martedì 31 luglio 2007

Lorenzo Cesa for president

Da ieri la mia mente vaga intorno alla storia dell' Onorevole Mele e della sua avventura. I fatti sono noti. L’Onorevole si è organizzato una serata un po’ forte all’Hotel Flora in via Veneto, con due prostitute e abbondante alcol e cocaina. Una delle due ragazze ha avuto un malore per abuso di droga ed alcol e si è fatta ricoverare al S. Giacomo. Fortunatamente, si è prontamente ripresa e non ha nulla da eccepire sul comportamento dell’Onorevole che ha regolarmente pagato la prestazione a lei e alla sua compagna. Lui lo ha chiamato “regaletto in denaro”, ma lo si può capire. Data la recente conoscenza, ignorava i gusti della ragazza, e ha preferito lasciarla libera di acquistare qualcosa a suo piacimento. L’Onorevole Mele, rilevando una contraddizione fra il suo comportamento e i valori del suo partito d’appartenenza, (contraddizione che io per altro non vedo) ha immediatamente presentato le sue dimissioni all’UDC. Piccola storia. Sulla quale ho però qualcosa da eccepire io. Perché, Onorevole, non ha accompagnato la ragazza in ospedale? Sicuramente un piccolo viaggetto in ambulanza non poteva essere per lei così ripugnante come dev'essere stato per la ragazza accompagnarsi a lei in un rapporto sessuale. Tanto è vero che la povera ha avuto bisogno di assumere abbondante droga e alcol per farlo. A lei sarebbe bastata un’oncia di dignità e senso di responsabilità per accompagnarla in ospedale, invece di liberarsene come di un oggetto scaduto. Ma di dignità e senso di responsabilità lei è privo del tutto, vero Onorevole? Con il molto Onorevole Mele finisco qui.

È il Segretario dell’UDC, Lorenzo Cesa, che solleva questa piccola, squallida, faccenda ad altezze di irripetibile comicità, al livello della grande farsa di Aristofane. Per spiegare il comportamento dell’Onorevole Mele, ci ricorda che la vita del parlamentare è “dura e grande la solitudine” dei nostri rappresentanti che vengono a Roma da collegi lontani, dove lasciano la famiglia e di conseguenza la sola legittima risposta ai loro bisogni sessuali. E vede una possibile soluzione nel “ricongiungimento familiare”. A carico della collettività, naturalmente. Ecco, per pensare ad una cosa simile, ci vuole veramente talento. Io sono ammirata. È evidente che il povero Lorenzo Cesa lo avevo fin qui sottovalutato. D’ora in poi lo seguirò con più attenzione.

Questa storia di prostitute e ipocrisia me ne ha richiamata alla mente un’altra.

Voi ricordate forse dove vi trovavate quando avete saputo che avevano ucciso John Kennedy. Io no. Ma io ricordo dove mi trovavo quando ho saputo che avrebbero chiuso “le case di prostituzione” in Italia. Legge Merlin, 1958. La legge entrò in vigore nel settembre di quell’anno. Nel luogo di villeggiatura dove passavo l’estate si giocava al campo sportivo una partitella tra i villeggianti e i ragazzi del posto. Molto accesa, molto sentita. Dal pubblico partì all’indirizzo dell’arbitro il seguente grido di dileggio: “arbitro, contento, che a settembre tua moglie torna a casa!” A lanciarlo fu un villeggiante dalla lingua particolarmente tagliente e un animo che era piuttosto un costante malanimo. Comunque ebbe il suo momento di popolarità.
Io però, adolescente e disinformata, non capii e cominciai a chiedere intorno a me nell’ordine:1- da dove tornasse la moglie dell’arbitro. 2-come facesse il villeggiante a conoscere gli affari della moglie dell’arbitro.3-perché la cosa suscitasse tanta ilarità. Avete presente lo sguardo di compatimento che i ragazzi riservano a ragazze disinformate sulle cose della vita? O meglio, riservavano. Credo che oggi le parti si siano invertite. Comunque sul posto non ottenni nessuna risposta soddisfacente. Nei giorni seguenti aprii una mia personale inchiesta finché qualche generoso non mi svelò l’arcano. Credo che in quell’episodio ci sia stato il primo seme del mio interesse per la condizione delle donne: mi indignai profondamente, non per l’arbitro del cui senso dell’ onore mi infischiavo ampiamente, ma per quelle donne cui si era alluso con quella volgarità. Quanto al ragazzo che l’aveva lanciata, per anni continuai a frequentarlo in quel luogo di villeggiatura, ma lo guardai sempre con un misto di sospetto e inquietudine. La malignità infatti mi spaventava. Del resto mi spaventa anche adesso, molto più di feroci attacchi e assalti dichiarati. È molto più difficile difendersene.

Tornando a noi: dove eravate voi quando avete saputo della legge Merlin? D’accordo, siete probabilmente troppo giovani per saperne qualcosa. Allora proviamo con questo: dove eravate nel marzo del 2003, quando gli allora Vice presidente del Consiglio Gianfranco Fini, Ministro per le riforme Istituzionali Umberto Bossi, Ministro per le Pari Opportunità Stefania Prestigiacomo (dal nome, Stefania, si direbbe una donna), hanno presentato il disegno di legge 3826 del 26/03/2003 per la revisione della Legge Merlin, nel senso della riapertura delle “case di prostituzione”? Io ero davanti alla tv e temetti di restarci.

Fantasticando pigramente intorno all’idea di Cesa sul ricongiungimento familiare per i parlamentari, ho pensato che forse le famiglie potrebbero essere ospitate tutte in quelle enormi caserme abbandonate dalle parti del Trionfale. Invece di “case chiuse”, “caserme chiuse” e invece di prostitute, e transessuali, mogli e mariti legittimi.
Devo suggerirlo al Cesa. Solo lui può apprezzare la bellezza di questa idea.

professò/in succursale

Venne un giorno in cui sembrò che io fossi arrivata finalmente a Roma. Trasferita alla Scuola Media Plinio, due passi da S. Giovanni, praticamente sotto casa. Incredulità, festa grande. Assaporavo già lo squisito piacere di uscire di casa alle otto del mattino, quando dovetti risvegliarmi dal sogno. Plinio sì, ma succursale. Quando in una scuola si pronuncia la parola succursale sotto c’è il tranello, anzi direttamente la fregatura. La succursale è sempre scomoda, disagevole, lontana e sfigatissima. Classi di disperati, locali fetidi, mezzi di trasporto inesistenti. In linea di ipotesi la succursale della Plinio non faceva eccezione, ma si trovava al Borghetto Latino. Fu quello che capovolse la situazione e trasformò quei due anni di insegnamento in una specie di idillio virgiliano. Il Borghetto Latino sono dieci case e una ventina di famiglie raccolte attorno ad uno spiazzo sotto l’acquedotto romano. Sta sulla sinistra dell’Appia uscendo da Roma e di fronte, sull’altro lato dell’Appia, c’è un esclusivo circolo di golf. L’Appia non divide soltanto due mondi, non compatibili per condizioni economiche, sociali, culturali, ma anche due tempi. L’oggi golfista e un passato penetrante. Al Borghetto Latino si viveva in familiarità con l’antica Roma. Il paesaggio era quello di secoli e secoli indietro: campagna romana, placida e sonnolenta e l’acquedotto. Silenzio, qualche cane, i ragazzini e la costruzione arrangiata della scuola, una vecchia casa colonica.
Le madri dei ragazzini stendevano i panni sotto l’acquedotto e i figli ci giocavano a pallone. Portavano a scuola cocci romani raccolti tra l’erba dei prati. Arrivare la mattina al borghetto era come sbarcare su un altro mondo, un mondo più silenzioso, più intimo, più pulito anche. Gente non toccata dalla volgarità della città, in difficoltà ma senza delinquenza, gente tranquilla e fiduciosa. Mi appoggiai a quell’atmosfera pacifica, mi riposai gli occhi e l’anima. E poi leggere nelle ore di buco, seduta sui gradini della scuola, l’Eneide di Virgilio era come camminare sottobraccio al vecchio padre della letteratura latina. A qualche centinaio di metri le tombe latine, allora non recintate, seminascoste dal verde, affiancate dai cipressi; e ogni tanto affiorava il basalto della vecchia Appia. Sullo sfondo la sagoma della tomba di Cecilia Metella. E poi il clima tra colleghi. Una congiunzione astrale particolarmente benevola aveva raccolto nella succursale alcuni dei migliori colleghi che io abbia incontrato nella mia vita di insegnante. Gente che faceva tranquillamente il suo lavoro, senza scappatoie, senza nevrastenie, gente allegramente fiduciosa verso gli alunni e aperta verso gli altri colleghi. Era una sola sezione, tre classette, quindi un piccolissimo nucleo di insegnanti. C’era collaborazione, ci si scambiavano pareri e suggerimenti. Non si fuggiva mentre la campanella ancora suonava. I ragazzini facevano ginnastica all’aperto, estate e inverno. Spesso mi fermavo oltre la mia ora e mi sedevo al margine del campo dove la mia collega Carmela faceva giocare i ragazzi a pallone o montava un cesto da basket o si inventava qualche gioco a partire dal nulla. Qualche volta giocavo con loro o facevo ginnastica con loro. Avevo anche un cane al Borghetto Latino. Uno spinone che mi aveva adottata. Mi aspettava ogni mattina e mi investiva di affetto ipercinetico, emozionato come dopo una lunga assenza. Qualche volta veniva in classe con me. Stava un’oretta poi chiedeva di uscire. Mi aspettava all’uscita, andavamo assieme a comprare qualche cosa per lui nel piccolo alimentari. Restava fermo, al centro della stradina polverosa che immetteva nel grande spiazzo della scuola, a guardarmi andar via sulla mia 500. Quel cane lo vedo ancora, e se mi concentro sento ancora sulla mano i suoi baffi ispidi. Lo chiamavo cane. Era troppo intelligente e libero e decisionista per dargli un nome di autorità. Ci trovammo tutti così bene in succursale che nessuno di noi il secondo anno chiese di passare in centrale. Il preside sospettò che non lavorassimo, che ci dessimo alla pazza gioia lontano dai suoi occhi indagatori. Fece una improvvisa comparsa, una mattina. La bidella puliva i vetri, la scuola era tranquilla. Entrò con impeto nelle tre classi, placidamente accolto da insegnanti interrotti mentre spiegavano, correggevano, raccontavano. Rinculò, messo a disagio dal clima operoso ma tranquillo. Era sospettoso e diffidente, ma non stupido. Alla prima riunione di classe disse che ci ringraziava per avergli mostrato come avrebbe dovuto funzionare ogni scuola. Era un tipo un po’ retorico, magniloquente, ma effettivamente un piccolo miracolo pedagogico aveva luogo al Borghetto Latino.

Molti anni dopo la Giunta cittadina intervenne sul Borghetto. Positivamente si intende, attuando quelle opere che erano necessarie. Ma la stampa usò, per indicarle, il termine “bonificare” il Borghetto Latino. DOVETTI scrivere al giornale su cui avevo letto la notizia, perché non c’era niente da “fare buono” al Borghetto. Bastava fare il proprio dovere di amministratori e basta.
Il Borghetto Latino era già buono di suo.

lunedì 30 luglio 2007

la brocca di Samangàn

Ho trovato una foto della cena a Samangàn con la brocca all'Amuchina in primo piano. Sì, è quell'acqua di color verdino.
Merita di lasciare una traccia.

Come pure la bellezza della tavola cui mi rendo conto di aver fatto torto con la mia scarna descrizione.
Il visetto che si affaccia sulla sinistra è quello della mia piccola figlia. Di Armando, il mago dell'Amuchina, si vede solo, in primo piano il braccio impavido. Comunque rivedendo il colore dell'acqua devo ammettere che Armando non ebbe tutti i torti.

compagno cane

Cinquanta anni fa’ moriva Giuseppe Tomasi di Lampedusa e io voglio ricordarlo a modo mio. Attraverso un piccolo ricordo personale.
Una decina di anni fa’ un amico di infanzia mi accompagnò nei pressi di Capo d’Orlando a visitare il piccolo cimitero dei cani nella villa della famiglia Piccolo, i cugini di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nella casa, una bella villa fine ottocento, fu scritta gran parte de Il gattopardo, nelle estati che lo scrittore passava in famiglia. Il parco è vasto, profumato e silenzioso. Non fa meraviglia che Tomasi di Lampedusa lo abbia scelto per dedicarsi al suo capolavoro. Il cimitero dei cani della famiglia Piccolo è una piccola area delimitata da sassi, come una grande aiuola, e porta scritti su delle pietre i nomi dei cani che vi sono sepolti. Un gesto gentile che forse ognuno di noi vorrebbe essere nelle condizioni di poter compiere. Riflettevo allora su quanto contino le condizioni materiali anche nel plasmare i nostri sentimenti, come contino nella nostra educazione sentimentale. Non sto facendo un discorso marxiano, come lo liquidò sbrigativamente il mio amico, collocato dalla sorte in una fascia sociale privilegiata. O forse sì, è proprio un discorso marxiano. Quello che voglio dire è che, se non si ha un giardino, le spoglie del nostro cane non si possono seppellire. Nelle grandi città si affidano al veterinario che aveva in cura il nostro amico. Finiranno in un inceneritore. E, se non si hanno condizioni economiche agevoli, talvolta il cane non lo si può neanche tenere, o solo a prezzo di personali sacrifici. Quelli che compiono quotidianamente anziani pensionati per nutrire e curare i compagni della loro solitudine. Una mia amica calabrese, di grande intelligenza e intuito, fuggita dalla sua terra, mi spiegava come amare gli animali fosse semplicemente impensabile nella sua infanzia. Agli occhi dei bambini, gli ultimi a mangiare alla tavola della famiglia perché i meno produttivi, gli animali erano solo un prodotto come un altro. Più o meno nello stesso periodo invece, nella bella villa dei Piccolo, i cani venivano seppelliti con cura ed affetto e le loro semplici tombe curate e tenute pulite. La differenza non risiedeva nella diversa sensibilità di quelle due famiglie così prossime geograficamente, e così lontane economicamente, ma nella possibilità di avere una sensibilità specifica.
I sentimenti costano. In ogni senso.

docente/discente

docente/discente

Ho avuto molti presidi. Il preside al sapore di caffè, la preside contraria ai pantaloni, il preside che stendeva i panni in presidenza e poi un numero imprecisato di presidi anonimi. Presidi donne, presidi uomini, presidi incerti, non nel senso della preferenza sessuale, ma proprio incerti fra l’essere e il non essere. Respirare appena e far finta di essere vivi. E poi ho avuto un vero Preside. Un solo anno, poi fu fagocitato dal Ministero. Era un uomo anziano, o almeno allora mi appariva così. Voluminoso, distintissimo, impeccabile. Aveva un problema di linguaggio. Ogni tanto si inceppava e contemporaneamente il volto gli veniva attraversato da una specie di terremoto che ne alterava tutti i lineamenti. Sembrava una persona in procinto di affogare. Poi com’era venuto, lo scossone passava e lui riprendeva il suo discorso nel punto esatto in cui il terribile affronto del suo cervello glielo aveva troncato. Non commentava mai quello che gli era successo, non si scusava, non arrossiva, non distoglieva lo sguardo. Aspettava che la tempesta passasse e poi ripartiva. Malgrado questi episodi ascoltarlo era un piacere. Per la prima volta, e per l’ultima, pensai che un preside potesse insegnarmi qualcosa, che avevo qualcuno cui potevo chiedere consiglio, spiegare i problemi, le difficoltà del mio lavoro. Imparare. Fu l’unico cui sentii parlare di didattica, di pedagogia, di psicologia. Prendevamo entrambi il pullman a Porta Maggiore. Quando arrivavo alla fermata lui era già lì. Si sedeva, si metteva gli occhiali, tirava fuori un libro e si metteva a leggere. Io mi sistemavo sempre lontana, in genere dormivo e poi non volevo disturbarlo. Ma un paio di volte mi capitò di vedere cosa leggesse. I tragici greci. In greco. Qualche volta aspettando il pullman, chiacchieravamo. Una voltà mi raccontò tranquillamente che la notte non dormiva.Un paio di ore, forse, mai di più. Non soffriva di insonnia, ma trovava che era tempo perso. –Non credo che vivrò a lungo- commentò in tutta flemma. Dopo pochi anni seppi infatti che era morto. Fui contenta che avessse usato tutto il suo tempo. Quella volta mi disse che la notte leggeva e scriveva. Drizzai le orecchie. Che cosa scrive Preside? –E traduco, anche-aggiunse. Ma alla domanda sulla sua scrittura non aveva risposto. Traduceva dal greco, naturalmente. Traduceva opere già tradotte e opere che ancora non lo erano state. Cercava testi minori, o testi anche importanti ancora non pubblicati. In anni recenti mi è spesso capitato di pensare a lui. Sono infatti in impaziente attesa della pubblicazione, con testo a fronte, dei libri della Storia romana di Cassio Dione relativi all’epoca dell’imperatore Adriano. Mi è capitato di dirmi: Forse Dione lo ha tradotto il mio Preside e sta lì, tra le sue carte. Il greco era la sua passione e la sua malattia. Io non potevo condividerla. Il greco non è mai stata la mia materia. Partii con il piede sbagliato, forse lo presi sottogamba. Dopo qualche mese lo riacciuffai, ma non entrammo mai in confidenza. La letteratura greca, quella sì, l’ho amata molto. Ma la traduzione mi dava del filo da torcere. Era lo spaventoso ventaglio di significati per un solo verbo che mi innervosiva. Ogni verbo significava tutto e il contrario di tutto. Destabilizzante. Traditore. Se sbagliavi il significato di un verbo all’inizio di una versione poi sbagliavi tutto il resto perché sceglievi, conseguentemente, altri significati sbagliati. Era frustrante saper tradurre grammaticalmente e sintatticamente un brano e non riuscire a penetrarne il significato. Allora, come sempre, avevo bisogno di chiarezza, di certezze, di ordine. Ero già abbastanza sospesa di mio. Il latino, era la mia lingua. Il mondo ordinato che usciva dai classici latini. Anche quelli con lo stile più mosso, spezzettato, involuto, conservavano la cristallina bellezza di un lessico costituitosi per comprendere, spiegare e dominare la realtà. Eppure avrei tanto voluto amare il greco. Perchè amavo il mio professore di greco del liceo. Nel modo in cui amiamo un professore: ammirazione, soggezione, rispetto. Silenzio e occhi attenti. Il mio professore di greco si chiamava Brighi. Corpulento e sordo. Portava un apparecchio a correzione della sua sordità, minuscoli occhialetti dorati, ed aveva una scienza ed un’ eloquenza senza pari. Aveva anche uno spirito sarcastico che non mi risparmiò. Invece di voti numerici attribuiva alle versioni le lettere dell’alfabeto greco, in ordine crescente. Una volta mi mise “alfa /omega” insieme. Chiesi spiegazioni. Rispose che la versione raccontava benissimo una storia molto interessante che meritava il massimo, l’omega appunto. Ma purtroppo la storia vera era un’altra, da cui appunto l’alfa. Mi invitò a liberare la mia mente dalla mia prima traduzione e a rifare a casa la versione. La ripresentai. Disse che era una storia ben congegnata, ma era una terza storia che non aveva niente a che fare con quella vera. Mi restò l’alfa. In seguito andò meglio e infine imparai ad evitare i trabocchetti di quella lingua traditrice, ma non la amai mai. Fui poi ammessa alla maturità con otto in greco e otto riportai agli esami, ma continuai a non amarla. Mia figlia ha pareggiata il mio conto con il greco. È una vera grecista. Laureata in filologia micenea. Fa un po’ orrore, no? Il Professore di greco, che intuiva benissimo la mia lotta corpo a corpo con l’inafferrabile creatura che era il lessico greco, e insieme la mia passione per la filosofia, la storia, la letteratura di quel popolo, nutrì per tre anni la mia fame di sapere con una generosità ed una ricchezza di cui gli sarò sempre grata. Aveva una cultura radicata negli studi classici ma dilatata oltre ogni confine. Ci parlava di tutto: letteratura, teatro, cinema, arte, filosofia.Voleva insegnarci a penetrare il mondo e seguirlo in questo viaggio rendeva le ore passate con lui un incanto. In classe eravamo tutte innamorate di quell’uomo con la pancia, sordo, vestito sempre di blù, elegantissimo e ironico, che sorrideva con affetto della nostra giovinezza senza invidiarcela, ma incoraggiandoci a viverla. A me fece uno dei regali più belli che io abbia mai ricevuto. Gli portammo da firmare la foto di gruppo di fine corso, come allora si usava. Firmava un po’ ironico, scuotendo la testa, e quando toccò a me si fermò. Mi guardò solo un attimo, come soppesandomi. Poi tracciò una frase dietro la foto, e me la restituì. A Marina P. con l’augurio che resti sempre kalè kai agazè.( Speriamo che mia figlia mi perdoni per non aver usato i caratteri giusti!). Letteralmente bella e buona, vero professore? Ma, caspiterina, o cazzarola come direbbe il mio nipotino, kalòs y agazòs è l’ideale greco di uomo, e se permettete di donna, è il compendio di quello che la Grecia antica si aspettava da un suo cittadino. Il significato di questa espressione, fiumi di parole lo hanno illustrato. Dite voi se avrei potuto non amarlo, il mio professore. Eppure l’ho tradito, a riprova del fatto che l’amore non è affatto incompatibile col tradimento. Iscrittami all’università, abbandonai il greco, dedicando tutta la mia passione al mio adorato latino.Tradii poi anche il latino, quando si trattò di scegliere la cattedra di ruolo. Invece di accettare la cattedra di italiano e latino nei licei preferii restare alle medie. Il latino però non l’ho mai abbandonato, non un solo giorno della mia vita. Per anni l’ho insegnato, a titolo gratuito, ad un numero imprecisato di figli, fratelli, nipoti vari di amiche, colleghe, semplici conoscenti.
Anche negli anni faticosi in cui peregrinavo nelle scuole medie della provincia romana, trovavo il tempo per dare lezioni a ragazze e ragazzi dai quali mi consideravo beneficata. L’ultimo ragazzo cui ho insegnato la tecnica di traduzione del latino, Cesare, figlio di una mia carissima amica, ha dato quest’anno la maturità. Della versione assegnata quest’anno agli esami si è lamentato: era troppo difficile. Beh, lo era davvero, ma, cazzarola, com’era bella!
Io mi sto guardando intorno per vedere se posso adescare un altro alunno.

domenica 29 luglio 2007

guai a voi!

Guai a voi se saltate questa poesia!

Dino Campana: "Quaderno" da Canti Orfici ed altri scritti.
Mondadori

Poesia facile
Pace non cerco, guerra non sopporto
Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno
Pieno di canti soffocati. Agogno
La nebbia ed il silenzio in un gran porto.

In un gran porto di vele lievi
Pronte a salpar per l'orizzonte azzurro
Dolci ondulando, mentre che il sussurro
Del vento passa con accordi brevi.

E quegli accordi il vento se li porta
Lontani sopra il mare sconosciuto.
Sogno. La vita è triste ed io son solo

O quando o quando in un mattino ardente
l'anima mia si sveglierà nel sole
nel sole eterno, libera e fremente.


Un'altra, piccolissima.

Fabbricare fabbricare fabbricare
Fabbricare fabbricare fabbricare
Preferisco il rumore del mare
Che dice fabbricare fare e disfare
Fare e disfare è tutto un lavorare
Ecco quello che so fare.

bentornato

Sì! Sì! Sì! Ho ritrovato Raffaele! Ho ritrovato un amico! Vi devo assolutamente parlare di lui. Si chiama Raffaele. Raffaele Bella. È stato mio maestro di chitarra nei primi anni ottanta. Eravamo un piccolo gruppetto di allievi. Nel giro di cinque minuti eravamo tutti amici. Raffaele è stato l’amalgama. Buono oltre l’immaginabile, dolce, ridente, colto, tollerante, spiritoso, e bravo. Se dovessi sintetizzare il suo metodo direi così. Prima lezione: vogliamoci bene. Seconda lezione: vogliamo bene alla chitarra. Terza lezione: si suona. Io venivo da un anno di chitarra classica al Circolo Bosio, preceduto da un altro più lontano nel tempo, sempre di chitarra classica. Maestri entrambi di spessore ma, soprattutto al Circolo Bosio, con tutto il rispetto che si deve a questa istituzione, clima da funerale. Dopo un anno facevo ancora gli stessi esercizi e ogni giorno mi venivano peggio. E poi, non ricordo neppure come, incontrai Raffaele. Rivoluzione totale. Vai con la musica popolare, vai con i cantautori, vai con la musica brasiliana, vai con qualunque cosa ti salti in testa, vai e scrivi tu qualcosa, vai....Naturalmente erano tutti più giovani di me, Raffaele compreso. L’ho ritrovato miracolosamente. Mettendo ordine su uno scaffale della mia libreria, mi è capitato fra le mani il suo manuale di studio della chitarra e in prima pagina c’era la dedica. Inizia con “La vita, amica, è l’arte dell’incontro. Citazione di un verso di Vinicius De Moraes (e anche dal mitico album dei poeti, realizzato da Sergio Endrigo con Vinicius, Ungaretti, Toquinho e Sergio Bardotti, fatto di musica e poesie lette dagli autori). Quando ho digitato il suo nome in Google, immaginavo Raffaele ormai stabilmente residente in Brasile, perso tra belle donne e canti tradizionali. E naturalmente è comparso, il suo nome, strettamente intrecciato con la musica brasiliana, perché il Brasile è il suo amore e forse il suo destino. Ma alla mia e-mail ha risposto da Roma! Roma San Lorenzo, come sempre! Presto ci rivedremo, al momento è “addobbato” a letto, perché ha la schiena “problematica”. È così che si è espresso al telefono. Perché Raffaele ha un modo personalissimo di usare la lingua e tutte le lingue in cui si esprime. Fantasioso e sincretico, come il suo approccio alla vita.
Tornato da poco dal Brasile si sta chiedendo quando tornarci. Nel risentirne la voce dopo vent’anni ho avuto un moto di speranza. Chissà, forse riprenderò in mano la chitarra, abbandonata da anni. Chissà forse Raffaele mi troverà un coro che faccia musica brasiliana, chissà forse... Insomma un moto di speranza in qualche cosa di nuovo. Ma anche la gioia di ritrovare qualcosa di vecchio. No, Raffaele non è vecchio, ha dieci anni esatti meno di me e dubito fortemente che possa mai diventare vecchio, nonostante la sua schiena “problematica”. Ma ritrovare il perduto allarga la nostra vita, risposta i confini che ci eravamo rassegnati a stringerci addosso. Apre. Ci apre. E riaprirsi è bello. Bentornato Raffaele.
www.raffaelebella.it

venerdì 27 luglio 2007

vizi capitali/tre/gola

Giorno funesto: Rolando ha chiuso per ferie. Inizia per me una serie di sabati in cui vagherò per la città in cerca di un pallido sostituto. So già che non lo troverò.

Da quarant' anni tutti i sabati, tranne rarissime eccezioni, pranzo in una trattoria vicino casa. La chiamerò da Rolando, perché per nulla al mondo ne rivelerei il vero nome, neanche sotto tortura. Fu aperta nella primavera del 1967 da una coppia di robusti abruzzesi che fino ad allora avevano gestito una pompa di benzina Esso, D. e Natalina. Mio marito ed io, non ancora sposati, ne fummo in assoluto i primi due clienti e ne siamo oggi i più vecchi. Qui ci starebbe bene un ahimé, ma di fronte alla cucina di Rolando neanche del passare del tempo ci si può rammaricare. Mangiare da Rolando per me non si configura come mangiare fuori, ma come mangiare a casa, solo in una diversa sala da pranzo. Infatti da loro sono proprio come a casa mia. Il sabato a pranzo i clienti sono sempre gli stessi, da decenni ormai ci conosciamo ed è piacevole per tutti chiacchierare da un tavolo all’altro in amicizia. La precedente attività di D. non faceva presagire quello che quei due abruzzesi semplici e “ruspantini” potessero combinare insieme in cucina. La spesa veniva fatta da D. con la stessa cura e la stessa attenzione con cui l’avrebbe fatta per la sua tavola e con lo stesso spirito Natalina ha sempre cucinato. D. è morto due anni fa e Natalina, benché un po’ malandata, (porta il busto) ancora sovrintende in cucina sul lavoro dei due figli, Rolando e Fabio. Di figli ne ha avuti cinque, due femmine che hanno preso altre strade (insegnante una, commercialista l’altra) e tre maschi che, dopo la scuola alberghiera, hanno continuato il mestiere nel quale con passione e coraggio il padre si era cimentato. Uno dei tre, Alessandro, ha sposato una giovane turista cinese, capitata casualmente a cena nel locale e innamoratasi insieme della cucina e di Alessandro. Lui l'ha seguita ad Hong Kong, dove ha aperto una succursale del locale. È diventato uno dei locali più cari e richiesti di Hong Kong. Stessi prodotti della casa madre di Roma. Tutto arriva dall’Italia, mozzarella fresca di bufala compresa, e così i vini e i pomodori e l’olio. Qui a Roma sono rimasti Rolando e Fabio a mandare avanti il locale. Con qualche novità rispetto alla “carta” paterna. Infatti hanno inserito il pesce che prima D. non cucinava mai. Rolando va alle aste a Fiumicino a comprarlo (per Natale mi porta talvolta con sé) e Fabio lo cucina con una mano esatta eppure fantasiosa. La clientela della sera è completamente diversa da quella che io incontro il sabato a pranzo.Così mi racconta mia figlia, più "serotina" di me. Non più noi vecchi habitués, ognuno con le sue piccole manie e i suoi desiderata, ma un po' di mondanità.
Bella gente -dice ironico Rolando. Molto vicino al locale c’è un palazzo del Ministero della Difesa. Per un periodo ci abitò Salvo Andò, allora Ministro; adesso ne vedo uscire spesso Parisi. Io prendo in giro Rolando- Com’è che non mi hai fatto la crostata di ricotta? ah già, adesso cucini per il Ministro.- Ma Rolando è un vero filosofo -Marì, i ministri passano, ma tu resti. -E tira fuori la crostata. Rolando l’ho visto bambino. Stava in cucina sul seggiolone mentre Natalina cucinava. E così ho visto nascere e crescere gli altri figli di Natalina. Rolando mi dà le sue ricette e mi manda a casa i suoi piatti quando non sto bene. Io gli do il ketchup fatto da me e i limoni del mio terrazzo con cui lui fa il limoncello. Ha due figli, la più piccola, Irene, ha l’eta di mio nipote Tommaso. Con lui siamo alla terza generazione di frequentatori e già dimostra di apprezzare la cucina della casa. Allora, di questa famosa cucina, parliamone. Il minestrone di ceci, o quello di verdure sono minestre pastose ma morbide, un equilibrio perfetto tra un sapore e l’altro, mai una nota stonata, e il piccolo tocco di olio a crudo sopra.
Le sue melanzane alla parmigiana semplicemente non hanno uguali. Sontuose, irripetibili, ricche ma salde, non precipitano al suolo come una frana sfatta, ma non sono asciutte e stoppacciose come un cartone. Sono ferme ma generose. Natalina ha dato il ‘là’ 40 anni fa’ e tutto si fa come lei decise allora. Tutto a mano naturalmente. Non solo le fettuccine e gli gnocchi, come è semplicemente doveroso, ma anche la famosa pasta alla chitarra, vero banco di prova di un' abruzzese autentica e persino i rigatoni per la carbonara. La carbonara è un piatto talmente semplice e radicale che l’esecuzione è difficilissima. Non è un paradosso. Se commettete un errore non potrete nasconderlo. La carbonara non dev’essere asciutta, ma guai se invece i rigatoni navigano nel grasso. Il senso delle proporzioni nella carbonara è imperativo. Del resto le parole equilibrio e misura tornano costantemente in cucina. La cucina da Rolando è un connubio felicissimo tra tradizione abruzzese e romana. Qualcuno forse storcerà la bocca alla parola ‘coda alla vaccinara’ e lì commetterà un errore non perdonabile. Dimenticate la caricatura che ne viene fatta nei filmacci di ambientazione romana. La coda alla vaccinara è un piatto frutto di pazienza illimitata e gusto sottile. La coda va privata del grasso in eccesso ma lasciata morbida, va cotta lentissimamente insieme ad abbondante sedano in un sugo leggero di pomodoro. Il risultato è che la carne è morbida e si stacca dall’osso senza bisogno del coltello e il sugo è fluido e saporoso. È perfetto per condire la pasta. Tutto quello che si cucina da Rolando è di prima qualità. Molti prodotti vengono dal piccolo paese dell’Abruzzo dove Rolando ha l’orto e il frutteto. Così le castagne per la crema e le mele per la crostata, come pure le lonze, i prosciutti, il guanciale, le salsicce, e il maialino che, arrostito, si scioglie in bocca senza lasciare nessun residuo di grasso. A parlare del maialino ho un piccolo senso di colpa, perché, nonostante diversi tentativi, non riesco a diventare vegetariana. L’olio è quello di casa e quando nella cucina italiana si parte da un olio buono si è a metà dell’opera. Se poi si sanno pulire le verdure, senza lasciare residui duri allora si può aspirare a chiamarsi cuoco. Anche dei semplici broccoletti saltati in padella possono raggiungere le vette del gusto. E da Rolando si raggiungono. Quando, qualche anno fa’, Rolando comparve su un’ importante guida noi vecchi clienti ci allarmammo -Adesso arriveranno a frotte.- Infatti arrivarono, ma grazie a dio vanno la sera e io non li vedo e non li sento e continuo ad andare da Rolando senza dovermi vestire diversamente dalla mia passeggiata mattutina. Dal canto suo Rolando si informò presso un avvocato, vecchio cliente, per sapere se poteva pretendere di essere cancellato dalla guida, non avendo mai dato la sua autorizzazione. Insoddisfatto della risposta ad ogni buon conto protestò telefonicamente. E del giornalista cui doveva la citazione in guida disse testualmente: -Se si ripresenta gli dico che non c’è posto.- Questa è un’altra deliziosa caratteristica di Rolando: seleziona i clienti. Io ho imparato a riconoscere al primo sguardo quelli che non accetterà. Si affacciano, io lo guardo e ridacchio aspettando il classico –I tavoli sono tutti prenotati.-Allora che aveva questo che non andava?-gli chiedo. Spesso l’unico torto del respinto è di essere straniero. Non per razzismo. Rolando non sa nemmeno che cosa sia il razzismo, ma ritiene che gli stranieri in linea di massima non siano in grado di capire la sua cucina. -È piena la strada di ristoranti adatti ai turisti-dice -Perché proprio qui?-
La sua cucina è troppo raffinata nella sua semplicità. Il ristorante di Rolando si trova su una delle strade percorse dalle grandi manifestazioni politiche che finiscono a S. Giovanni. Certi sabati 'politici', gente insolita si affaccia e Rolando decide sui due piedi se accoglierli o no. Non ha preclusioni politiche, la politica non è una cosa davvero seria per lui. Cucinare e mangiare bene lo è. È molto professionale, con i suoi nuovi avventori, ma passando accanto al mio tavolo mi lancia commenti a mezza bocca, di un’ ironia squisita come il suo ciambellone con la crema. Ad ognuno dei tre fratelli, che ho visto nascere e crescere, io voglio bene e viceversa. Loro mi sfottono per il mio appetito, scherzano sul fatto che, se decido di fare una dieta, poi sono incapace di resistere due sabati di seguito. Ma, affetto a parte, alla loro cucina non rinuncerei mai.
E, last but not least, la parola Gola là dentro non è mai stata pronunciata. La gola non esiste. Esiste il gusto: o ce l’hai o non ce l’hai. Ed esiste la salute e il benessere e la gioia di vivere.
Anche per questo mi trovo bene da Rolando.

fiacca

Nun ce lo so si quanno dormo, sogno
ma sogno quanno vado ‘n giro sveja
co le mano ‘n saccoccia
e bassa la capoccia
co l’occhi fissi su li sampietrini
come si annassi ’n cerca de quatrini
dop’esseme scolata mezza boccia

Nun ce lo so si quanno dormo, sogno
ma sogno quanno sto’ ‘n mezzo alla gente
e mentre che la guardo bene ‘n faccia
nun la vedo pe gnente
quanno l’artri me parleno sparati
e io li seguo co ‘no sguardo attento
e invece nun li sento

Nun ce lo so si quanno dormo, sogno
ma sogno quanno tengo l’occhi aperti
come si annassi a caccia de la vita
mentre invece la luna co le stelle
cerco de nun vedelle
vorto le spalle ar sole
me sento fiacca e nun c’ho più parole.
m.p.


E' maledettamente più difficile scrivere in dialetto che in lingua.
Anche i miei alunni furono d'accordo.

giovedì 26 luglio 2007

gesti

I gesti che mi piacciono.
Quelli che mi danno una gioia insieme fisica e mentale. Quelli che regalano la compiutezza, sia pure breve. I gesti che mi riescono bene. I gesti che faccio in scioltezza. Gesti. Solo gesti. Niente di miracoloso. Niente di speciale.


Spalancare le persiane la mattina.
Ti sporgi un po’, imprimi un piccolo slancio, allarghi le braccia mentre spingi i due battenti e il busto e il viso si protendono nell’aria fresca del mattino. Se la persiana fa un piccolo rimbalzo contro il muro, tu la riaccompagni con una seconda spintarella ed è fatta. Di fronte a te il mattino. Un giorno tutto nuovo.

Chiudersi la porta di casa alle spalle.
Apri il portoncino, varchi la soglia, ti giri. Per ora nessun rumore. Poi tiri a te la porta. Senza forzare, senza sbattere, ma con lo slancio preciso che la fa chiudere perfettamente. Dai le due mandate di sicurezza, la chiave gira in scioltezza.Ti volti e infili le scale. Stai andando fuori. Quando insegnavo uscivo sempre molto presto la mattina e fuori del portone incontravo lo spazzino. Si chiamava così, con più precisione e non meno rispetto di oggi. Spazzava all’alba la piccola strada privata in cui vivevo. Si fermava appoggiato alla ramazza quando uscivo e afferrava al volo la sigaretta che gli passavo. La metteva nel taschino della tuta. Io stringevo al petto i libri, a tracolla avevo la vecchia Tolfa, mi dirigevo verso il grande viale trafficato. Entravo nel mondo.

Camminare decisa.
Le scarpe sono basse, morbide, elastiche. Tu senti il terreno, come una base salda, che ti sostiene. Allunghi la gamba, un passo lungo ma senza sforzare, esatto, della misura piena delle tue gambe, e l’equilibrio fra la gamba che si solleva e quella che appoggia è fluido e perfetto. Senti la spinta elastica che risale lungo la schiena e ti raddrizza le spalle. Cammini e la strada è tutt’uno col tuo passo. Non c’è sforzo, non c’è fretta, c’è solo la spinta e l’appoggio. Semplice.

Nuotare.
Non ti butti, ma ti lasci andare nell’acqua. Ruoti un po’ su te stessa per ambientarti, prima affondi un po’ di petto, abbandonata, poi ti volti e ti inarchi un po’ sulla schiena, affondando la testa. Ti risollevi, scuoti la testa e ti slanci decisa. La testa a pelo dell’acqua, le braccia che ruotano senza sforzo, le gambe che battono regolari, il respiro attutito dall’acqua che ti passa sopra la testa. Nuoti piano, le bracciate sono lente, ma misurate ed eguali.Voltando periodicamente la testa aria ed acqua fresche ti entrano ed escono dalla gola. Se tieni gli occhi chiusi, non serrati, solo chiusi, attraverso le palpebre puoi intravedere l’azzurrina liquidità in cui avanzi. In cui avanzi.

Fa parte dei paradossi della vita, quelli per cui la vita la benemaledico, che tutti i piccoli gesti che mi danno un piacere fisico abbiano a che fare con lo spostamento, con il muoversi, con l’andare. Avevo un padre che andava. Sempre. Un padre che non stava. Sempre colto tra un movimento e un altro. Rientrava e si preparava ad uscire. Usciva e io mi preparavo ad aspettare. Poi non è più tornato.
E io mi sono fermata.

mercoledì 25 luglio 2007

non c'è posta per me

Se da questo blog ho dato consigli ve ne chiedo scusa.
In genere cerco di darli solo quando me li chiedono. Ma potrebbe essermene sfuggito qualcuno. In realtà quello che mi piace è sottoporre brani o libri o mie personali convinzioni o dubbi o ricordi all' altrui riflessione. E c’est tout.

E' stato Seneca, tanto per cambiare, a farmi venire il dubbio lancinante di aver somministrato consigli. Le Lettere a Lucilio.
Che, ogni volta che le leggo, mi portano a chiedermi perché nessuno mai scriva lettere così a me. Eppure ne avrei tanto bisogno!

Libro I- Lettera XXVII
“Perché mi dai consigli?”chiederai. “Forse li avrai già dati a te stesso, ti sei corretto e perciò hai tempo per correggere gli altri.”
No. Non sono così disonesto da pretendere di curare gli altri, essendo io stesso malato; ma, come se stessimo in un unico ospedale, parlo con te della comune malattia e metto in comune le medicine.
Perciò ascoltami come se io parlassi a me stesso; ti ammetto nel mio segreto e mi esamino in tua presenza.



Prometto di esaminarmi un po' meglio.

professò/in borgata

Quando sbarcai in borgata il mio stile di insegnamento dovette necessariamente subire un’ evoluzione. Dovetti imparare ad arrabbiarmi molto con i miei alunni, a rimproverarli con durezza, a minacciarli, a fare la faccia feroce. La mia passione li divertiva. -Che ti frega di noi? -mi sfidò uno.-Quando lo scopro te lo dico -gli risposi.
Al termine dell’anno fu bocciato. Fuori della scuola la sera degli scrutini mi si avvicinò. Gironzolavano intorno al luogo del delitto dal primo pomeriggio e adesso erano lì per carpire qualche anticipazione. -Non ce l’ho fatta vero?- Feci segno di no. -Va bene -fece allegramente –nun te la prende.- E chi se la prende?- provai a ribattere. -Non è me che hanno bocciato. -E allora nun fa’ quella faccia. -Era spudorato e aggressivo. -Ma io nun ce torno ‘staltr’anno a scuola. Con la F. nun ce voglia andà. -E allora dovevi studiare, pollo! perchè l’anno prossimo vai proprio con la F-. Ma l’anno successivo non tornò. Era già inserito nel sistema di piccola delinquenza della borgata. Non era colpa di nessuno. O meglio era colpa di tutti. Di tuttti noi. Veniva a scuola, ma ogni tanto eseguiva qualche lavoretto in famiglia. Portava le gomme che il fratello rubava, alla borgata Finocchio, guidando, senza patente, un camioncino. Lì un gommista le “lavorava”. -Ma che vuol dire che le lavora? chiedevo io. -Ah ma non capisci niente! le vende no?-Le tue so’ lisce professorè, te le rimedio io. Se vuoi te le faccio trovà cambiate.- Stai lontano dalla mia macchina, tu e le tue gomme!- Un altro invece mi aveva insegnato ad aprire la 500 con quelle chiavette metalliche con cui si aprivano le scatolette di tonno. - Nun se sa mai professoré è meglio che t’impari.- Ma non mi serve, ma che ci devo fare? protestavo io.- Ma la faccenda mi incuriosiva. -Ah ma sei di coccio! sbuffava ai miei fallimenti. Alla fine imparai E poi dovetti imparare a “sgommare”.Con la 500! -Dai sgomma professorè, facce vedé.-
Per una settimana parlammo tutti in dialetto. -Il primo che parla in italiano nota sul registro!- Credevano fosse una passeggiata. Invece l ’italiano riaffiorava proprio mentre non lo volevano usare. Scoprirono che un po’ d’italiano lo avevano anche loro. -Ammazza professoré ma allora parlo italiano!- Adesso che si è stabilito che l’italiano lo parlate anche voi, guai a chi non lo usa.- Ogni infinito tronco (andà, mangià, studià) era un segno sul diario, ogni sei segni mettevo una insufficienza. -Non vale -mi disse uno -è sempre lo stesso errore, solo che lo ripeto. -Accolsi la protesta. E si andava avanti così, guadagnando una parola corretta a volta. Avevo introdotto la trattativa sindacale in classe. Beh, una trattativa sui generis. Una cosa che mi irritava molto era quando qualche collega affermava che per lei/lui tutti gli alunni erano uguali e tutti trattati allo stesso, stessissimo modo. –Imparziale, sono!-
-Se tratti tutti i bambini allo stesso modo è perché li consideri banchi. Non solo è umanamente impossibile ma non è neanche didatticamente appropriato-replicavo.
Apriti cielo. Il fatto è che ogni insegnante nel momento di giudicare ritiene di essere Dio in persona, imperscrutabile ma giusto. La Giustizia personificata anzi, con la bilancia in mano e il manto che struscia in terra.
Già teologicamente che esista una Giustizia divina la trovo un’ affermazione difficilmente sostenibile, ma didatticamente poi! Di tali soggetti vi consiglio di diffidare. O sono talmente inconsapevoli dei loro propri sentimenti da rasentare la cecità o ne sono altamente consapevoli e mentono per coprire antipatie, parzialità, ingiustizie. Io diffido anche dei genitori che sostengono che tutti i figli sono uguali per loro, amati dello stesso amore e trattati con la stessa tenerezza. Ma questo ha poco a che fare. Personalmente non ho mai chiesto a me stessa di essere giusta, ma corretta sì e i miei alunni avevano l’indicazione di avvisarmi di quelle che ritenevano ingiustizie. Non che io cambiassi automaticamente il mio giudizio, ma poteva capitare che loro convincessero me o viceversa. In ogni caso ci spiegavamo. Tentarono di allargare le maglie di questa trattativa minima. Alzarono un po’ la voce, secondo il vecchio principio sindacale che è meglio se ti fai sentire. -Molto bene- dissi- voi ritenete di saper giudicare meglio di me. Può darsi che abbiate ragione. Per due settimane applicherò i vostri giudizi.- E preparai un registro a parte. Non arrivammo mai alle due settimane. Successe di tutto. Non ce n’era uno contento del giudizio espresso dal resto della classe su di lui. Fu una saggissima alunna che risolse la questione.-È meglio se i voti li dai tu, Professorè, così dobbiamo liticà solo co’ te-.
Il concetto di programma, in quelle condizioni, era molto aleatorio.
-E il Pascoli? mi chiese il Preside quando gli portai la mia relazione sul programma svolto.-Il Pascoli?- Sì, che mi dice del Pascoli?-Il Pascoli, Preside? Vediamo. Nacque a San Mauro di Romagna, nel 1855, credo... -Professoressa! lei mi piace ma esagera!-
Esageravo, sì. Ma del resto questa parola me la porto appresso da una vita: esagerata. Insieme a eccessiva. E a tutti i possibili sinonimi. Via via, con progressivi slittamenti di significato, si arriva a folle. Non mi credete? Dizionario dei Sinonimi e dei contrari del Gabrielli. Vi fidate del Gabrielli?
Sinonimi per esagerato: iperbolico, caricato, smodato, amplificato, enfatico, esorbitante, eccessico, sopreccedente, esorbitante, soverchio, sproporzionato, immoderato, fuor di misura, intemperante, irrazionale, anormale, folle.
Voilà!
Io sono la prova provata della totale mancanza di senso dei segni zodiacali. Infatti io sono una Bilancia!

Inoltre, io mi considero la quintessenza della razionalità, del “testa sulle spalle” e “piedi in terra”. Agisco razionalmente. O almeno ci provo. Quanto a quello che sento è un’altra storia. Ma saranno pure affari miei, o no?

martedì 24 luglio 2007

ipocriti

Giovanni Nuvoli è morto. Si è lasciato morire di fame e di sete. Vi è stato costretto da coloro che gli hanno negato una morte meno dolorosa. Io vorrei poterli guardare negli occhi, uno per uno, tutti quelli che si accaniscono a rifiutare anche la semplice possibilità del testamento biologico. -Il respiratore era attaccato- ha dichiarato la moglie. Saranno contenti, gli ipocriti?

incontri/due

Un' estate tra 1986 e il 1988.
Districandomi tra le bancarelle di frutta e i teli militari stesi in terra, coperti di vestiti usati, vengo via dal mercato settimanale di Sabaudia. Stanca, accaldata, con le mie buste attorcigliate alle dita. Attraverso la piazza e cerco riposo e riparo dal sole nel grande caffè sotto i portici. Dalla porta ordino un cappuccino freddo e mi guardo intorno in cerca di un tavolo libero. Niente da fare. Comitive di villeggianti, giovani del luogo reduci dalle fatiche del mercato come me, hanno già occupato tutti i tavoli e tutte le sedie sotto il portico ventilato. Non proprio tutte. Al tavolino più in ombra, proprio accanto alla porta del caffè siede, accostato al muro Alberto Moravia. Un’altra sedia, vuota, accanto a lui. Sul tavolino un giornale e una solitaria tazza di caffè. Quel tavolo è il suo tavolo, il grande vecchio siede sempre lì, talvolta in compagnia, più spesso solo. Legge il giornale, beve il suo caffè, sfoglia un libro. Non parla con nessuno, risponde ai saluti solo con uno sguardo. Tutti quelli che frequentano Sabaudia lo sanno. Stanca, sì, ma sacrilega? Oserò? Esito, le buste posate ai miei piedi, ma il cameriere esce dal caffè con il mio cappuccino freddo- Dove lo metto?- Allora mi faccio coraggio.- Mi scusi, è libera questa? e indico la sedia manifestamente liberissima.-Posso? -Mi guarda da sotto in su, come Platone, né benevolo né malevolo. Poi indicando con un breve cenno la sedia mormora-Prego-. Mentre lo ringrazio faccio per prendere la sedia e trascinarmela via il più lontano possibile da lui. Ma tirandosi su un po’ più eretto con un gesto improvvisamente vivace mi ferma-Prego, si sieda pure qui.- Mi paralizzo, ma il cameriere, in impaziente attesa, posa la mia tazza sul tavolino e sparisce all’interno del bar. Non mi resta che sedere.
Accanto a Moravia. Al tavolo di Moravia. Lui toglie il giornale dal tavolino posandoselo sulle ginocchia, io poso a terra tra le mie gambe la sacca e tutti i miei fagotti. E adesso? -La ringrazio- faccio- lei è molto gentile. Mi dispiace darle disturbo ma....-Quante storie -borbotta-è solo una sedia. E questo -e ci batte sopra con la bella mano -è solo un tavolino. –Vero- mi scappa-ma lei non è solo un cliente.-
Non so se mi sente, ha voltato la testa e guarda verso il fondo della piazza strizzando un po’ gli occhi. Comunque non mi risponde.
Allungo la mano verso il mio cappuccino decisa a berlo in un unico sorso quando-Che legge? -mi fa, indicando con gli occhi ai miei piedi. Fra le buste scomposte a terra, tra bustine di semi per il prato, vecchie camicie americane, trecce di peperoncini e una piantina di erba gatta, la mia sacca lascia intravedere un libro. All’istante mi sento in colpa: all’inizio di ogni estate esce un nuovo giallo di Ed Mc Bain che io attendo come primo assaggio delle piacevolezze della vacanza estiva. E’ lì tra i miei piedi. Mi sento incerta tra la tentazione di minimizzare quella lettura così poco blasé e la fedeltà al mio preferito scrittore di gialli. Ma le lunghe ore di piacere che devo a Ed Mc Bain hanno la meglio su ogni snobismo letterario. -L’ultimo libro di Ed Mc Bain-dico fermamente, e lo raccolgo e lo poso sul tavolo. Quindi finalmente mi dedico al mio cappuccino. Piega un po’ il capo per leggerne il titolo. -E’ buono?- mi chiede.-Io ho ormai varcato ogni frontiera-Molto- gli rispondo. E poiché odio chi mi fa sentire a disagio, anche se non intenzionalmente, lo provoco. -Ed Mc Bain è un grande.- Aggrotta un po’ le famose sopracciglia-Me lo consiglia?-detto così, senza nessuna ironia. Riprecipito nella confusione: consigliare un libro a Moravia mi sembra un po’ troppo anche per la mia sconsideratezza. Mando giù l’ultimo sorso di cappuccino- Bhe, non so se legge gialli dico esitante..e intanto mi maledico mentalmente-Certo che non legge i gialli, è Moravia cavolo!-
-D’estate, qualcuno- dice. -Ma questo è troppo grosso.-Io sono già in piedi- A settembre uscirà in economica- dico- molto più piccolo.-Ma che sto dicendo? penso intanto e mi chino a raccogliere i miei fagotti. Mi rialzo per prendere il mio Ed Mc Bain ma lui lo tiene tra le mani. Sembra soppesarlo. Poi alza lo sguardo rapace su di me e -Perchè lo legge se se ne vergogna?- Resto senza parole. Lui intanto ferma il cameriere di passaggio-Io prendo un altro caffè.- E a me-Vuole un altro cappuccino?- Sì, voglio un altro cappuccino, ho bisogno di un altro cappuccino. Mi serve il tempo di un altro cappuccino per rispondere alla sua domanda. -Si sieda- e sorride -è solo una sedia-. Veder sorridere Moravia procura un senso fortissimo di irrealtà, almeno a me. Avrei detto che la faccia di Moravia fosse priva della muscolatura preposta al sorriso. Invece no, sembra averla e sia pure fuggevolmente l’ha utilizzata per sorridere a me. Mi lascio cadere di nuovo sulla sedia, abbandono le mie cose a terra e parto. -No, non mi vergogno affatto. Sono solo intimidita da lei-. -Da qualcosa che ho fatto o da quello che sono?-Da quello che è. -Un grande? -domanda malizioso. Decido di dare battaglia. -E’ quello che dicono di lei.-E lei non è d’accordo.-mi fa. -L’ho letta troppo poco -dico. Poi, poichè siamo giunti, per piccoli passi inconsapevoli, alla sincerità, l’abbraccio come una bandiera e faccio la mia dichiarazione: -Io non la amo.-Neanche io- fa lui. E allora d’improvviso il vecchio scontroso, il monumento alle lettere, l’incontestabile contestatissimo, mi diventa molto simpatico. Rido e mi passa vergogna e imbarazzo, finalmente rilassata mi sistemo meglio sulla sedia e mi godo il mio secondo cappuccino.
Lui beve il suo caffè senza curarsi di me. Finito di bere raccolgo per la seconda volta le mie cose, e mi alzo per andare a pagare.-Offro io-dichiara, come un padre ricco ad una figlia un po’ a corto. Lo ringrazio ancora ma Moravia non mi vede e non mi sente, guarda nell’ombra dei portici assente come sempre, monumentale come sempre.

lunedì 23 luglio 2007

sinapsi e neuroni

Improvvisamente e in colpevole ritardo mi accorgo di aver fatto una scorrettezza grave, riportando nome e cognome completo di Claudia, la ragazza che subì lo stupro nel 1977.
Mi vergogno di questa disattenzione e gliene chiedo scusa. Ora ho cancellato il cognome. Volete per favore dimenticarlo?

incontri/uno

Tutti noi abbiamo avuto la ventura di incontrare nella nostra vita per brevi momenti persone celebri, magari in campi diversi. Incontri fugaci che non hanno significato niente per la celebrità di turno e niente probabilmente neanche per noi. Alcuni però un piccolo significato lo hanno avuto. Magari hanno solo illustrato un piccolo tic del personaggio famoso o svelata una nostra piccola caratteristica. Questi mi piace raccontare.

Uno molto sgradevole. Mara Venier nella saletta Alitalia in attesa come tutti noi di un volo Roma Parigi in forte ritardo. Bella, in colbacco e stivali neri, sbraitava, muovendosi senza cessa da una poltrona all’altra e parlando in due telefonini. C’era anche Stefano Rodotà, allora Garante per la Privacy, che mentre lei si lamentava per l’imbevibile caffè, beveva tranquillamente il suo e sfogliava i giornali, e il confronto con la signorilità innata di Rodotà rese la poveretta ancora più insopportabile. La Venier trattò da cani la gentilissima hostess che si arrampicava sugli specchi per trovare giustificazioni alla compagnia per cui lavorava e ancora peggio un tipo, mascherato da omosessuale, che con ogni evidenza le faceva da assistente e che le saltellava intorno. Fu volgare, crudele e stupida. La Venier pacioccona, tutta indulgenza e cordialità, che compariva sul nostro schermo la domenica pomeriggio era un falso. Bella scoperta direte voi. Tutto lo schermo è falso la domenica pomeriggio. Sì, ma quella breve apparizione me lo certificò. E comunque io temo che la società portata in televisione sia purtroppo vera. E vegeta.

Ancora un aeroporto: Parigi Roissy. In attesa del volo per Roma questa volta. Sprofondato in una delle poltrone Marcello Mastroianni, solo. Sulla poltrona accanto il suo impermeabile e una borsa da viaggio. Siede senza nulla fare. Aspetta.
Il corpo magro ma il volto gonfio, visibilmente stanco, in un abito stazzonato, il nostro bel Marcello è una tristissima rimembranza di se stesso. Non per l’età, ma per i più che evidenti segni della malattia che di lì a poco lo porterà via.
Mio marito ed io cerchiamo di non guardarlo e leggiamo i nostri giornali. Entra nella sala una coppia di italiani di mezza età. Carichi di borse e buste del free shop, impellicciata lei. Esuberanti ed entusiasti. Nel riconoscerlo esplodono di contentezza, sembrano aver rincontrato dopo mezzo secolo un fratello creduto morto. Gli vanno addosso, vogliono stringergli la mano. E’ tutto un complimentarsi, come lo apprezzano, quanto lo amano, come è bravo ecc... Lui sorride stancamente, li ringrazia, si vede che tenta di sottrarsi senza essere scortese. Si siedono infine poco distanti, ma poi lei salta su. Una foto! Possiamo farci una foto con lei? Mio marito ed io ci guardiamo. Lui ha una luce omicida negli occhi. Ufficialmente la intemerata sono io, ma mio marito è imprevedibile. Non mi sorprenderei se prendesse la signora per le braccia e la rimettesse a sedere di forza. Si trattiene, manifestando però con la mimica e con la gestualità tutta la sua insofferenza. Rassegnato, Mastroianni fa una prima foto con la signora e poi una seconda con il marito. I due ci guardano, è evidente che amerebbero una terza e bella foto di entrambi con il grande attore. Ma noi teniamo ostinatamente la testa bassa. Così desistono. Quando alzo di nuovo la testa e guardo verso Mastroianni anche lui mi sta guardando. Scambiamo un breve dialogo muto ma eloquentissimo. Mi dispiace -gli dico scuotendo piano la testa-per quei due cafoni- Lui sospira appena, al mio sguardo di solidarietà e fa un piccolissimo sorriso stanco, lanciandomi una sguardo metà ironico, metà rassegnato. –Che ci vuoi fare?- mi dice-Sono fatti così-.
Il Mastroianni un po’ indolente e un po’ scettico, senza un grammo di divismo, che le cronache ci hanno descritto, non era un falso.
In una intervista filmica Mastroianni ha scherzosamente indicato il paradosso dell’attore come consistente nel fatto che si lotta per arrivare alla notorietà per iniziare subito a pregare di non essere riconosciuti.

Terzo incontro.
Roma, via Merulana. Forse sette, otto anni fa’. Mentre risalgo la strada cerco di sistemare meglio nella mano destra la busta del pane e il guinzaglio del mio cane Orso. Nella sinistra ho il pacco dei giornali appena acquistati. Mi muovo poco agevolmente. Il mio cane tira un po’ e la manovra non mi riesce. Il guinzaglio mi sfugge. Per riafferrarlo faccio cadere anche la busta del pane. Mi chino per riafferrare il guinzaglio del mio cane che si diverte a fare una danza del tipo “vieni a prendermi se sei capace” e intanto qualcun altro si china a raccogliere il pane. Afferro finalmente il guinzaglio completo di cane e mi risollevo, alzando contemporaneamente gli occhi sulla persona che è ferma davanti a me. Incontro così due occhi di un azzurro azzurrissimo, in una bella faccia sorridente, sormontata da una scarna capigliatura, vagamente grigio rossatra.
E resto a bocca aperta, perché gli occhi, la faccia, i capelli e il sorriso appartengono inequivocabilmente a Francesco De Gregori. Il quale sta risistemando le rosette nella loro busta. Provo un moto di gratitudine che non ha niente a che fare con il suo gesto gentile. Vorrei dirgli: lo sa lei che il suo album Rimmel suonava continuamente al sado bisto do dell’Hekmat di Teheràn nel 1976? E che cantavo Buonanotte fiorellino a mia figlia? Perché siamo fatti così? O forse, perché io sono fatta così? Ho sempre bisogno di ringraziare qualcuno per qualcosa. Invece è lui che dovrebbe ringraziare me per aver comprato il suo album. Tutto ciò lo penso nei brevi istanti in cui mi porge la busta del pane e fa una carezza ad Orso. E finalmente gli dico: grazie! Sperando dentro di me che, per qualche misteriosa capacità, riesca a capire che lo ringrazio anche, anzi soprattutto, per avermi fatto compagnia a Teheràn in quegli anni difficili. E riprendo la mia strada. Lui entra nel portone dove so che abita un altro cantautore romano, che vedo spesso nel quartiere, Mimmo Locasciulli.

Ho avuto un incontro simpatico anche con Mimmo Locasciulli. Mia sorella ed io chiedemmo ad un medico, amico di infanzia, notevolmente dimagrito, che tipo di dieta avesse seguito e lui ci indirizzò dal suo medico personale, tale Locasciulli. Non aggiunse altro, non so se per ignoranza o per scherzo. Andammo, attendemmo in sala d’aspetto, quindi entrammo nello studio. Il medico ci fece segno di sederci, noi ci sedemmo, lo guardammo e restammo a guardarlo come due imbecilli. Il Locasciulli era Mimmo Locasciulli. In camice bianco e lunga faccia pallida. Familiarizzammo subito, è molto simpatico. Le sue diete comunque sono inutili come ogni altra dieta.

Vi informo anche che sono stata fermata da Goran Ivanisevic in via Frattina a Roma e richiesta di indicargli l’ubicazione di un famoso facitore di calzature da uomo. La tentazione di rendere molto complicato il percorso e tale da giustificare il fatto che ce lo accompagnassi di persona, l’ho avuta. Ma in effetti il giovanotto, splendido e scanzonato anche fuori del campo da tennis, ha più o meno l’età di mia figlia e molestare i giovani dicono sia scorretto. Così, maternamente, gli ho indicato la strada. Ho incontrato anche André Agassi, la stessa stagione. Usciva dall’Hilton. Meno male che non mi sono dovuta fermare a dargli indicazioni. E’ brutto fuori del campo quanto micidiale in campo.


I due incontri più “grossi” li ho tenuti per ultimi.
Meritano una narrazione a parte.

poesia della settimana

Tutti i giorni

La guerra non viene più dichiarata,
ma proseguita. L’inaudito
è divenuto quotidiano. L’eroe
resta lontano dai combattimenti. Il debole
è trasferito nelle zone del fuoco.
La divisa di oggi è la pazienza,
medaglia, la misera stella
della speranza, appuntata sul cuore.

Viene conferita
quando non accade più nulla,
quando il fuoco tambureggiante ammutolisce,
quando il nemico è divenuto invisibile
e l’ombra d’eterno riarmo
ricopre il cielo.

Viene conferita
per la diserzione dalle bandiere,
per il valore di fronte all’amico,
per il tradimento di segreti obbrobbriosi
e l’inosservanza
di tutti gli ordini.


Ingeborg Bachman
Poesie
Guanda Editore 1987


E' soprattutto quel valore di fronte all'amico che mi colpisce. Spesso ho pensato che il grande eroismo è fatto per metà di rassegnazione al peggio e per l'altra metà di casualità.
La sollecitudine verso un amico richiede costanza e applicazione. Merita davvero una medaglia. Quante ne dovrei distribuire!

E poi l'inosservanza degli ordini. La sola parola inosservanza ha per me un sapore buono di libertà e indipendenza.

Insomma, il totale capovolgimento di ogni logica di guerra negli ultimi sei versi, attuata con questa inversione dell'uso del linguaggio militare, rende questa piccola poesia (ma di una grande poetessa!) meritevole di essere raccomandata.

domenica 22 luglio 2007

amen

Io sono vegetale
i miei capelli sono foglie e aghi di pino, piovuti dal vento
io sono animale
la mia testa è una voliera di confusione, di uccelli,
di voli, di pensieri scarlatti
io sono minerale
il mio cuore è un marmo striato, di dolore, pazienza e vene di felicità
io sono terrestre
di asfalto e letame, d’erica e torba i muscoli miei
io sono celeste
nuvolaglia e stelle, incandescenze di fuoco con vapori azotati
io sono marina
il mio nome mi chiama verso la grande liquidità
non sono rena ma alga, non sono scoglio ma abisso, non sono golfo ma onda
ma sono stanca
i miei germogli non sono mai fioriti
il mio vento non è montato mai

io sono
amen
m.p.

sabato 21 luglio 2007

sotto la protezione di buddha




Non si faccia confusione: la claustrofobia è una cosa( e mi appartiene), la paura del vuoto è un’altra cosa. Si chiama acrofobia e a differenza delle vertigini, che provocano la sensazione di “tutto gira”, ha un effetto paralizzante su chi ne soffre. Costui deve per difesa appiattirsi più che può al suolo, in attesa che l’attacco passi e che egli possa riprendere la posizione eretta.

E’ di acrofobia che soffre Armando, il nostro compagno di viaggio in Afghanistàn e la solidarietà che mi lega ad ogni fobico mi impone di narrare la sua esperienza per come effettivamente si svolse. Senza le fantasiose costruzioni di improbabili marinai mongoli.
Armando voleva tanto salire all’interno del Grande Buddha, insieme a tutti noi, e nonostante la moglie lo pregasse di desistere iniziò e portò gagliardamente a termine la salita. A quei tempi le fobie erano per me solo termini di greco antico e basta. Ma alle paure altrui sono sempre stata sensibile. Forse qualcosa mi diceva che dovevo guadagnare dei crediti finché ero in tempo. Salire sul Grande Buddha era un’impresa. All’interno del Buddha una specie di stretta galleria attorcigliata su su stessa partiva da un piede della statua e saliva per 53 metri verso la testa imponente, con gradini irregolari e mangiati dal tempo.

Affacciati dagli occhi del Buddha ci godemmo per un po’ lo spettacolo. Sia pure dal fondo della parete di roccia che costituiva l’occipite della testa del Buddha, Armando guardò assieme a noi il panorama. Ci preparammo quindi a ridiscendere. Fu allora che Armando, di botto, si sentì male e si lasciò scivolare al suolo rifiutandosi di rialzarsi e di percorrere anche solo un metro in piedi.
La moglie più che preoccupata era seccata per la sua testardaggine. Tutti noi un po’ lo esortammo, un po’ ci scherzammo su, un po’ attendemmo che gli passasse. Ma la situazione sembrava irrisolvibile e così si decise che Armando avrebbe fatto i 53 metri di discesa tutti sul suo sedere, ancorato per maggior sicurezza a due di noi che lo tenevano per le braccia. Sembrava un bambino che ancora non ha imparato a camminare e che si cimenta nella discesa di una scala. Era bianco e tremante e cercava di sorridere. Due uomini lo portavano e io gli camminavo dietro, rincuorandolo e contando per lui i metri che via via ci lasciavamo alle spalle. Era una specie di telecronaca sui generis: dai, Armando, siamo alla bocca, forza siamo al collo...
Ci mettemmo un tempo infinito, non solo perché continuamente lui ci implorava con dei “basta, basta!”, tentando di aggrapparsi alle rocce sporgenti o a qualunque appiglio per fermarsi, ma anche perché era impossibile non ridere. Pur nella comprensione per il suo terrore la scena era oggettivamente comica.
Arrivammo infine ai piedi del Buddha. All’aperto, ma raso terra. Bastò perché Armando riacquistasse colore e vita. Uno di noi, il vero cinico della compagnia, Luciano, scattò una foto durante la discesa. Benché poco riuscita è comunque interessante e un po’ macabra. Armando sta ad occhi chiusi e l’impressione che si ricava è che si tratti del trasporto di un cadavere.
Quando i Talebani hanno fatto saltare i Buddha di Bamyan perché esecrabili ai loro occhi di mussulmani fanatici, nel dolore per la perdita, per la storia pre-islamica di quel paese, di una così straordinaria testimonianza, mi concessi però un piccolo sorriso al ricordo di quanto filo da torcere avevano dato al povero Armando.
Che pure li rimpianse. L’ho incontrato infatti in occasione di un matrimonio e abbiamo ricordato assieme l’episodio. Dice che è stato l’attacco di acrofobia più grave della sua vita, ma che ne valeva la pena.
E' stato lieto di sapere che una organizzazione internazionale si sta impegnando nella raccolta di fondi per la ricostruzione, in tempi migliori, dei Buddha di Bamyan.
Intanto, dallo scorso giugno, un artista Giapponese, Yamagata, sta allestendo un complicato sistema di raggi laser che nella notte proietteranno sulle pareti della roccia di Bamyan le immagini dei due Buddha. Ho ricordato ad Armando che anche con le divinità e affini la vita è un do ut des: Buddha lo protesse allora, metta mano al portafogli e si adoperi per proteggerlo a sua volta.

allarme furto!

Una borgata fine anni settanta, per essere più precisa dovrei frugare nel mio archivio. Sì, ne ho uno, ma lo evito come la peste. Erano circa le otto e un quarto. Parcheggiai la mia 500 sul marciapiede opposto a quello della scuola ed entrai.
Quando ne uscii, cinque ore dopo, la mia 500 non c’era più. La borgata in quegli anni era un bel po’ malavitosa e la contiguità tra la piccola malavita e i miei alunni era un fatto noto. Ma quella volta me ne fu servita la prova su un piatto d’argento. Grande clamore tra i ragazzi. -T’hanno rubato la macchina! E mo professoré?-E mo è andata! e girate al largo ché sono nervosa.- Ma poi un ragazzino di seconda mi fa:-Professoré, mo vedo che se pò fa’-. E sparisce.Torna dopo pochi minuti, mentre io mi sto organizzando per tornare a casa con qualche collega.-Professoré vattene al bar e aspetta, che te la faccio ritrovà io la macchina-. Che cosa fa un’educatrice in un caso simile? Rifiuta l’aiuto e tiene una bella lezione di educazione civica? Va dai carabinieri e sporge regolare denuncia? Oppure finge di non capire? Non basta che mi abbiano rubato la macchina, adesso devo pure affrontare un delicato problema professionale? Insomma, mi chiedo, che cavolo devo fare? Telepatico, il ragazzino: -Allora professoré? che devo fa’? Mi aspetti?- Lo guardo bene in fondo agli occhi. -Tu dici che la ritrovo?- Ricambia lo sguardo-Io dico, professoré-. Bhe, se lui dice, io aspetto. Ecco risolto il quesito morale.
Così mi compro un po' di pizza, me ne vado al bar lì vicino, telefono a casa che non so quando rientrerò, e mi siedo in fiduciosa attesa. Il barista si informa dell’accaduto. E commenta tranquillamente: -Ci vogliono un due, tre ore-.
E infatti dopo un due, tre ore un gruppetto eccitatissimo dei miei ragazzi mi raggiunge al bar e mi invita a recarmi nella grande piazza sterrata dove in genere si accampano i piccoli circhi di periferia. E’ perfettamente vuota, ma al centro, più bella e splendente che pria, la mia 500 rifulge. Mi dispiace professoré -fa il mio alunno, modesto -ma pe' i ferri e la ruota nun se po’ fa’ niente. E’ troppo tardi.- Ringrazio signorilmente. Bonariamente il mio alunno mi dice -Eddeché, professoré- Sembriamo due gentiluomini nel foyer di un teatro. Salgo a bordo e me ne torno a casa.

Verso la fine dell’anno, fu l’auto del preside a sparire e venni immediatamente e ufficialmente contattata dal Capo dell’Istituto perché interessassi il mio alunno al suo caso. Questa volta nessuno scrupolo, era il preside in persona che mi autorizzava ad un po’ di disinvoltura. Ma la risposta del mio alunno fu lapidaria : -‘Sta volta nun se pò fà.- Azzardai cautamente una domanda: -Perché nun se pò fà ‘sta volta? –Ormai siamo pari- rispose lui sibillino. Con chi fosse in pari non l’ho mai saputo, né l’ho mai voluto sapere. Il preside restò con la sensazione che non avessimo voluto aiutarlo. Buttò lì anche un-Ma come va ‘sto ragazzino a scuola?-
Per fortuna il ragazzino era sveglio e a scuola, come nella vita, andava decisamente bene.

venerdì 20 luglio 2007

piede libero

Era l’aprile del ‘77 e venni a Roma da Teheràn per sostenere l’esame di abilitazione all’insegnamento nelle scuole italiane all’estero.
Erano gli anni forti del femminismo. Fu occupato il Governo Vecchio e fu fatta la manifestazione notturna con la parola d’ordine “riprendiamoci la notte”.
Al convegno femminista di Paestum le donne cominciarono a dividersi. Le romane sempre più coinvolte nella politica, le milanesi sempre più nella pratica dell’inconscio. Da Teheràn io non capivo che cosa stesse accadendo. Divise! Divise?
Mi sembrava impossibile.
Nel corso di una manifestazione di sostegno a Claudia C. diverse donne furono arrestate. Credo che avessero spaccato delle vetrine e divelto dei sanpietrini. Erano le donne dell’autonomia che facevano le loro prime uscite rumorose. Tutto questo accadeva mentre io ero a Teheràn e ne leggevo sui giornali italiani che andavo a comprare all’hotel Sheraton. Un’ora e mezza tra andare e tornare da casa mia!
Me ne scrivevano le amiche e mia sorella, ma le lettere impiegavano un tempo disperante. Ero sempre in ritardo rispetto agli avvenimenti. Ma di Claudia C. sapevo tutto. Claudia era una ragazza che era stata violentata da un branco. Ripetutamente minacciata perché non testimoniasse al processo per stupro, non aveva ottenuto protezione dalla Polizia. Era quindi stata violentata una seconda volta per dissuaderla con il terrore dalla partecipazione al processo. La manifestazione in cui avvennero gli atti di violenza da parte delle donne era una manifestazione di protesta contro l’inadempienza grave della Polizia. Il discorso sulle ragioni di quella inadempienza sarebbe lungo e costringerebbe il mio fegato, anche dopo trent’anni, ad inghiottire bile in quantità industriale. Comunque, secondo me, oltre ai sanpietrini anche il Capo della Polizia andava divelto.
Quando giunsi a Roma si teneva un’udienza preliminare per decidere circa le donne che avevano manifestato violentemente e che erano state arrestate. Eravamo fuori del palazzo di giustizia, qualche centinaio appena ma molto incollerite, quando uscì l’avvocata delle nostre compagne per informarci che erano state rinviate a giudizio e rilasciate a piede libero. Gridava per farsi sentire da tutte noi che attendevamo in ansia ed eravamo in uno stato di furia mal trattenuta.
Quando quell’espressione così antica e assurda, ‘rilasciate a piede libero’, uscì dalla sua bocca, esultammo in un sollievo che divenne presto ilarità.
Fu un attimo. L’eco di quel “piede libero” ancora vibrava nell’aria di aprile che eravamo tutte a piedi nudi e alzavamo nell’aria i nostri zoccoli colorati. “Piede libero! Siamo tutte a piede libero! Piede libero! Siamo tutte a piede libero!”
Non avrei mai più ascoltato quell’espressione anacronistica senza istintivamente sfilare il piede dalla scarpa. Zoccoli non ne porto più, porto per lo più scarpe da ginnastica e liberare il piede non è più così immediato, ma comunque potrei ancora farlo. Perché quel piede nudo e quel grido che lo accompagnava fu liberatorio, infuriato e allegro insieme. Per dire intero il mio pensiero il senso di libertà, furia e allegria di quel grido andrebbe recuperato. Invece le donne tacciono. Ne viene stuprata una al giorno nel nostro paese e una a settimana viene ammazzata, nel piagnisteo generale. Ma le donne tacciono. Siamo diventate tutte ragazze per bene?

giovedì 19 luglio 2007

la solitudine dell'ala destra

Mi hanno chiamata da Feltrinelli: è finalmente arrivato il libro di poesie che avevo ordinato tempo fa'.
Poesie tutte dedicate a grandi campioni di calcio. In tutto 185 giocatori. Ci sono di sicuro anche i vostri beniamini. L'autore, Fernando Acitelli, sa tutto di tutti, è impressionante. E le poesie sono colte, raffinate, fantasiose e insomma straordinarie.
Almeno quelle che capisco subito. Perché per molte altre devo ricorrere alle note. Mi mancano troppe cognizioni in materia per apprezzarle. Ma studierò. Voglio arrivare a godermele per bene.

Ve ne propongo alcuni passi e il mio amico bip mi perdonerà se dedico la mia attenzione al calcio invece che al rugby.

La prima è dedicata a Fulvio Bernardini.
L'ho scelta perché Fulvio era un nome familiare per me. Era amico di mio padre, Bernardini. Altro nome familiare, ma misterioso era la Primavera. Ho capito che si trattava della squadra giovanile della Roma, solo dopo un sacco di anni che sentivo dire a mio padre, mentre usciva di casa: io sono alla Primavera.


...Fulvio Bernardini
un gentiluomo a metà campo,
lucente di canfora e stiloso,
troppo classico per non esporsi
all'aforisma di Pozzo:"Fuffo,
hai troppa classe, devo toglierti!.."


E poi Garrincha, la mitica ala destra brasiliana cui è dedicato il libro. Due volte campione del mondo morì povero e solo.

E al funerale tutta Rio si fermò.
Fino al giorno prima
rantolava sghembo tra i tetti
e la luna.
Le sue finte erano ormai da artrosi,
da cirrosi. Livido il viso.
"Ti stringo la mano, Garrincha,
e ti pago da bere!.." urlava
il barista vedendolo cagnolo
poverissimo.
Un Carnevale in nero
con carri non allegorici
mosse in ritmo chiuso.
Il Capo dello Stato quasi si irritò
per la nazione in pianto.
"Ed io, allora?" sembrò dire.
"E tutto questo per un'ala destra?".



Per Gigi Riva. Che dire di "rombo di tuono"? Non dimenticherò mai la terribile sequenza dell'incidente in cui si ruppe la gamba sinistra. Nè dimenticherò la destra. Diciamo che le ricordo insieme. Un terribile torto all' estetica la rottura di quelle gambe.

Copia romana
d'eroe greco,
allineato in sale
pompeiane accanto
a dèi proprizi.
In dono a te fu data
la saetta e la forza
nei vortici di sfida.
Alla causa azzurra
due gambe donasti,
ma agli eroi
innocuo giunge il male
e il tempo.


Paolo Rossi.
Il motivo per cui metto Paolo Rossi è legato ad un ricordo del mio periodo iraniano.
In visita a Bahm, la miracolosa cittadella in cui fu girato Il deserto dei tartari e che è stata distrutta da un terremoto qualche anno fa', appena scesa dalla vettura fui apostrofata da alcuni ragazzini che giocavano a pallone nella terra arida e sottile appena fuori le mura. -Italiani? e al mio sì, un coro entusiasta: Paolo Rossi!
Era il 1978, campionati mondiali, credo in Argentina. Paolo Rossi deve aver segnato qualche gol decisivo, penso. Comunque per quei ragazzini era l'immagine dell'Italia.

Monello del Collodi,
eterno oratoriale bimbo,
emigrato a genio
nel soffio d'una estate.
Beffe ti facevi dei gendarmi,
solenni e baffuti stopper,
statiche autorità senza fantasia....


Agostino Di Bartolomei
La sud cantava "O' Rey! O' Rey! Di Bartolomei!".
Con lui la Roma divenne Campione d'Italia nel 1983.
Agostino, per noi romanisti Ago, si è tolto la vita nel 1994.
Era veramente atipico nel suo mondo e forse proprio nel mondo.

In un'ora immobile,
nel giorno di festa
che più ci aggredisce,
sotto un porticato salesiano,
più novecentesco che altrove,
Agostino, credimi, chi ha ragione
è Beckett e Ionesco.
E il tuo CUORE IMMENSO
che alle risse non s'adegua,
nobile si congeda dalla vita.
Ma l'urlo rimane ancora nella Sud!
Basta porre orecchie e ascoltare
il bene a te accordato da FEDAYN e BOYS
e il canto del COMMANDO; o anche
dal tifoso solitario che più di tutti in TE sperava
quando dal limite una tua "bomba" era l'immenso
e il sogno.

* le maiuscole sono dell'autore.


Roberto Baggio
Perché sì. Roberto Baggio non si discute.

Si fa presto a dire Baggio!
E poi che dire dell'oltraggio
della sostituzione?
E della collocazione in tribuna?
Niente forse?
E della Duma che lo scopre
"immaturo" relegandolo
tra le riserve, al sicuro?
Coraggio! Coraggio! Roby Baggio!
Talento di raso vestito, palleggio
erudito, tocco infinito, fanciullo
ferito...
I fuori classe oggi non sono più tali,
di moda vanno solo i normali...


Chiuderò, che ve lo dico a ffà, con Francesco Totti.

Tra Porta Latina e Porta Metronia,
sotto le Mura Serviane che pur vide Catullo,
eroico il bimbo Totti palleggiava
e le aiuole archeologiche si facevano
calpestare.

Lui però inquadrava un'altra porta,
quella senza chiave di volta
ma con l'incrocio dei pali.

Palleggiare sotto la classicità
era respirare lo sbuffo dei gladiatori
nelle saune del Ludus Magnus
e pensare alla Colonna di Traiano
come un lungo filmato
d'una Champions League d'età imperiale.

Visto che il Sepolcro degli Scipioni
da casa tua, Totti, è questione di metri,
inginocchiarsi lì prima d'una sfida
significa cercare la protezione degli dèi,
sentirsi un semidio già prima
che l'altoparlante annunci
la formazione.

Fernando Acitelli
"La solitudine dell'ala destra"
Storia poetica del calcio mondiale
Einaudi editore

mackie messer

Ero al terzo anno del mio corso di Voce presso la Scuola Popolare di Musica di Testaccio e cantare nel saggio finale era ancora una specie di tormento. Senza estasi. Così Nicoletta, la mia maestra, decise che dovessi prendere dimestichezza con l’esibirmi in pubblico e mi spedì al corso di vocalist tenuto da Nino De Rose.
Nino De Rose è un musicista molto serio e apprezzato, insegna Musica Jazz presso il Conservatorio di Milano e ha al suo attivo testi ed incisioni. Ma, per fortuna, è anche un simpatico, pacioso, indolente uomo del sud.
Così prese atto delle mie resistenze e mi lasciò a cuocere nel mio brodo senza sollecitarmi a cantare come invece facevano gli altri tre partecipanti al corso. La lezione aveva un suo andamento standard. L’insegnante ci faceva ascoltare un brano, ce lo illustrava nelle sue componenti sullo spartito che ci consegnava e poi ognuno lo interpretava liberamente al microfono. Ripeto: al microfono e davanti a tutti.
Orrore! Alla mia timidezza (checché ne dicano i maligni, io sono timida) si aggiungeva il fatto che, per una persona che studia canto lirico, il microfono è un oggetto, non solo ignoto, ma anche pericoloso. Ti fa sbagliare tutte le emissioni di voce, che sono sempre troppo potenti o, per reazione, troppo misere. Insomma è un nemico. Almeno io lo considero così.
Le lezioni passavano e ogni tanto, pigramente, De Rose mi chiedeva: -Che fai oggi, canti?- Io rispondevo immancabilmente-Dopo vedo-, la lezione finiva e io me la filavo.
De Rose sceglieva brani se non proprio di jazz, quanto meno parenti stretti, ogni tanto intervallati da grossi successi di musica popolare, che stravolgeva completamente. Ascoltarlo era molto interessante, ma in quanto a cantare non ci pensavo proprio.
Eravamo più o meno a metà corso, quando un giorno portò per noi Mack the knife di Kurt Weill. Ce la fece ascoltare in due versioni, cantata da Bobby Darin e da Louis Armstrong. La canzone la conoscono tutti, perché fa parte dell’Opera da tre soldi. Ha un ritmo irresistibile e un andamento un po’ circolare, sembra tornare sempre allo stesso punto e poi riparte. Le due versioni erano molto differenti, quella di Armstrong piena di diversivi, giochi di voce e note allungate a piacer suo. Quella di Darin era pulita, sincopata, scandita. Entrambe le ascoltavo battendo il ritmo con il piede. Avevo la voglia di cantare in punta di lingua, ma la reticenza e l’imbarazzo mi trattenevano. Avrei pianto per la mia incapacità. A De Rose non sfuggì l’effetto che il ritmo del brano aveva su di me e colse la palla al balzo. –Va beh, oggi cantiamo insieme-e iniziò quasi borbottando facendoci segno di unirci a lui. Così tutti e quattro unimmo le nostre voci alla sua, che si alzò un po’ e poi ancora un altro po’, invitando le nostre. Eravamo un bel quintetto, mi stavo davvero divertendo. -Possiamo farla meglio -disse De Rose e ci fece mettere tutti intorno al microfono. Beh, eravamo in quattro a cantare, non poteva succedermi niente, no? Così anche io mi posizionai davanti all’oggetto maligno. Questa volta lui non cantò. Invece ci dirigeva, facendo piccoli cenni di assenso o di disapprovazione. Un occhio a lui, uno al testo, cantavo felicemente, come un assetato che trova finalmente un bel bicchierone di acqua.
Mi accorsi benissimo dell’ordine di “uscire” che fece ai miei due vicini di destra, come pure del cenno di intesa alla mia compagna di sinistra, ma ormai cantavo, sola e felice al microfono, mentre gli altri mi ascoltavano, battendo il ritmo. E mi piaceva e non avrei smesso per niente al mondo. Anzi, avrei anche ballato su quel ritmo. Fu così che infransi il tabù del microfono e anche quello di cantare davanti ad un sia pur ristrettissimo pubblico. In questi giorni ho avuto occasione di riascoltare Bobby Darin e ho riconosciuto l’eleganza e la pulizia della voce che mi indusse a cantare quel giorno. Quanto a Mack the knife da allora lo considero uno dei miei cavalli di battaglia.


In coda vorrei aggiungere una piccola poesia di Nino De Rose:

Amare
significa
amaro
al
femminile
plurale.


Il suo sito http://nuke.ninoderose.it

mercoledì 18 luglio 2007

è vero

Conosco il vostro scetticismo d'accatto. Voi non avete creduto a quanto dichiarato dal Senatore Gustavo Selva e cioè che era costretto a ritirare le sue dimissioni dal Senato della Repubblica perché glielo chiedevano i cittadini. Invece è vero.
Sono stata io a chiederglielo. Più volte e con insistenza.
Perchè? Così. Mi andava.

bye bye

11 Settembre 2001. New York.
Al sedicesimo piano della Torre Nord, Andrès firma con il suo editore americano il contratto per l'uscita in America del suo romanzo "Il crollo".
All'ottavo piano della Torre Sud, Amelita, un po' in ritardo, si affretta verso l'ufficio di un avvocato del lavoro. Si prepara a chiedere al padre un compenso favoloso per gli anni trascorsi a fargli da assistente.
Ore 8 e 48 bye bye Andrès y Amelita.
Godiamoci finalmente il Requiem di Verdi.
Secca un po' ammetterlo, ma, ancora una volta, a dirigere, è il padre di Amelita.

inizio e fine

Sento il dovere di avvertirvi: per la storia di Andrès y Amelita non aspettatevi un lieto fine. Io non credo al lieto fine. Non crediate che io sia diventata amara con l’età. Al lieto fine non ho mai creduto. Neanche da adolescente. Al cinema da ragazzina, quando the end sfumava su un bacio appassionato o un panorama sereno o un volto sorridente, io mi chiedevo: e poi? Non che io non credessi a quel momento felice, all’equilibrio di quell’istante o alla sua magia, mi facevo catturare come tutti: quello che non credevo era che la storia finisse lì e finisse così. Sapevo che c’era un poi. E sapevo che il poi avrebbe potuto essere molto diverso. Diffidavo.
L’inizio e la fine delle storie è un affare delicato. Questo vale per i rapporti tra i popoli, per le guerre, per la politica, per le lotte sindacali, per i rapporti diplomatici, ecc. Quando poi si tratta di una relazione d’amore, gli inizi e la fine andrebbero concordati, ci si dovrebbe intendere su quando considerare iniziata una storia e quando considerarla finita. Soprattutto la fine delle storie andrebbe stabilita assieme, concordata fra le due parti. Tutto è lì, nello stabilire quando una crisi è iniziata. Se ci si accorda su questo il più è fatto. Paul Watzlavick (con Beavin e Jackson) in “Pragmatica della comunicazione umana” Casa editrice Astrolabio, chiama questa pratica “punteggiatura delle seguenze di eventi”.

Approfitto per ricordare qui che il grande psicologo austriaco ci ha lasciati la primavera scorsa. E aggiungo che lo rimpiango.

Secondo me nel rapporto non si tratta tanto di star lì a discutere sulle virgole, ma di stabilire il luogo esatto del punto. Dirsi: ecco, il punto io lo metterei nella primavera scorsa al ritorno da Lucca. E tu? Io lo metterei a Natale scorso(un anno fa? Cavolo!), quando non sei venuto a cena dai miei. Oppure:il mio amore è finito a quel cocktail, quando sei stata tutta la sera a parlare con quella specie di imbrattatele. E il tuo? Il mio è finito la mattina che mi hai lasciata all’imbarco di Formia con un cane lupo al guinzaglio, un gatto nella sua cesta, una macchina carica di bagagli e un gommone sul tetto e una bimba di quattro anni che soffriva il mal di mare. -Ma era trenta anni fa’! e dopo allora? che cosa è stato?- Dopo è stato il matrimonio.
Buona battuta. La userò in una commedia.
Se riuscissimo ad accordarci sull’evento che ha segnato per l’uno e per l’altro un punto critico, di svolta, poi potremmo chiudere la nostra storia con meno amarezza, meno rancori, meno voglia di rivincita. E meno maldicenza. Dovremmo dedicare al racconto della fine dei nostri rapporti lo stesso tempo che dedichiamo al racconto dell’inizio.
Agli innamorati piace raccontarsi l’inizio della loro storia d’amore, questa è una delle tappe immancabili in una relazione; è intensa, partecipata, appassionante come l’amore stesso. I ricordi sono recenti, riaffiorano con il loro sapore e il loro turbamento. Ci si racconta l’inizio del proprio amore per goderselo meglio, per scambiare l’emozione della scoperta.
Quando ti ho vista sul battello per Oslo, quando sei entrata nello studio del notaio, quando ti sei alzato al ristorante al momento della presentazione, quando mi hai detto: aimez vous Brahms? Ma sarebbe altrettanto se non più importante, stabilire la fine. E poi non è l’inizio che dà il senso di un rapporto d’amore. È la fine che lo svela. L’inizio il più delle volte lo occulta. Stordimento, mancanza di lucidità, ingenuità, fantasie, speranze: sono tutte componenti che vietano di chiarirci che cosa sta veramente iniziando e come veramente è. È la fine che ci dice di che cosa si è davvero trattato. È solo dopo, che siamo in grado di dire: è stato solo un flirt, è stato un impazzimento, è stato il vero amore della mia vita, è stata una cazzata... Questo vale anche per i film, vale per i libri, anche i più famosi. Se i Promessi Sposi, per scegliere il più detestato dei romanzi italiani, terminasse quando Lucia informa Renzo del suo voto di castità e noi vedessimo il povero Renzo allontanarsi solo, mentre lei alza uno sguardo ispirato ad un cielo completo di arcobaleno, staremmo ancora qui a discutere dell’intervento della Divina Provvidenza? E se terminasse prima ancora, quando Renzo conduce la sua ricerca ostinata di Lucia e il Manzoni si fosse arrestato lì senza dirci se la trova o non la trova? Parleremmo di un significato simbolico della ricerca della felicità, di un eroe già moderno e della vita come ricerca senza fine. La stessa cosa potremmo fare con Anna Karenina. Se terminasse prima del suicidio di Anna, continueremmo a dire che Tolstoj ci ha parlato della tragica connessione tra Amore e Morte? O non staremmo qui a discutere della morte della famiglia e magari a considerare Anna protofemminista?
Questo procedimento, che riconosco abusivo nei confronti dell’autore, svela però l’inganno che sempre si nasconde dietro la parola fine. Figuriamoci dietro le due fatidiche “lieto fine”. Applicatelo ai film amati, non cambiando il finale, ma semplicemente anticipandolo. Li vedrete cambiare sotto i vostri occhi. Forse vi piaceranno di meno, ma chissà forse di più.
Comunque per tornare ad Andrès y Amelita, anche se l’ultimo brano sul mio i-pod fosse la marcia nuziale di Mendelssohn (mi sorprenderei molto ma Mr. i-pod vive di vita propria) scordatevi il lieto fine. Forse dovrete scordarvi anche la fine...

martedì 17 luglio 2007

Mr. i-Pod racconta/due

Siedo ad un tavolino del caffè Trani, sotto il più fantastico dei lecci. Occupa l’intera piazzetta, da parete a parete, e i tavolini sono tutti raccolti sotto i suoi rami. Aspetto la mia granita di caffè con doppia panna, e intanto mi sistemo l’i-pod, pronta a seguirlo dove vorrà portarmi. Riparto dalle lacrime di Dulce Pontes e riascolto il brano per rientrare nell’atmosfera e predispormi a viaggiare con la fantasia. Ma Mr. i-pod subito, senza un minimo di gradualità mi propone Verdi. Il famosissimo Coro del Nabucco. Oh my God e che ci faccio con questo? Annaspo mentalmente, come collocarlo in questa storia? Passione, tango, addio strappacore e poi il Va pensiero? Non ce la farò mai. Non c’è spazio in questa storia per gli ebrei prigionieri di Babilonia, Mr. i-pod, questo è troppo. Penso, penso e poi Bingo! l’uomo che tiene stretta a sè Amelita, non è un marito, no è un padre, e questo padre è un grande, un famoso direttore d’orchestra. Sì, un padre autoritario, repressivo, un padre padrone che concede tutto alla figlia tranne l’amore. Geloso, possessivo pretende che Amelita lo segua sempre ed ovunque. E’ lei che gli porge la bacchetta pima di salire in scena, è lei che gli fa il nodo al papillon ed è lei che con la sua bellezza gli ricorda la moglie perduta. Non storcete la bocca, ci vuole, date retta a me, una moglie molto amata e perduta fa molto feuilleton, ci vuole. Dunque ecco il perché di Verdi: il Maestro dirige il Nabucco, a New York diciamo. Artista capriccioso come ogni artista e in più abituato a disporre degli altri, a dirigere, ad avere sempre l’ultima parola, tiene Amelita legata a sé con un amore esclusivo ed egoista. Amelita può avere tutti gli uomini che vuole, può togliersi tutti i capricci che vuole, concedersi tutte le avventure; al Maestro non importa, ma amare non può. Ogni volta che gli sembra che Amelita abbia un vero interesse per un uomo, il Maestro subito la porta via, via presto, prima che l’interesse diventi sentimento e il sentimento amore. Mai ha avuto tanta paura il Maestro come quando nella vita di Amelita è comparso Andrès. E mai, come quella volta, Amelita gli si è rivoltata contro. Ha ubbidito, come sempre, ma il rancore che gli dimostra rende amara la sua vittoria. Sì, l’ha strappata a quell’uomo, ma non è più la sua docile, la sua premurosa Amelita. Amara, sprezzante, perennemente scontenta, Amelita fa pagare a suo padre la sua infelicità. Ed ecco Haydn, il suo concerto per tromba e orchestra. Ma sì, ecco l’allegro: è la vita mondana, pazza, esagerata, che Amelita conduce, per dimenticare, per distogliersi dal pensiero di Andrès.
E l’Andante? L’Andante è proprio Andrès, forse un primo successo, la sua prima opera publicata e il Largo, sì il Largo è la vita che finalmente gira nel verso giusto anche per lui. E Vivaldi con il suo Concerto per due trombe sembra riconfermare che qualcosa è cambiato nella vita di Andrès, non trascina più le giornate, stordendosi e scrivendo come per sopravvivere. Si costruisce una sua notorietà, una carriera letteraria, una vita più viva. Adesso sono i Beatles che lo rincuorano e lo esortano There will be an answer, let it be, let it be. Ma allora dimentica? Hei, Mr. i-pod, fammi sapere questo: Andrès dimentica?
No, è Brel che me lo conferma, ètre desesperé mais avec elegance n’avoir plus grand-chose à rever mais ecouter le coeur qui danse, ètre desesperé, mais avec esperance. E ancora una volta è Elvis che lo appoggia, Memories, pressed between the pages of my mind...e Brel conferma senza esitazioni, on n’oublie rien de rien, on n’oubie rien de tout, on n’oublie rien de tout, on s’habitue c’est tout. Ed ecco che si alza la voce perfetta di Cecilia Bartoli nella romanza di Giordani, Caro mio ben credimi almen senza di te languisce il cor ...Neanche Amelita dimentica.
Possiamo tranquillizzarci: una storia d’amore esiste ancora, è il filo sottile e tenace del rimpianto e della nostalgia che la tiene in vita. Concentriamoci allora nell'ascolto. Oh, no! Questo no! Il Requiem di Verdi! Bellissimo, semplicemente perfetto e indimenticabile. Bello di una sua forza, di una sua coerenza assolute, certo, ma insommma, un requiem! Mr. i-pod, che cosa me ne faccio di un requiem secondo te? Vuoi far morire Amelita? O Andrès? O entrambi? Parla Mr. i-pod...
No, mi spiace, è arrivata la granita di caffè con doppia panna.
Qualunque cosa stia succedendo ad Andrès e ad Amelita dovrà attendere. La panna, lei, non attende.
Continua....

lunedì 16 luglio 2007

amore rabbia follia

No, alla fin fine non sono riuscita ad amarla la donna haitiana che mi ha consegnato Marie Vieux-Chauvet nel suo "Amore Rabbia Follia". Troppo colma di odio. Troppo pazza di rancore. Il libro è potente, doloroso e a tratti insostenibile. La Haiti dei primi cinquant’anni del secolo scorso sembra l’inferno in terra e tutto questo orrore mi si rovescia addosso, sia pure tenuto per le redini dalla scrittura dell’autrice. Ma io non sono più salda come una volta e leggere l’orrore mi spaventa. Voglio sapere, ma nello stesso tempo vorrei nascondere la testa sotto il cuscino e ignorare. Mi lancio qualche affettuosa maledizione: -Avevi davvero bisogno di conoscere intimamente anche quest’altra desolazione? Non potevi proprio chiudere gli occhi ignorando le atrocità di Papà Doc?- Sembra di no, sembra che me le vada a cercare. Comunque per tornare a Claire (quella donna si chiama così), non c’è proprio niente di chiaro in lei. Trattata dalla famiglia e dalla società con uno sprezzo crudele, vive di una sete di vendetta che la porta fin quasi al fratricidio. E l’amore che la brucia non riesce a farmela compiangere. Nel libro c’è qualche cosa che mi ricorda “La casa di Bernarda Alba”di Garcia Lorca: l’atmosfera di menzogna nel chiuso di una famiglia; ma ci dev’essere dell’altro; forse anche lì due sorelle innamorate dello stesso uomo? O forse solo quella smodata ipocrisia sessuale, quella repressione feroce dei diritti dei corpi? Non ricordo: il teatro di Lorca l’ho letto a vent’anni! Poi qualche volta l’ho visto a teatro, ma qualche decennio è comunque passato. Se fossi a casa potrei controllare. Però sono diventata saggia: queste perdite non mi fanno più impazzire di rabbia. D’accordo, non so più ricostruire la storia di Bernarda Alba, ma l’odore di chiuso di quella casa e quello che Lorca ci voleva dire di quella società, è rimasto. Ma, soprattutto, è rimasto il ricordo della fame e del piacere con cui ho letto tutto Lorca, ogni più piccola, sperduta riga di quello che è stato pubblicato. Le poesie restano tutte, quelle ho continuato a frequentarle, non me ne separerò mai.Ho amato la Spagna attraverso Garcia Lorca e, per una smorfia della mia sorte, continuerò a sognarla. Intanto leggo di Haiti e penso che no, non vorrei visitarla. Nessun popolo può restare indenne dopo tanto orrore. Il libro lo terminerò in ogni caso perché la Vieux-Chauvet sa come tenere legata a sé la sua lettrice, ma considero questa lettura, cui nessuno mi obbliga, un piacere doloroso.

sabato 14 luglio 2007

Mr i-Pod racconta

Non trovo mai il tempo per riordinare i brani musicali sul mio computer. Così l’i-pod se li inghiotte come li trova: in ordine casuale. Certo questo non è il criterio migliore per l’ascolto della musica, crea autentici choc uditivi. Ma ho scoperto che quest’ordine musicalmente disordinato, può essere per la fantasia e l’immaginazione, uno stimolo pazzo e potente, perché lo choc uditivo porta con sé quello emozionale. E’ come se l’i-pod inanellasse storie, improbabili come solo la vita è. Lo accendo e il caos musicale parte.

L’inizio è oscuro e appassionato. ‘Un vestido y un amor’. -Te vi, jo no buscaba nadie y te vi. Ti ho visto, non cercavo nessuno e ti ho visto-. E’ l’inizio di ogni storia d’amore. Il caso che afferra al volo un uomo e una donna e li mette di fronte. Ad occhi chiusi sotto il sole ascolto le due voci che si intrecciano, quella di un uomo e quella di una donna; lei è Ana Belén, di lui non ricordo il nome. E’ questo intreccio di voci che dà inizio alla storia, ma il brano finisce ben prima che mi renda conto che una storia è iniziata. Nella testa mi rotola ancora qualche verso: -no hacias otra cosa que escribir, yo simplemente te vi..non faccio altro che scrivere; uno scrittore penso; no se si eras un angel o un rubì o simplemente te vi...non so se eri un angelo o un rubino, più un rubino, mi dico... I miei pensieri sono, no, non deviati, ma portati un po’ a spasso, come una variazione sul tema dalla chitarra di Segovia, che inizia a cantare subito dopo. Tarrega, Albeniz. E’ quando Mr. i-pod fa esplodere Libertango di Piazzolla che improvvisamente vedo l’uomo. E ha subito un nome, lasciatomi in eredità da Segovia: Andrès. Adesso c’è un uomo nella mia testa, si chiama Andrès, scrive e non cerca donne, forse è un solitario, forse è un violento; non lo conosco ancora, ma lo vedo ballare il tango su un lungo tavolato, balla da solo, il tango della libertà. Mr. i-pod continua a propormi tanghi e mentre suonano intravedo lei. I due ballano insieme ora, ma nel girare lei non mi mostra mai il viso, ne vedo la figura sottile, le lunghe gambe, le scarpe rosse. Lei mi sfugge ma so che è bruna, solo una bruna può ballare il tango così; del resto si sa che per gli spettacoli di tango anche le bionde si tingono di bruno. E poi, amiche bionde, non potete avere tutto! I due continuano a ballare e al terzo tango so il nome di lei: è Amelita come il nome del tango. Non so se in qualche lingua questo nome esista davvero, se sia un diminutivo, ma so che la donna si chiama Amelita. Del resto, lei esiste ancora solo dietro le mie palpebre chiuse al sole e io sola ho il potere di nominarla. Amelita e Andrès, allora. E’ deciso. Andrès y Amelita, sì.

Mentre i due danzano decido: se storia dev’ essere che sia d’amore e spudoratamente romantica. Per la gioia delle donne che mi leggono. Tanto lo so che mentre firmate i vostri report, scuotete provette nei vostri laboratori, drappeggiate tessuti su manichini, rispondete al telefono o discutete in riunioni fumose e affumicate, voi tutte sognate l’amore. Attenzione, non semplicemente quel particolare amore per quel particolare uomo, no l’amore in quanto tale, l’amore come destino e come promessa. In questo senso, tutti gli uomini sono sognati, tutti possibili protagonisti di una storia d’amore. Quanto a voi uomini, che per le storie d’amore affettate noia, a voi piace essere sognati. L’ artefice dell’ incontro tra questi due sogni è Mr. i-pod. E’ la musica, che si fa spontaneamente narrazione, in forza del suo solo susseguirsi.
Andrès e Amelita li tengo per un po’ sul palmo della mano, indecisa. Dove far pesare la bilancia? E’ così raro l’equilibrio del desiderio, devo decidere chi amerà di più.
Esito e intanto partono i primi accordi di Moon river. E’ quella parola che mi cattura, river, river...No, questa volta l’amore si presenterà nella sua veste più miracolosa, sarà un amore senza squilibri, senza un desiderante e un desiderato, sarà un solo desiderare, ma attraversato da un fiume. Sì, è così Amelita e Andrès sono divisi da un fiume. Questo fiume non è di acqua, o forse sì c’è anche un fiume di acque, largo, pigro, ma non è questo a dividerli. Forse la condizione sociale, forse una storia passata che tiene legato uno dei due. Ma certo! tiene legata lei, Amelita, perché di Andrès abbiamo detto che è un uomo solo. Sì è Amelita che è legata, sposata forse, comunque legata ad un uomo molto ricco e molto potente; del resto quelle scarpe rosse, sulle quali volteggia, debbono costare una fortuna. E invece Andrès “fumabas unos chinos”, si fa qualche spinello, non lavora, scrive e basta.
Divisi dunque. E adesso Mr. i-pod, che cosa accade? Si sono incontrati,lei bella come un rubino e lo scrittore, hanno ballato il loro tango sul lungo tavolato all’aperto, forse ad una festa sul fiume, sì e poi?
Esito, ma ecco si alza come un lamento, la voce struggente della Streisend. I’m calling you...Separati, sono stati separati. Le acque del fiume che li dividerà sono montate, la festa è terminata, si smontano le impalcature, è Amelita che deve partire, tenendo dietro ad un marito o ad un padre, comunque ad un disegno già tracciato, impossibile da cancellare con l’impeto immediato che l’amore richiederebbe.
Amelita parte e canta il suo richiamo accorato. E Andrès? Andrès supplica con la voce disperata di Jaques Brèl, Ne me quitte pas, moi, je t’offrirais des perles de pluie, venues du pays ou il ne pleut pas, je ferais un domaine ou l’amour serà roi et tu serait reine.. ne me quitte pas.. Non mi lasciare, non mi lasciare; ti offrirò delle perle di pioggia, venute dal paese dove non piove mai; farò un regno per te, dove l’amore sarà re e tu sarai regina. Andrès promette, promette di tutto, anche l’impromettibile.
Mr. i-pod guida la danza delle promesse. Adesso è con la voce fonda di Elvis che Andrès promette...winter, summer, springtime too, loving you. Amelita piange.
Mr. i-pod mi inquieta, sembra seguire una strada precisa, sembra avere un disegno perché alle promesse di Elvis seguono le Lagrimas di Dulce Pontes. Che voce sottile, che strazio, quasi sento il sapore delle lacrime. E che bel dramma! Il trucco di Amelita si disfa nel dolore, ad Andrès tremano le mani: splendido addio.
E ora che accade?
No, mi dispiace per ora non lo saprete. Fa caldo, ho voglia di un bagno. Ripongo Mr. i-pod al riparo della sabbia e del sole.
Continua......