lunedì 30 luglio 2007

docente/discente

docente/discente

Ho avuto molti presidi. Il preside al sapore di caffè, la preside contraria ai pantaloni, il preside che stendeva i panni in presidenza e poi un numero imprecisato di presidi anonimi. Presidi donne, presidi uomini, presidi incerti, non nel senso della preferenza sessuale, ma proprio incerti fra l’essere e il non essere. Respirare appena e far finta di essere vivi. E poi ho avuto un vero Preside. Un solo anno, poi fu fagocitato dal Ministero. Era un uomo anziano, o almeno allora mi appariva così. Voluminoso, distintissimo, impeccabile. Aveva un problema di linguaggio. Ogni tanto si inceppava e contemporaneamente il volto gli veniva attraversato da una specie di terremoto che ne alterava tutti i lineamenti. Sembrava una persona in procinto di affogare. Poi com’era venuto, lo scossone passava e lui riprendeva il suo discorso nel punto esatto in cui il terribile affronto del suo cervello glielo aveva troncato. Non commentava mai quello che gli era successo, non si scusava, non arrossiva, non distoglieva lo sguardo. Aspettava che la tempesta passasse e poi ripartiva. Malgrado questi episodi ascoltarlo era un piacere. Per la prima volta, e per l’ultima, pensai che un preside potesse insegnarmi qualcosa, che avevo qualcuno cui potevo chiedere consiglio, spiegare i problemi, le difficoltà del mio lavoro. Imparare. Fu l’unico cui sentii parlare di didattica, di pedagogia, di psicologia. Prendevamo entrambi il pullman a Porta Maggiore. Quando arrivavo alla fermata lui era già lì. Si sedeva, si metteva gli occhiali, tirava fuori un libro e si metteva a leggere. Io mi sistemavo sempre lontana, in genere dormivo e poi non volevo disturbarlo. Ma un paio di volte mi capitò di vedere cosa leggesse. I tragici greci. In greco. Qualche volta aspettando il pullman, chiacchieravamo. Una voltà mi raccontò tranquillamente che la notte non dormiva.Un paio di ore, forse, mai di più. Non soffriva di insonnia, ma trovava che era tempo perso. –Non credo che vivrò a lungo- commentò in tutta flemma. Dopo pochi anni seppi infatti che era morto. Fui contenta che avessse usato tutto il suo tempo. Quella volta mi disse che la notte leggeva e scriveva. Drizzai le orecchie. Che cosa scrive Preside? –E traduco, anche-aggiunse. Ma alla domanda sulla sua scrittura non aveva risposto. Traduceva dal greco, naturalmente. Traduceva opere già tradotte e opere che ancora non lo erano state. Cercava testi minori, o testi anche importanti ancora non pubblicati. In anni recenti mi è spesso capitato di pensare a lui. Sono infatti in impaziente attesa della pubblicazione, con testo a fronte, dei libri della Storia romana di Cassio Dione relativi all’epoca dell’imperatore Adriano. Mi è capitato di dirmi: Forse Dione lo ha tradotto il mio Preside e sta lì, tra le sue carte. Il greco era la sua passione e la sua malattia. Io non potevo condividerla. Il greco non è mai stata la mia materia. Partii con il piede sbagliato, forse lo presi sottogamba. Dopo qualche mese lo riacciuffai, ma non entrammo mai in confidenza. La letteratura greca, quella sì, l’ho amata molto. Ma la traduzione mi dava del filo da torcere. Era lo spaventoso ventaglio di significati per un solo verbo che mi innervosiva. Ogni verbo significava tutto e il contrario di tutto. Destabilizzante. Traditore. Se sbagliavi il significato di un verbo all’inizio di una versione poi sbagliavi tutto il resto perché sceglievi, conseguentemente, altri significati sbagliati. Era frustrante saper tradurre grammaticalmente e sintatticamente un brano e non riuscire a penetrarne il significato. Allora, come sempre, avevo bisogno di chiarezza, di certezze, di ordine. Ero già abbastanza sospesa di mio. Il latino, era la mia lingua. Il mondo ordinato che usciva dai classici latini. Anche quelli con lo stile più mosso, spezzettato, involuto, conservavano la cristallina bellezza di un lessico costituitosi per comprendere, spiegare e dominare la realtà. Eppure avrei tanto voluto amare il greco. Perchè amavo il mio professore di greco del liceo. Nel modo in cui amiamo un professore: ammirazione, soggezione, rispetto. Silenzio e occhi attenti. Il mio professore di greco si chiamava Brighi. Corpulento e sordo. Portava un apparecchio a correzione della sua sordità, minuscoli occhialetti dorati, ed aveva una scienza ed un’ eloquenza senza pari. Aveva anche uno spirito sarcastico che non mi risparmiò. Invece di voti numerici attribuiva alle versioni le lettere dell’alfabeto greco, in ordine crescente. Una volta mi mise “alfa /omega” insieme. Chiesi spiegazioni. Rispose che la versione raccontava benissimo una storia molto interessante che meritava il massimo, l’omega appunto. Ma purtroppo la storia vera era un’altra, da cui appunto l’alfa. Mi invitò a liberare la mia mente dalla mia prima traduzione e a rifare a casa la versione. La ripresentai. Disse che era una storia ben congegnata, ma era una terza storia che non aveva niente a che fare con quella vera. Mi restò l’alfa. In seguito andò meglio e infine imparai ad evitare i trabocchetti di quella lingua traditrice, ma non la amai mai. Fui poi ammessa alla maturità con otto in greco e otto riportai agli esami, ma continuai a non amarla. Mia figlia ha pareggiata il mio conto con il greco. È una vera grecista. Laureata in filologia micenea. Fa un po’ orrore, no? Il Professore di greco, che intuiva benissimo la mia lotta corpo a corpo con l’inafferrabile creatura che era il lessico greco, e insieme la mia passione per la filosofia, la storia, la letteratura di quel popolo, nutrì per tre anni la mia fame di sapere con una generosità ed una ricchezza di cui gli sarò sempre grata. Aveva una cultura radicata negli studi classici ma dilatata oltre ogni confine. Ci parlava di tutto: letteratura, teatro, cinema, arte, filosofia.Voleva insegnarci a penetrare il mondo e seguirlo in questo viaggio rendeva le ore passate con lui un incanto. In classe eravamo tutte innamorate di quell’uomo con la pancia, sordo, vestito sempre di blù, elegantissimo e ironico, che sorrideva con affetto della nostra giovinezza senza invidiarcela, ma incoraggiandoci a viverla. A me fece uno dei regali più belli che io abbia mai ricevuto. Gli portammo da firmare la foto di gruppo di fine corso, come allora si usava. Firmava un po’ ironico, scuotendo la testa, e quando toccò a me si fermò. Mi guardò solo un attimo, come soppesandomi. Poi tracciò una frase dietro la foto, e me la restituì. A Marina P. con l’augurio che resti sempre kalè kai agazè.( Speriamo che mia figlia mi perdoni per non aver usato i caratteri giusti!). Letteralmente bella e buona, vero professore? Ma, caspiterina, o cazzarola come direbbe il mio nipotino, kalòs y agazòs è l’ideale greco di uomo, e se permettete di donna, è il compendio di quello che la Grecia antica si aspettava da un suo cittadino. Il significato di questa espressione, fiumi di parole lo hanno illustrato. Dite voi se avrei potuto non amarlo, il mio professore. Eppure l’ho tradito, a riprova del fatto che l’amore non è affatto incompatibile col tradimento. Iscrittami all’università, abbandonai il greco, dedicando tutta la mia passione al mio adorato latino.Tradii poi anche il latino, quando si trattò di scegliere la cattedra di ruolo. Invece di accettare la cattedra di italiano e latino nei licei preferii restare alle medie. Il latino però non l’ho mai abbandonato, non un solo giorno della mia vita. Per anni l’ho insegnato, a titolo gratuito, ad un numero imprecisato di figli, fratelli, nipoti vari di amiche, colleghe, semplici conoscenti.
Anche negli anni faticosi in cui peregrinavo nelle scuole medie della provincia romana, trovavo il tempo per dare lezioni a ragazze e ragazzi dai quali mi consideravo beneficata. L’ultimo ragazzo cui ho insegnato la tecnica di traduzione del latino, Cesare, figlio di una mia carissima amica, ha dato quest’anno la maturità. Della versione assegnata quest’anno agli esami si è lamentato: era troppo difficile. Beh, lo era davvero, ma, cazzarola, com’era bella!
Io mi sto guardando intorno per vedere se posso adescare un altro alunno.

2 commenti:

  1. Io invidio i tuoi alunni, quelli di ieri e quelli di oggi. Finalmente l'ho detto. Non amo provare questo sentimento ma è più forte di me. Non posso farci nulla. Nella mia carriera scolastica non ho mai avuto la fortuna d'incontrare una professoressa con il tuo slancio, nutrita dalla stessa passione, capace di trasmettere, supportare ed incoraggiare chi era in grado, a modo suo, di saper apprezzare. Ma come sai, credo fermamente che prima o poi la vita ci restituisce quello che ci è stato negato ed ecco che ora, infatti, attraverso modalità imprevedibile, il tuo essere "professoressa dentro" mi regala il piacere di sentirmi un po' tua alunna. E così giustizia è fatta.

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  2. hai deciso di farmi commuovere?
    péntiti, finché sei in tempo!

    Per essere seria: se mi ha restituita te, sono contenta.

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