le guerre, per la politica, per le lotte sindacali, per i rapporti diplomatici, ecc. Quando poi si tratta di una relazione d’amore, gli inizi e la fine andrebbero concordati, ci si dovrebbe intendere su quando considerare iniziata una storia e quando considerarla finita. Soprattutto la fine delle storie andrebbe stabilita assieme, concordata fra le due parti. Tutto è lì, nello stabilire quando una crisi è iniziata. Se ci si accorda su questo il più è fatto. Paul Watzlavick (con Beavin e Jackson) in “Pragmatica della comunicazione umana” Casa editrice Astrolabio, chiama questa pratica “punteggiatura delle seguenze di eventi”.
Approfitto per ricordare qui che il grande psicologo austriaco ci ha lasciati la primavera scorsa. E aggiungo che lo rimpiango.
Secondo me nel rapporto non si tratta tanto di star lì a discutere sulle virgole, ma di stabilire il luogo esatto del punto. Dirsi: ecco, il punto io lo metterei nella primavera scorsa al ritorno da Lucca. E tu? Io lo metterei a Natale scorso(un anno fa? Cavolo!), quando non sei venuto a cena dai miei. Oppure:il mio amore è finito a quel cocktail, quando sei stata tutta la sera a parlare con quella specie di imbrattatele. E il tuo? Il mio è finito la mattina che mi hai lasciata all’imbarco di Formia con un cane lupo al guinzaglio, un gatto nella sua cesta, una macchina carica di bagagli e un gommone sul tetto e una bimba di quattro anni che soffriva il mal di mare. -Ma era trenta anni fa’! e dopo allora? che cosa è stato?- Dopo è stato il matrimonio.
Buona battuta. La userò in una commedia.
Se riuscissimo ad accordarci sull’evento che ha segnato per l’uno e per l’altro un punto critico, di svolta, poi potremmo chiudere la nostra storia con meno amarezza, meno rancori, meno voglia di rivincita. E meno maldicenza. Dovremmo dedicare al racconto della fine dei nostri rapporti lo stesso tempo che dedichiamo al racconto dell’inizio.
Agli innamorati piace raccontarsi l’inizio della loro storia d’amore, questa è una delle tappe immancabili in una relazione; è intensa, partecipata, appassionante come l’amore stesso. I ricordi sono recenti, riaffiorano con il loro sapore e il loro turbamento. Ci si racconta l’inizio del proprio amore per goderselo meglio, per scambiare l’emozione della scoperta.
Quando ti ho vista sul battello per Oslo, quando sei entrata nello studio del notaio, quando ti sei alzato al ristorante al momento della presentazione, quando mi hai detto: aimez vous Brahms? Ma sarebbe altrettanto se non più importante, stabilire la fine. E poi non è l’inizio che dà il senso di un rapporto d’amore. È la fine che lo svela. L’inizio il più delle volte lo occulta. Stordimento, mancanza di lucidità, ingenuità, fantasie, speranze: sono tutte componenti che vietano di chiarirci che cosa sta veramente iniziando e come veramente è. È la fine che ci dice di che cosa si è davvero trattato. È solo dopo, che siamo in grado di dire: è stato solo un flirt, è stato un impazzimento, è stato il vero amore della mia vita, è stata una cazzata... Questo vale anche per i film, vale per i libri, anche i più famosi. Se i Promessi Sposi, per scegliere il più detestato dei romanzi italiani, terminasse quando Lucia informa Renzo del suo voto di castità e noi vedessimo il povero Renzo allontanarsi solo, mentre lei alza uno sguardo ispirato ad un cielo completo di arcobaleno, staremmo ancora qui a discutere dell’intervento della Divina Provvidenza? E se terminasse prima ancora, quando Renzo conduce la sua ricerca ostinata di Lucia e il Manzoni si fosse arrestato lì senza dirci se la trova o non la trova? Parleremmo di un significato simbolico della ricerca della felicità, di un eroe già moderno e della vita come ricerca senza fine. La stessa cosa potremmo fare con Anna Karenina. Se terminasse prima del suicidio di Anna, continueremmo a dire che Tolstoj ci ha parlato della tragica connessione tra Amore e Morte? O non staremmo qui a discutere della morte della famiglia e magari a considerare Anna protofemminista?
Questo procedimento, che riconosco abusivo nei confronti dell’autore, svela però l’inganno che sempre si nasconde dietro la parola fine. Figuriamoci dietro le due fatidiche “lieto fine”. Applicatelo ai film amati, non cambiando il finale, ma semplicemente anticipandolo. Li vedrete cambiare sotto i vostri occhi. Forse vi piaceranno di meno, ma chissà forse di più.
Comunque per tornare ad Andrès y Amelita, anche se l’ultimo brano sul mio i-pod fosse la marcia nuziale di Mendelssohn (mi sorprenderei molto ma Mr. i-pod vive di vita propria) scordatevi il lieto fine. Forse dovrete scordarvi anche la fine...
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