mercoledì 30 aprile 2008

passione d'amore/uno

Oggi vi racconto una storia d' amore. Veramente le storie d'amore sono due, ma si intrecciano e fanno tutta una storia.
Piccolissima storia, ma grande amore.
Si svolse circa una ventina di anni fa’ nell’isola di Ios, protagonista la proprietaria di una minuscola pensione sulla spiaggia, dove passai una ventina di giorni del memorabile agosto in cui prese vita il primo governo socialista (Craxi) della Repubblica.
Il ragazzo era un inglese che dal maggio precedente lottava con il suo marmoreo pallore e con un brunito, muscoloso e sfrontato uomo locale, per l’amore di una americanina che, al mio sguardo, sembrava immeritevole di tanta attenzione. Ma forse era solo l’ invidia di una quarantenne verso una ragazza di vent’anni più giovane, che sulla spiaggia si allenava nel gioco del softball nella più totale padronanza della sua giovane vita. I calzoncini corti sfrangiati, le scarpe da ginnastica giallo girasole, con un’andatura provocante e sportiva insieme, era il prototipo della ragazza americana allevata nel comfort.
Chiamerò John l’inglese malinconico, dalla bellissima capigliatura bionda e Mary la sua giovane passione, mentre dell’ ”altro” ricordo perfettamente che si chiamava Stefanos. Era infatti il nome della pensione stessa e Stefanos era il marito della proprietaria, Catarina.
E il grande amore era, o era stato, il loro.
Per quell’amore Catarina aveva lasciato Atene, la sua solida famiglia e un fidanzato di tutto rispetto, importatore esclusivo delle scarpe Bata nella Grecia tutta. Si era trasferita nella minuscola isola, dove teneva in ordine le sei stanze della pensione e cucinava per i suoi ospiti da aprile a ottobre. Il resto dell’anno lo passava a giocare a carte con le mogli dei pescatori dell’isola e a leggere i libri che il tabaccaio locale le procurava.
Aveva però l’amore di Stefanos, che, a suo dire, produceva notti di tale intensa estasi da compensare largamente qualunque sacrificio. Era pronta a portarmene le prove con il racconto delle specialità di Stefano, perché aveva la convinzione assoluta che nessun uomo, in nessuna parte del mondo, potesse amare con la stessa fantasia e lo stesso trasporto.
Stefanos non era bello, ma aveva effettivamente una vitalità prepotente, una grande comunicativa e quella qualità preziosa che consiste nel dare ad ogni donna, imparzialmente, la sensazione di essere appunto donna e bella.
La usava generosamente con qualunque soggetto di genere femminile, ma Catarina considerava questa dote parte integrante del suo fascino e la tollerava con del compiacimento, addirittura, perché il bruno ammaliatore si limitava ad esercitarsi e le tributava, in esclusiva, il suo amore appassionato.
L’americanina però, imprudentemente, aveva preso molto sul serio l’atteggiamento di Stefanos e aveva spinto il gioco fino ad intrecciare con lui una relazione furtiva e sicuramente eccitante. Per la prima volta Catarina dubitava dell’amore di Stefanos e la gelosia sfregiava la sua bellezza, altrimenti radiosa, di occhi pesti e passo stanco, a seguito delle notti passate insonni per assicurarsi che Stefanos non si allontanasse nel buio per raggiungere sulla spiaggia Mary. Anche il suo straordinario galataburico, un capolavoro della pasticceria locale, ne aveva risentito, deludendomi non poco. Stefanos invece si incontrava con Mary di mattina, quando ufficialmente si recava in barca al porto a fare la spesa per il giorno dopo. Evidentemente le sue prestazioni sessuali non necessitavano della magia della notte per manifestarsi. Ebbi modo di accertarmene nelle mie escursioni sulle spiaggette intorno alla pensione, dove Stefanos e Mary cercavano una improbabile segretezza. Mentre Catarina passava le sue notti tormentose con uno Stefano ormai svogliato, John macerava nella disperazione e nella gelosia la sua nordica bellezza, e, giunto ad un punto di rottura della sua tensione amorosa, abbandonò il comune accampamento sulla spiaggia. Infatti quella congerie cosmopolita di giovani, cui le famiglie avrebbero tranquillamente potuto pagare il soggiorno in hotel a quattro stelle, trovava molto più rivoluzionario e anticonformista dormire sulla spiaggia, raggomitolata nei sacchi a pelo, dove si ritirava verso le cinque del mattino dopo aver speso in alcolici, nei due, tre localetti sull’altro lato dell’isola, l’equivalente di un passaggio sui piccoli aerei che rigavano l’azzurro del cielo. I più passavano la giornata dormendo sotto il sole e solo verso le sette di sera riemergevano alla vita, troppo stanchi e sbattuti per una bella nuotata. Si abbandonavano invece nell’acqua bassa della rada e stavano lì, corpi fluttuanti, quasi meduse, per un paio di ore. Quando infine ritrovavano le loro energie giocavano sulla spiaggia, accendevano qualche fuoco e cantavano. Erano gli unici momenti in cui mi sembravano giovani. E vivi.
John, comunque, abbandonò la compagnia e si ritirò in una grotta sulla collina scoscesa che dominava la spiaggia. Portò con sé la sua sacca e da Catarina si fece dare una teiera. I due infatti erano alleati. Catarina tifava John, lo incoraggiava nella sua corte a Mary e gli suggeriva tattiche ed approcci. Non so se giungesse a rivelargli anche le segrete e strabilianti tecniche amorose di Stefanos, ma è certo che si arrampicava alla grotta per portargli il piatto del giorno e che gli prestò una piccola radiolina. Io non ero così convinta che Mary, ad ogni evidenza una ragazza più pratica che romantica, che preferiva la realizzazione allo spasimo, sarebbe stata fulminata dalla sparizione di John, ma Catarina puntava molto su questa secessione, capace secondo lei di attirare finalmente l’attenzione di Mary su di lui.
Così John scendeva alla spiaggia dalla collina assieme alle capre, si metteva in disparte con la sua radiolina, faceva lunghe nuotate in un impeccabile crawl e perse la sua aria da poeta tubercolotico dell’ottocento.
Mi dissi che, se pure non avesse conquistato il cuore di Mary, quanto meno il suo fisico si sarebbe giovato di quel sole e di quel mare.
Fin qui la situazione era in uno stato di stallo e tale pensavo che sarebbe rimasta fino alla fine dell’estate, quando i giovani avrebbero abbandonato l’isola per tornare alle loro dimore e ai loro campus. E invitai Catarina ad ignorare quell’escursione di Stefanos in campo internazionale, da cui sarebbe sicuramente rientrato alla base alla partenza di Mary. Ma avevo sottovalutato Catarina ed il suo amore.
O, almeno, la sua gelosia. Fallito il tentativo di circondare John di un’aura di mistero capace di sedurre Mary, Catarina dovette pensare ad altro.
Così una notte in cui respiravo il vento sotto il pergolato della pensione, vidi Catarina risalire furtivamente la collina, la camicia da notte bianca ondeggiante intorno al suo corpo agile, come un peplo di chiarore. La chiamai piano. Non mi sentì o non volle farsi fermare. Così la seguii.
Saliva come una capra e le tenevo dietro a fatica. Solo la luna ci faceva strada e contro il suo chiarore vidi stagliarsi in alto l’alta figura atletica dell’americanina in attesa.
Con ogni evidenza Catarina l’aveva invitata ad un incontro notturno chiarificatore.
Un piccolo brivido di inquietudine mi arrestò. Chiamai ancora: “Catarina!”
Ma Catarina raggiunse Mary sul dorso sassoso della collina. Le vedevo fronteggiarsi, Mary in maglietta e jeans stretti, con una bella postura salda e Catarina appena più in basso, che si stringeva al corpo la camicia bianca. Erano così belle quelle due figurine che era un peccato che fossero nemiche! Restai a guardarle. Qualunque cosa si stessero dicendo non comportava mosse scomposte né agitazione. Catarina probabilmente sibilava. Quell’altra sorrideva forse?
Le lasciai al loro confronto e ridiscesi la collina fino alla riva del mare ed immersi le mie riflessioni in quell’acqua tiepida.
Quando infine me ne andai a dormire la pensione presentava alla notte la sua placida fisionomia di sempre e non c’erano in vista né mariti fedifraghi, né mogli furiose, né giovani tentatrici.
Al mattino, quando i sacchi a pelo infine si aprirono, Mary non ne emerse. La cercai tra i corpi che si lasciavano dondolare nell’acqua calda. Non c’era. Non si vide tutto il giorno. Anche John, tra un bagno e l’altro, lasciava vagare il suo sguardo innamorato sulla rada, in cerca di Mary. A sera il galataburico era perfetto e Catarina, vestita di verde smeraldo, canticchiava mentre ci serviva.
La guardai interrogativa ma mi ignorò. Ogni tanto ravvivava il fuoco che ardeva in un bidone nero e rigirava le fette di melanzane e peperoni che si rosolavano su una griglia. Poi portò sotto il portico un giradischi e spostò i tavoli. Ballammo finti tanghi e rock and roll e lei agguantò Stefanos impegnandolo in un lento da scomunica. Come sempre mi ritirai per ultima e attraversando la cucina lo sguardo mi andò sulle cassette di legno con i rifiuti che la mattina successiva un camioncino sarebbe venuto a ritirare. Tra le bucce di melanzane e i cartoni del latte vidi le scarpe da ginnastica di Mary. Non capivo. Restai a guardarle. Erano loro, quel giallo girasole era inconfondibile. Le sollevai inquieta più che perplessa.
Cosa facevano le scarpe di Mary nella pattumiera della cucina di Catarina?
Fu la prima cosa che le chiesi la mattina, dopo una notte agitata in cui mille ipotesi cadevano una dopo l’altra, lasciando in piedi solo quella terribile, eppure inconcepibile, di omicidio passionale. Rise Catarina, alla mia domanda ansiosa.
E mi raccontò che l’incontro chiarificatore si era svolto nel più tranquillo dei modi.
-Le ho semplicemente detto di andarsene dall’isola con il primo vaporetto.
-Solo questo?
-Sì, confermò Catarina.
-E lei?
-Lei? Niente. Ok, ha detto.
-E le scarpe? Che ci facevano le scarpe di Mary in cucina?
-Oh, le scarpe. Beh quelle non potevo bruciarle, la gomma puzza e vi avrebbero rovinato la cena.
Non capivo. O meglio capivo ma ero incredula. Ma Catarina, con grande pazienza mi spiegò che sì, aveva fatto spogliare Mary nuda e, nuda e scalza, le aveva fatto ridiscendere la collina. E Mary aveva raccattato il suo sacco, si era infilata una cosa qualsiasi ed era andata al porto in piena notte attendendo lì un traghetto qualunque che la portasse via dall’isola.
-Ma non è possibile! protestavo io! Cosa le hai fatto? L’hai picchiata? Dillo!
-Picchiata? Catarina era offesa. Non era mica una selvaggia lei!
-Le ho solo detto quello che potevamo fare e lei ha capito.
-Cosa, ha capito? Che cosa, le hai detto?
-Le ho detto che se lei fosse partita con il primo vaporetto io mi sarei limitata a bruciare i suoi vestiti, così anche l’ultimo fiato suo sarebbe scomparso, altrimenti avrei bruciato lei, mentre dormiva nel suo sacco a pelo. E lei ha capito. Si è spogliata e se n’è andata. È semplice, no?
Era semplice, no? Ancora più semplice era quello che Catarina aveva detto a Stefanos, presentandosi nella loro stanza con i vestiti di Mary.
-Domani sera con questi ci fai il fuoco e di questa storia non parleremo più.
E la sera dopo, mentre sventolava il fuoco che arrostiva le nostre melanzane, Catarina respirava per l’ultima volta il fiato dell’americanina che aveva osato toccare il corpo di Stefanos.
-Lo sai che questa è una storia pazzesca, vero? le dissi. Ti rendi conto che è una storia da tragedia greca, proprio come le vostre tragedie?
-Ma quale tragedia! rideva Catarina. Non è successo niente! Ho solo bruciato dei jeans e una maglietta. Che sarà mai!
In effetti, che era mai?
Ma per i pochi giorni che restai sull’isola ogni cosa -il profilo della collina, le capre indolenti, il mare turchino e soprattutto l’odore di melanzane sfregate con l’aglio e messe a grigliare- continuarono ad avere per me un sentore arcaico, affascinante e pauroso insieme e continuai a sentirmi sulla porta di qualche cosa su cui era meglio non indagare oltre.

martedì 29 aprile 2008

post ammortizzatore o camera di decompressione/segovia

O la musica o la poesia. Non c'è altro che possa restituire un po' di serenità. Oddio, ci sarebbe, ove ci fosse, l'amore.
Ma il widget per l'amore ancora non l'hanno inventato.
Quindi accontentatevi della poesia e della musica.



Ho ascoltato Segovia suonare questo pezzo a Porto Santo Stefano nel 1966. Non avevo trovato i biglietti e mi ero sistemata, già dal tardo pomeriggio, sugli scogli con cui il Siluripedio terminava in mare. Presi tanta di quella umidità che, se ci penso, ancora me la sento nelle ossa. Ma Segovia sprigionava un' autentica malìa, inspiegabile in un signore così semplice e quasi comune in ogni sua manifestazione. Alla chitarra porto un amore da amante respinta. Un po' rancoroso, ma molto più languido. Studiai prima chitarra classica. L'abbandonai perché, dopo un anno degli stessi esercizi, ancora il maestro s'impuntava sulla giusta distanza tra lo strumento e il mio torace! Passata a tutt'altro genere per almeno quattro anni mi divertii da matti a suonare la musica che circolava nell'aria in quegli anni (primi '80). Oltre questo non sono mai andata. In una delle prossime vite sarò una grande chitarrista: terrò concerti sulla luna e, nelle sere di pioggia di meteoriti, mi riparerò la testa con la mia chitarra.

Questa poesia invece, ad ognuna delle mie visite a Tarquinia, me la recito mentre fiancheggio la strada vecchia che porta al paese dalla piana. Un rovente muro d'orto, con i suoi aguzzi cocci di bottiglia, la fiancheggia per un lungo tratto.
Per me quello è il muro di Montale.

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

è notte e non rileggo

Scrive Amalteo: mi fanno schifo 
ci fanno schifo. 
tuttavia, marina: 783.225 voti non sono la roba che vediamo in fotografia.
una delle ragioni della nostra sconfitta storica è anche quella che noi di cultura di sinistra siamo tracotanti ed antipatici.
ci sentiamo portatori della verità e disprezziamo innanzitutto i nostri compagni di viaggio , oltre che gli avversari.
vorrei che imparassimo dalla esperienza. abbiamo circa 10 anni per farlo.

Hai perfettamente ragione Amalteo. Adesso, senza disprezzo ma con spirito aspramente e legittimamente critico, ti dico chi sono gli altri. Gente di destra, centro e sinistra.

Ci sono i "tassinari" corporativi,
i commercianti evasori,
i borgatari che si indebitano per anni per pagare il matrimonio technicolor della figlia; io li chiamo, senza eleganza e col cuore stretto "fottuti due volte", perché hanno una vita indecente e gli hanno pure insufflato desideri che li uccidono.
i "viva il Papa", "Santo subito" e compagnia bella
quelli che "SUB è bello",
quelli che si costruiscono ville abusive sull'Appia Antica,
quelli che "Rutelli non mi convince più",
quelli che "tanto so' tutti uguali",
quelli che "dalle ai Rumeni"
quelli che "Rutelli sta coi preti"
quelli che "Tutti 'sti soldi per l'Auditorium"
quelli che "chi vota PD non è di sinistra"
quelli che "Il Duce ha fatto pure tante cose buone"
quelli che "non voto perché non c'è un candidato di sinistra"
quelli, sentimi bene, DELLA COMUNITA ISRAELITA CHE votiamo Alemanno perché Rutelli dette le chiavi della città ad Arafat"
quelli che "difendiamo la famiglia"
guarda, non ce la faccio più, ma potrei andare avanti e avanti.
Quanto a noi, di cultura di sinistra.
Tracotanti? Antipatici? D'accordo. Anche supponenti se vuoi.
Comunque a me sembra che per rendersi simpatici i nostri dirigenti hanno fatto anche troppe cazzate. Cito solo quel poveretto di Fassino a "C'è posta per te" della De Filippi. Il pubblico Mediaset non per questo lo ha votato e la gente di sinistra, attonita, manco! Bel capolavoro!
E' un atteggiamento elitario, schizzinoso il mio?
Accetto la critica. Ma penso e continuerò a pensare che il varietà è una cosa e la politica è un'altra e che un popolo che chiede varietà invece che politica ha imboccato una via involutiva.
Il PCI rappresentava le classi popolari perché condivideva con esse dei valori. Diresti che IL LAVORO è ancora un valore nel nostro paese? Lo è il successo, come variabile indipendente dal lavoro, dall'impegno, dal sacrificio.
La Libertà non era un valore della Sinistra? Se non lo è più è perché la gente non vuole libertà ma anarchia e individualismo.
Ognuno per sé, calpestando regole e leggi, e tutti contro tutti.
Questo sul versante elettori.
E sul versante eletti non stiamo meglio. Parlo dei nostri. La politica come carriera. Una volta era "servizio più realizzazione personale". Anzi, "realizzazione personale nel servizio". C'erano le ambizioni, certo, ma c'era il senso del bene comune. Adesso è carriera, privilegio, soldi. Apparire. Parlare. Essere visibili, non importa come. E accapigliarsi per due minuti in tv, fare a chi la spara più grossa. Diliberto e la mummia di Lenin, i Ministri di lotta e di governo, vado alla manifestazione ma non parlo ecc., Dico qualcosa di sinistra ma frequento i salotti di destra.
E verso la destra subalterni culturalmente, sempre ad inseguire un nuovo senso comune, sentendoci anche in colpa perché siamo antichi, vecchi, non intercettiamo, non interpretiamo, non sappiamo capire ecc.
Non se ne può più. Il Governo Prodi ha fatto quello che poteva, o forse no. Io non lo so. Forse Ferrero ha ragione e Padoa Schioppa ha tirato troppo la corda. Forse si poteva fare di più, ci si poteva accontentare di un rientro del debito pubblico meno ambizioso e ridistribuire qualche cosa. Ma io non credo che sarebbe cambiato molto.
Noi siamo stretti tra un massimalismo infantile da una parte e gente che non fa il suo mestiere di sinistra dall'altra.
Io mi sono sentita delusa dal Governo Prodi ( ti consiglio un libro Compagni che sbagliano di Barbacetto) Mentre l'ala sinistra pittorescamente faceva casino senza portare niente a casa, il Governo cedeva, smottava al centro. Per poi farsi impallinare proprio al centro. Ah, a proposito che ne è di Dini? Dimmi che è schiattato, please! E Bordon? Posso sperare di portargli un fiore?Quando il Governo è caduto mi sono trovata spiazzata. Perché ero furiosa e mi ripetevo: non li voto più! Ma è durato lo spazio di uno sfogo. Neanche per un momento ho pensato di votare SA. E non sono certo la sola. Questo per chi pensa che il PD abbia tolti chissà quanti voti alla SA. Un po' sì, sicuramente, ma molti meno di quanti pensano. SA: una congerie pazzesca, quattro teste a parlare, alcune non presentabili, un semplice cartello elettorale, non certo il nucleo di una sinistra capace di incidere sul fianco del PD.
La sinistra, in generale, senza distinzioni di intensità, ha una classe dirigente non più all'altezza del compito che la storia le richiederebbe. Ricostruire un senso sociale, l'idea di UN paese che vuole crescere culturalmente, socialmente, che si riconosce in un progetto comune. Nella dialettica politica, certo, ma con un'idea di paese che punta, nella differenza delle risposte, a risolvere i suoi problemi.
Siamo invece un paese parcellizzato, scomposto. E senza memoria. I popoli si sforzano da sempre di costruirsi miti che li tengano uniti, che fondino la loro storia. Noi sputiamo sulla Resistenza e ci gingilliamo con i "ragazzi di Salò".
Il nostro paese ha subito una involuzione culturale. Se non riconosciamo questo non potremo mai risollevarci.
Io ho visto Scelba, Tambroni, la DC che inglobava i fascisti acquattati nel suo ventre caldo, ho visto le stragi, Piazza Fontana, Brescia, i processi spostati ecc. e poi i ministri mafiosi assolti "dal 1992" (per il pregresso chi ha avuto ha avuto) ho visto il terrorismo nero, rosso e a stelle e strisce (Gladio non l'ho sognato, vero?)ho visto la Rosa dei Venti e Segni, e Antilope Cobbler.
Posso dire che il paese è andato avanti? Non credo proprio. Adesso abbiamo i fascisti del centro sud che si alleano con i leghisti del nord. E la capitale del paese che si affida ad Alemanno che porta al collo la croce celtica "in ricordo di un camerata". SIC.
Ci sono momenti in cui penso che questo paese, per come è diventato, DEBBA NECESSARIAMENTE essere governato dalla destra. Che non possa essere governato che dalla destra. Assecondato. Blandito. Tenuto sotto ma con comode rate.E la promessa di un futuro radioso per tutti come veline o tronisti. Ti sfido a dirmi chi è un tronista!
Penso che dobbiamo semplicemente farci da parte noi della sinistra, qualunque siano i quarti di nobiltà rossa che abbiamo.
Hai ragione sul disprezzo fra compagni di viaggio. Disprezzo a doppio senso. Beh, forse è questo il gioco politico che ci piace fare. Dedichiamoci a questo allora. Io mi scaglio contro Diliberto (lo votai. C'è un dio pronto a perdonarmi? La prima cosa che ha detto all'indomani della sconfitta è stata "Lo avevo detto che non dovevamo togliere falce e martello!Ha veramente capito tutto). Qualcuno contro Veltroni. Qualcun altro contro Ferrero e qualcuno contro Vendola.
Ah, ecco Nichi Vendola. Lo sentii da Lerner. Bellissima analisi della scomposizione di tutte le comunità del paese, critica lucida delle ragioni della sconfitta(siamo diventati una elite, lontani dalla gente, sempre nei salotti, decisioni presi al vertice, niente partecipazione ecc); Poi è successo qualche cosa. Resa dei conti in Rifondazione. Cambio di maggioranza. Punta alla segreteria? Non lo so, ma una settimana dopo ad Otto e mezzo era un'altra persona. INASCOLTABILE! Pur con tutto il rispetto per la sua bella intelligenza voleva far fessa LA MIA eludendo ogni domanda ed ogni discorso concreto. E poi si è messo in fila per sfiorare la salma di Padre Pio ritirata fuori dalla tomba. Per carità, liberissimo, ma non mi sembra un grande passo avanti rispetto a Bassolino e al miracolo di san Gennaro! Ma già, come ho sentito dire ieri sera un coltissimo scrittore di sinistra, a noi di sinistra manca il senso del sacro!
Ma andate a c...e!
Da quanto smozzico frasi? Non rileggo, non me ne vogliate.

fascisti al Campidoglio

SCUSATE SE NON HO PAROLE











la scritta dice: Colle Oppio. Questi vengono dalle strade intorno a casa mia.

lunedì 28 aprile 2008

fascisti brave persone

"Mi dicono che Alemanno è una brava persona"-mi diceva tempo fa un amico. Una brava persona? Perché questa brava persona si porta dietro i fascisti violenti delle incursioni contro i gay e della distruzione delle lapidi ai caduti delle Fosse Ardeatine?
Mentre i primi risultati dello spoglio per il Comune di Roma -Alemanno in vantaggio di 3 punti su Rutelli- cominciano a circolare, arriva questa notizia:

Ostia, fascisti distruggono la targa commemorativa delle Fosse Ardeatine

La targa commemorativa delle vittime delle Fosse Ardeatine, collocata in piazza della Stazione Vecchia ad Ostia, quartiere del litorale di Roma, è stata fatta a pezzi con un grosso martello. Pochi dubbi sugli autori dell’atto di vandalismo: sopra alla targa è stato scritto, con la vernice, «Il popolo di Ostia inneggia al Duce».

«Si tratta di un gesto di inaudita barbarie - ha commentato il presidente di zona Paolo Orneli - uno scempio gratuito e ingiustificato alla memoria dei nostri concittadini che hanno trovato la morte in uno degli episodi più cupi della storia contemporanea di Roma».

Questa è la gente di Alemanno, a questa gente ha chiesto i voti e questa gente ha risposto. Ma alla cittadinanza della mia città questa gente e questo candidato sembra piacere.

Ai miei tempi si diceva "Tenere alto il livello di guardia." E anche "Vigilanza democratica".
Adesso, secondo me, è più necessario che mai.

rilettura, venti anni dopo

Non sempre, e non a fondo, ho capito quanto scritto da Guido Ceronetti.
Ma ho capito che c'è sempre da capire.
Del resto lui ha scritto: A chi non capisce l'allusione è inutile fornire la spiegazione.
Perciò io, pazientemente, ogni tanto, torno a leggerlo.

da: Guido Ceronetti - Pensieri del Tè.
Adelphi Edizioni -1987

L'amore è un'acqua nel buco e termina necessariamente in un buco nell'acqua. Un buco galleggia sull'acqua; la vis amoris ci attira sul fondo, da cui risaliamo vivi e annegati.

I corpi li unisce il piacere, le anime la pena.

Non importa che la donna sia, "del paradiso", una porta. Importa soltanto che sia una porta. L'angoscia è il muro.

Qualsiasi donna che rifiuti credenza nella magia è da fuggire assolutamente. Questa sinistra incredulità la si avverte in lei ancora prima che apra bocca o scriva qualcosa. È un fragile esprit fort che le solitudini flagellano implacabilmente. È condannata a vivere come la strega, per aver rinnegato la stregoneria.

La biancheria nera, erotismo per i poveri.

domenica 27 aprile 2008

scongiuri per roma

Questa notte l'ho passata a fare scongiuri e a scagliare maledizioni nella lingua dei padri dell'Urbe:


O nos Lares juvate!
O nos Lares juvate!
O nos Lares juvate!

O nos Mars iuvato!
O nos Mars juvato!
O nos Mars juvato!



E se non bastasse:

et vobis hostibus
damnabo damna vestra!
damnabo damna vestra!
damnabo damna vestra!



Ma, per sicurezza, anche nella lingua del popolo dell'Urbe:

Alemanno, sarvognuno, no!

sabato 26 aprile 2008

presentiamoci, almeno

In tre mosse, un poeta -o una poeta- ci viene vicino, ci guarda negli occhi e ci sferra un colpo sapiente.
Perché lui/lei conosce noi se nessuno ci ha mai presentati?



Patrizia Cavalli
Poesie (1974-1992)
Einaudi

Una
Ma davvero per uscire di prigione
bisogna conoscere il legno della porta,
la lega delle sbarre, stabilire l’esatta
gradazione del colore? A diventare
così grandi esperti, si corre il rischio
che poi ci si affezioni. Se vuoi uscire
davvero di prigione, esci subito,
magari con la voce, diventa una canzone.




Due
Quasi sempre chi è contento è anche volgare;
c’è nella contentezza un pensiero
che ha fretta e non ha tempo pr guardare
ma passa via compatto e maniacale
e reca oltraggio volgendosi a chi muore
-Avanti con la vita, su, coraggio!

Chi è fermo nel dolore non frequenti
gli allegri e disinvolti corridori
ma solo i passi lenti dei suoi uguali.
Se una ruota s’inceppa e l’altra gira
quella che gira non smette di girare
ma avanza quanto può e trascina l’altra
in una corsa povera e sghimbescia
finché il carretto o si ferma o si rovescia.


TRE
Io per guarirmi dei miei noiosi amori
ascolto i noiosissimi racconti
di altri amori. Pur nella noia
il dolore è vero, ma per un po’ lo vedo
in queste storie simili, irreale,
e mi sottraggo al mio perché è uguale.

Pensando a questo mi pento e mi vergogno
di aver sforzato con parole e pianti
i cuori calmi di chi mi stava intorno.
Ora capisco che è una presunzione
con abitanti di climi temperati
parlare di ghiacciai e di amazzonie.

giovedì 24 aprile 2008

a insensatez/how insensitive

A insensatez.

A questo pezzo Chopin ha offerto il suo Preludio No.4. Antonio Carlos Jobim, "Tom Jobim", lo ha delicatamente trasformato in una bossa nova. Il poeta Vinicius de Moraes ha scritto i versi. Poi lo hanno cantato i cantanti di mezzo mondo. E quelli dell'altro mezzo lo hanno suonato.

A me piace molto quando musicisti di formazione diversa si incontrano e fanno musica insieme. Allora questo concetto detto e ridetto -la musica è una lingua universale- smette di essere l'ovvietà che tutti riconosciamo come tale e diventa una scoperta del momento, una illuminazione che facciamo nostra.
E poi mi piace scoprire le differenti modulazioni che una voce -e una sensibilità- diversa possono infondere in un brano.
Perciò stasera regalo al mio blog -che mi fa tanta compagnia- e ai suoi amici, ben due versioni. Oltre alla bossa nova a due voci -Sting e Tom Jobim stesso- anche la versione jazz di Diana Krall.
E poiché sono generosa trascrivo sia i versi di de Moraes che la versione inglese.

A insensatez
que você fez
coração mais sem cuidado.
Fez chorar de dolor
o seu amor:
um amor tão delicado.
Ah porque você
foi fraco assim,
assim tão desalmado
Ah meu coração
quem nunca amou
não merece ser amado.
Vai meo coração
ouve a racão,
usa sò sinceridade,
quem semeja vento
diz a razão,
colhe sempre tempestade
Vai meu coração
pede perdão,
perdão, apaixonado
vai porque quem nao
pede perdão
não é nunca perdonado

How insensitive
I must have seemed
When she told me that she loved me
How unmoved and cold
I must have seemed
When she told me so sincerely
Why she must have asked
Did I just turn and stare in icy silence
What was I to say?
What can you say
When a love affair is over?

Why she must have asked
Did I just turn and stare in icy silence
What was I to say?
What can you say
When a love affair is over?

So now she's gone away
And I'm alone
With a memory of her last look
Vague and drawn and sad
I see it still
All the heartbreak in her last look
How she must have asked,
Could I just turn and stare in icy silence
What was I to do?
What can one do
When a love affair is over?



Festa grande di Aprile


Per ricordare il 25 Aprile 1945 voglio riportare una piccola scena di un lavoro teatrale -FESTA GRANDE DI APRILE, Rappresentazione popolare in due tempi-di Franco Antonicelli.

Franco Antonicelli (1902/1974), fu intellettuale, poeta, saggista. Partecipò alla Guerra di Liberazione, fu Senatore della Repubblica, come indipendente nelle file del PCI-PSIUP.

Scena XIX
Una stanza. Un tavolo e qualche sedile. Una bicicletta appesa al muro.
È l’aprile del 1945.
In scena c’è William, combattente del Partito d’Azione e Tom, operaio comunista.
I due personaggi adombrano due partigiani realmente esistiti.

William La parola d’ordine è ancora quella: “Chi ha un’arma combatta, chi non l’ha se la procuri”.
Sta tranquillo, Tom, arriverà anche il te-te-te- dell’insurrezione, ma la parola d’ordine sarà sempre quella, fino alla vittoria completa. E finiremo bene l’aprile....

Tom Il valore conterà?

William Anche. Ma conta il fatto che, ognuno per conto suo, abbiamo dato il meglio di noi. Non è meraviglioso? Poi, non diranno che gli italiani hanno aspettato tranquillamente che li liberassero gli altri, dedicandosi in tutto e per tutto alla borsa nera.

Tom Ci volevano gli Alleati, certo. Come avremmo fatto da soli?

William Mio caro, nessuno ha chiesto a Davide perché non era grosso quanto Golia. Ma hanno guardato se aveva o no un’arma in mano. Lui aveva la fionda e anche la nostra non è più che una fionda. Battersi alla disperata, a qualunque costo, aiuti o non aiuti: che cosa si doveva pretendere da noi? Ma se la nostra lotta ha avuto un senso è che noi concludiamo una storia, tiriamo i fili e chiudiamo i conti, e si apre un’altra partita e chissà chi la giocherà.

Tom A chi li presentiamo i conti?

William Forse a nessuno. Non troveremo forse nessuno, nessun tribunale, io temo.
Ma son lì: non so quante migliaia di anni di galere, quanti morti, quante coscienze distrutte, quante viltà, quante porcate, quanta lirica pura sacrificata sull’altare della patria(n. b.la frase è di Gobetti), quanto avvenire sradicato, su cui è stato sparso il sale. Avremo la forza di compensare tutto questo? Basterà il sangue? So che non basta, è soltanto il prezzo del riscatto, il prezzo della speranza.


Nello stesso lavoro teatrale, tra il primo e il secondo tempo, Antonicelli inserì questa canzone, che nella prefazione al testo definisce molto popolare.
Io però non ne ho trovata nessun' altra menzione.

Siam vissuti con la cimice/
con la cimice sul petto/
che odore cattivo mandava/
che odore il lurido insetto/
che non lasciava il nostro petto.

Non era una cimice di bosco/
che se non altro ha le ali/
ma una cimice casalinga/
una cimice dall’odore infetto/
che non lasciava il nostro petto.

Succhiava il nostro sangue/
dormiva nel nostro letto/
chi mai l’avrebbe scacciata?/
il fuoco ci voleva, il fuoco/
fuoco dalla cantina al tetto/
così la cimice è bruciata/
bruciata sul nostro petto.




Voglio anche ricordare le donne che in gradi e forme diverse hanno dato il loro contributo al ritorno della libertà nel nostro paese.
Mi farò aiutare da un libro molto importante: “Donne in oggetto” L’antifascismo nella società italiana- 1922-1939- di Giovanni De Luna-Bollati Boringhieri Editore, Torino-1995
Giovanni De Luna è Professore Ordinario di Storia Contemporanea all'Università di Torino.
È tra gli organizzatori della manifestazione che si terrà il 25 Aprile a Torino per ricordare la Liberazione dal nazi-fascismo.

Ed ecco le cifre.
Tra il 1926 e il 1943 furono deferiti al tribunale Speciale per la Difesa dello Stato 15.806 antifascisti (748 donne). Quasi altrettanti, 12.330, furono quelli inviati al confino (145 donne), mentre 160.000 furono “ammoniti” o sottoposti a “vigilanza speciale".

Dunque 748 sono le donne la cui posizione fu presa in considerazione e nei cui confronti il Tribunale Speciale aprì un procedimento. A queste vanno aggiunte le 323 donne coinvolte nelle agitazioni degli stabilimenti tessili della Valle Olona (1927-28) e nei cui confronti il procedimento non andò avanti.
Presso il casellario Politico Centrale, che dipendeva dalla Divisione Affari Generali e Riservati della Polizia furono aperti invece 110.000 fascicoli di “sovversivi” schedati.
In Francia furono censiti circa 15.000 antifascisti italiani.

Le cifre delle donne deferite al Tribunale Speciale impallidiscono di fronte a quelle che definiscono le dimensioni della partecipazione femminile alla Resistenza. Si contarono: 35.000 partigiane combattenti; 20.000 patriote non combattenti; 70.000 iscritte ai Gruppi di difesa della donna; 2.750 morte in combattimento o fucilate; 4.500 uccise non in combattimento; 3.000 deportate; 4.400 arrestate. Queste donne erano di orientamento politico diverso, di diversa estrazione sociale e diverso livello culturale.
Sulle cifre dei resistenti, uomini e donne, da sempre, si è annodata la querelle storiografica sulle dimensioni quantitative del movimento di opposizione al regime di Mussolini.
Ne è stata messa in discussione l’esattezza, ma senza spostarne di molto l’ordine di grandezza.

mercoledì 23 aprile 2008

ottimo esempio

Scrive pessimoesempio in un commento al mio post:

Son contenta che tu abbia ritrovato chi cercavi, ma non è questo il motivo del mio commento. E' che proprio in questi giorni, in cui anche da altre parti si discute più o meno pacatamente su ciò che siamo e su come ci comportiamo qui dentro, mi è venuta in mente questa cosa terribile che ho trovato poi esplicitata nel tuo post. MI SONO DETTA CHE QUANDO UNO DI NOI SCOMPARE SENZA PREAVVISO DALLA CIRCOLAZIONE DI LUI/LEI NON SI PUÒ SAPERE PIÙ NULLA. A meno che tu non lo/a conosca di persona tutto si dissolve come una bolla di sapone e rimangono solo tracce, le cose già scritte. Mi è parso terribile.

Ecco, pessimoesempio, tu tocchi un punto di massima fragilità per me.
Ha radici vecchie, ma tenaci. E si ripete, come spesso i nostri “irriflessi” si ripetono.
Io ho semplicemente il TERRORE di vedermi scomparire davanti qualcuno, di perderlo senza possibilità di dirgli una parola, di fargli un saluto, di sollevare una protesta. Se sono sopravvissuta a delle perdite è stato solo perché ho potuto compiere quel gesto cruciale che è il saluto. Quando una comunicazione si interrompe io sto male. Non so dirlo diversamente. O meglio, potrei dirlo in mille modi, più o meno forti, più o meno enfatici, addirittura più o meno poetici. Ma voglio dirlo nel modo più scarno possibile: io sto male.
Più volte nella mia vita, mi sono imposta addii anticipati, reali o simbolici, per non dovermi trovare davanti al vuoto di un’assenza improvvisa. Solo un muro contro cui battere o, in questo mondo virtuale, neanche un muro.
Ho sentito parecchie definizioni –tutte severamente critiche- di questo mio atteggiamento. Si va dalla viltà all’idiozia, dalla vigliaccheria, al rinunciatarismo, addirittura all’indifferenza e alla crudeltà.
Li lascio dire. In fondo ognuno capisce solo una piccola parte di se stesso, figuriamoci quanto capisce degli altri!
Tu invece hai capito.
Questo piccolo post è per rendertene atto.

sulle tracce di Enzo Rasi


È un po' strano, quello che mi sta succedendo.
Mi metto davanti al computer e penso ad Enzo Rasi.
E torno al suo blog e lo spulcio per vedere se oggi vi compaia l’indirizzo di posta elettronica che ieri non c’era e neppure l’altro ieri e neppure tre giorni fa’.
E non lo trovo.
E non riesco a farmi una ragione del fatto che ho perso Enzo Rasi.
Chiarisco subito che io Enzo Rasi non lo conosco. Non solo non lo conosco di persona, ma anche come autore di blog lo conosco appena.
Lui capitò casualmente, credo, sul mio blog il 27 marzo e lasciò un commento gentile.
Come faccio sempre passai sul suo blog. Mi piacque il fatto che dichiarasse: La musica è Mozart! perché anche per me la Musica è Mozart. Mi piacque il suo modo di scrivere, e mi colpì perché mi apparve molto distante dalle sue letture preferite, indicate in uno spazio apposito.
Lasciai un breve commento in questo senso, cui cortesemente rispose, e mi ripromisi di passare ancora.
Ma poi non lo feci, si sfogliano tanti blog, tanti attirano la nostra attenzione...
Insomma sul blog di Enzo Rasi sono ripassata solo dopo le elezioni.
Le commentava, addolorato e pieno di domande, in un post molto bello.
Mi preparai a scrivere un commento e lessi quelli che mi precedevano.
Scoprii così che una sanguinosa querelle, di difficile identificazione, lo contrapponeva a Baluginando.
Mi limitai a confermargli, in forma scherzosa, il mio apprezzamento e ad invitarlo ad abbandonare il proposito, espresso nel suo post del giorno, di chiudere il blog definitivamente. Quello, infatti, era il suo post di addio. In seguito ho letto e riletto la storia di questa contrapposizione che ha provocato la chiusura del blog. Mi sembra di aver capito, ma vado a tentoni, che all’inizio si sia trattato di piccole ombre; un termine al posto di un altro. Piccole cose. Poi la discussione virò e divenne di tipo letterario. Si contendeva sullo stile.
Per questo nel commento gli confermai il mio apprezzamento, perché il suo stile è buono. O almeno così appare a me.
Ma, ed è questo che più mi interessa, alla fine per Enzo Rasi la discussione si era fatta diversa e molto coinvolgente perché verteva su quanta e quale parte di se stesso –di noi stessi- fosse presente sul blog.
Si sentiva sconfitto perché aveva voluto-o tentato, o creduto di- mettere sé nel blog e gli sembrava che gli si chiedesse di incartarsi un po’, di cellophonarsi per rendersi più presentabile.
Questo, almeno, è quello che mi sembra di aver capito. Ma, naturalmente, proiettare è fin troppo facile!
Il tema mi trova sensibile, tanto che più volte ci sono tornata sul mio blog.
E mi dispiace che, proprio quando trovo qualcuno disposto a discuterne con la mia stessa partecipazione, questo qualcuno si involi e si renda irrintracciabile. E poi non posso accettare che ci si possa fare del male, attraverso un blog, come se le occasioni che la vita reale ci offre non ci bastassero.
A questo si aggiunge il fatto che non so perdere. Non so cioè accettare, buona, buona, che cose o persone, affetti o simpatie o conoscenze o semplici lampi di presenze, spariscano dalla mia vita. Mi danno, per questo. Non riesco a farmene una ragione. Ingoio, ma mastico amaro. Insomma, non mi so rassegnare.
Così non mi rassegno al fatto di aver perso Enzo Rasi. E lancio questa bottiglia nel maremagnum della rete nella speranza che Enzo Rasi la veda galleggiare sulla battigia di Palermo, la raccolga e ricompaia sullo schermo del mio computer.

Questo post l'ho pubblicato, identico, sotto forma di commento sul blog di Enzo Rasi. Ho aggiunto successivamente solo un piccolo paragrafo che completa il mio pensiero.

martedì 22 aprile 2008

ringraziamenti



Ringrazio chi mi ha offerto questa bellissima musica e Amalteo, che mi ha insegnato a postarla.


Was there something more I could have done?
Or was I not meant to be the one?
Where\'s the life I thought we would share?
And should I care?

And will someone else get more of you?
Will she go to sleep more sure of you?
Will she wake up knowing you\'re still there?
And why should I care?

There\'s always one to turn and walk away
And one who just wants to stay
But who said that love is always fair?
And why should I care?

Should I leave you alone here in the dark?
Holding my broken heart
While a promise still hangs in the air
Why should I care?

scuse

Dai commenti ricevuti deduco che la metà dei miei generosi lettori non sente la musica postata ieri.
Rettifico perciò la mia precedente segnalazione: Ce l'ho QUASI fatta da me!
Torno a studiare. Maccheppalle!

Tema/Svolgimento

Tema.
Supponete per un momento di dovervi prendere cura dell’educazione dei giovani del pianeta. Delle bambine e dei bambini delle classi elementari, per la precisione. E immaginate che vi sia data la possibilità di dare loro un solo, unico insegnamento.
Immaginateli tutti lì, ognuno nel proprio paese, nella propria scuola e tutti in attesa della vostra, unica lezione.
Non ne avranno altre. Su questa dovranno orientare la loro vita. Quale sarebbe la vostra lezione?


È quando dobbiamo scegliere che riusciamo a toccare l’essenziale.
Quindi, lasciando da parte tutte le parole, spesso perfettamente in mala fede, sull’educare e sulla scuola e sui professori ecc, guardatevi dentro e dite: voi, che cosa ritenete assolutamente indispensabile insegnare ai giovani?
Non mi aspetto discorsi filosofici, alta morale e psicopedagogia. Ma, concretamente, una breve lezione. Ex cathedra. Perché qualche cosa si deve avere il coraggio di dire, ex cathedra.



Il mio svolgimento.
Ecco, io penserei soltanto a dar loro l’ idea più concreta e visiva possibile, della nostra e loro collocazione nello spazio.
La mia sarebbe una lezione di astrofisica.
Molto semplice, ridotta all’osso.
Servendomi di tutti i sussidi che il mondo moderno è in grado di offrirmi (foto, filamati, simulazioni ecc.) gli parlerei della collocazione della terra nel sistema solare e del sistema solare nell’Universo.
Gli mostrerei quanto minuscola, insignificante, periferica sia la nostra Terra.
Cercherei di imprimere nella loro mente la consapevolezza dell’Unico Destino, che accomuna tutti gli abitanti di questo pianeta.
Siamo qui e siamo piccoli. Siamo una cosa sola, nel buio dello spazio. Una cosa sola.
Oggetto della mia lezione, la mia sola lezione, sarebbe questa consapevolezza.

E poi pregherei i miei Dei perché da soli, riescano a far discendere da questa consapevolezza, tutto il resto.
Tutti quei bei sentimenti, quei nobili, alti, principi, quelle leggi morali, quelle regole, quei sistemi filosofici, che non hanno nessuna speranza di essere rispettati ed applicati se noi uomini non raggiungiamo una PROFONDA consapevolezza della nostra collocazione nello spazio e nel tempo e del nostro destino collettivo.
Se ci vediamo così minuscoli a ruotare nello spazio, tutti su questa vecchia palla, che si può fare incandescente o gelida il fatto di essere tutti uguali è di una evidenza abbagliante.
Invece di soffiare sull’anima belle parole direi semplicemente. Ecco, abitiamo tutti insieme qui. Tutti insieme su questa palla che gira. Che ne vogliamo fare di questa casa comune?
Come ci conviene viverci?
Quali regole ci conviene darci?
Vorrei che si rendessero conto, visivamente, che immaginare un destino diverso per stanze diverse della casa è idiota, prima che immorale. Che la casa va tenuta in ordine, che il frigo sta lì per tutti, che non ci sono figli e figliastri perché abbiamo da badare al tetto e alle fondamenta e conviene darci una mano.

Il linguaggio della “morale” anche quando rivestito di belle immagini e di squisiti sentimenti, può lasciarci pericolosamente sordi. Io punterei di più su un istinto di autoprotezione che sulla mozione degli affetti.
Almeno in questa fase storica e in questa congerie culturale.

Fine della lezione. Andate pure a casa e senza spingere per le scale!

post nel Giorno della Terra

Oggi è la Giornata mondiale della Terra e io ne approfitto per dire alcune -poche- cose che mi girano in testa da un po' di tempo.

La prima: Niente equivoci sul significato del termine "natura". Io trovo che se ne faccia un uso assolutamente improprio e addirittura scandaloso. Della natura, attraverso la pubblicità, Internet, la chiacchiera comune, si tende a dare un'immagine falsa. Edulcorata, da immaginetta consolatoria, scientificamente falsa, inutilmente sentimentale.

Innanzi tutto la natura, nella maggior parte dei casi, viene presentata come "cosa altra" rispetto a noi.
Questo peccato, che Cartesio ha sulla coscienza e il cristianesimo con lui, porta con sé una serie di gravi conseguenze. La prima è che, considerando la natura come "cosa altra", noi ci sentiamo suoi proprietari, la reifichiamo mentre nobilitiamo noi stessi, pensiamo di averla avuta a nostra disposizione e di poterne usare ed abusare.
La seconda conseguenza è che, perdendo il senso della nostra appartenenza alla natura stessa, della nostra collocazione nell'ambito dei fenomeni naturali, pensiamo alla terra che ci ospita come ad un territorio dove sia possibile tracciare confini.
Il nostro destino invece, di noi esseri umani, è proprio quello di essere uniti in un solo destino. E se questo concetto fosse interiorizzato profondamente dentro la coscienza di ogni nuovo nato, non ci sarebbe neanche bisogno di fare appello alla morale per evitare comportamenti potenzialmente distruttivi. Se sentissimo profondamente che siamo tutti la stessa inezia vagolante nello spazio, saremmo di necessità più coesi nel difendere il bene comune: la Terra che ci ospita e il sistema di cui essa fa parte. Il concetto che ogni guerra è una guerra fratricida, sarebbe molto più chiaro e immediato.
Detto molto volgarmente: siamo tutti sulla stessa barca, darci spintoni ci porta fatalmente a fondo.

Secondariamente, la Natura viene presentata come cosa buona e giusta in contrapposizione con la cultura.
E' tutto un peana alle buone cose della natura contro le cose terribili create dall'uomo. A parte il piccolo e già illustrato particolare che l'uomo è natura, essa è piena di pessime cose, di sostanze e fenomeni, di accadimenti e principi potenzialmente o di fatto non solo nocivi ma mortali per noi umani. La prima cosa che l'essere umano ha dovuto imparare (e che deve ancora, e senza cessa, studiare) è come difendersi dalla natura. Sia quando assume l'aspetto dello tsunami, sia quando assume quello incantevole dell'oleandro o quello "filosofico" della cicuta.
(Piccolo inciso letterario: leggete "L'oleandro bianco" di Janet Fitch, è un po' "contundente" ma molto bello).
Invece la pubblicità lancia quotidianamente il suo sciocco proclama: usa questo prodotto perché è naturale! Ah, sì? Pure il vino lo è. Vogliamo parlare della cirrosi epatica? Mentre non lo sono i cortisonici. In presenza di una crisi allergica da puntura di una vespa -naturalissima vespa, per altro- rifiuteremo la fiala di cortisone perché uscito dai laboratori e non colto in graziosi mazzolini?
In giro su Internet non si contano i siti dove si usa il termine naturale con il senso di buono in opposizione ad artificiale come cattivo. Questo è pericolosamente falso. La natura non è né buona né cattiva. Ma può essere entrambe le cose. E dalle mani dell'uomo sono uscite ed escono sostanze e tecniche meravigliose a nostro riparo e protezione nei confronti proprio della natura. Spesso mi capita di sentir dire: "Questo è un prodotto sano, lo vendono in erboristeria". E perché secondo voi l'erborista ha sempre armadietti chiusi a chiave? Perché tra le erbe che vende ce ne sono di pericolosissime. Ed anche quelle buone, salutari, lo sono solo all'interno di un uso corretto. Questo vale per i prodotti "naturali" come per i prodotti di sintesi.
Non è l'appartenere al mondo "naturale" o meno che rende una sostanza buona o cattiva, ma l'uso che se ne fa. La nostra vigilanza deve perciò estendersi dal laboratorio al prato, dall'erborista all'industria farmaceutica.

Io non ho suggerimenti, consigli, indicazioni specifiche o personali da dare per la protezione del nostro pianeta.
Mi affido a quello che Istituzioni, Associazioni, studiosi e politici accorti e sensibili ci ripetono dai tempi di Rachel Carson.
Oggi i giornali ne saranno pieni.
La mia raccomandazione è una sola: la Natura siamo anche noi, consideriamocene parte tra le altre, legata di necessità al destino delle altre. Proviamo a sentirlo nel profondo di noi e comportiamoci di conseguenza.

lunedì 21 aprile 2008

ringrazio/non ringrazio

Non ringrazio tutti i blogger cui ho rivolto accorati appelli perché mi insegnassero ad inserire brani musicali nel mio blog.
Un silenzio molto poco musicale ha fatto seguito ai miei messaggi.
Ringrazio la mia mamma e il mio papà che mi fecero la testa dura. Ce l'ho fatta da me!
Sarebbe veramente ingiusto se la polizia postale mi arrestasse al mio primo file audio!



Ray Charles- You are so beautiful to me

You are so beautiful to me
You are so beautiful to me
Can't you see
You 're everything I hoped for
You 're everything I need
You are so beautiful to me

Such joy and happiness you bring
Such joy and happiness you bring
Like a dream
A guiding light that shines in the night
Heavens gift to me
You are so beautiful to me

ringraziamenti & segnalazione di scambio ;-)

Mariateresa & Marina, contente e soddisfatte, ringraziano Gagarin per aver segnalato il loro nuovo sito The bookshow sulla rivista di OUT che è in rete con il nome il blog di out.
Il blog è frutto della collaborazione di: WebmasterMascherato, Hurricane, Vincenzo Occhionero, Sam the Libertarian, Flok e Gagarin stesso.

figlia di mezzo/otto/scuolacalcio

Nell’ambito del suo piano per ottenere l’attenzione del Comandante, verso i dodici anni la figlia di mezzo decise di varcare l’ultimo confine rimasto fra lei e i ragazzini con cui giocava nelle sue vacanze.
Chiese quindi al Comandante che le insegnasse qualche rudimento del gioco del calcio. Con la stessa distrazione con cui avrebbe potuto dirle di no il Comandante acconsentì.
Messa quindi in campo nella partitella che si giocava nel giardino della sua infanzia, benché veloce ed agile, la figlia di mezzo fu presto dimenticata dagli altri giocatori.
Uscendo però prepotentemente dalla nebbia che sembrava averla resa invisibile, la figlia di mezzo alla prima occasione afferrò quel pallone che nessuno le passava mai e testardamente lo difese stringendolo tra le braccia, finché i cinque maschi, due adulti e tre ragazzini, non ebbero preso solenne impegno di passarglielo durante il gioco.
Fu così che la figlia di mezzo imparò, sia pur meno che passabilmente, a giocare a pallone, completando la sua formazione di maschio.
Ma poiché questa aveva compreso anche la difficile arte di non piangere, alla figlia di mezzo, che aveva ricacciato le sue lacrime nel fondo di se stessa, accadde di non più ritrovarle per anni ed anni.

figlia di mezzo/sette/maschio

Quando la figlia di mezzo capì che cosa significasse essere femmina nel mondo che si trovava ad abitare, decise immediatamente ed indefettibilmente di diventare un maschio.
Si applicò al compito con il massimo di concretezza pretendendo dal suo corpo l’esecuzione precisa di ognuna delle abilità in cui si esercitavano i maschi.
Cominciò quindi da subito a misurarsi con questi sul piano fisico. Molto alta per i tempi ma niente affatto robusta la figlia di mezzo compensò con il coraggio e la decisione la mancanza di peso e vinse molte sfide, incassando senza troppe recriminazioni la sua parte di colpi e riportando un’ infinità di ammaccature, segni e cicatrici su gambe e braccia. Ma ne distribuì altrettanti.
Mentre la madre tentava inutilmente di ingentilirla, la figlia di mezzo remava controcorrente puntando ad essere, per il Comandante, quel figlio maschio che la natura gli aveva rifiutato e che forse, dico forse, avrebbe potuto attirare la sua attenzione.
Per tutto l’arco della sua giovinezza la figlia di mezzo, che il Comandante consuetamente si lasciava alle spalle, recriminò con se stessa per non essere riuscita a portare a termine quell’opera di trasmutazione sessuale.

domenica 20 aprile 2008

Erato, aspetta



La Musa in collera

Perché scrivo canti d’amore
così raramente?
Questa domanda già prima
me la potevi fare,
ma tu, come si comporta
ogni uomo indulgente,
aspettavi la scintilla
che in strofa s’accende.

È vero, taccio-ma taccio
solo per timore
che il mio canto in futuro
mi dia dolore,
che verrà giorno e d’un tratto
smentirà le parole,
resteranno ritmi e rime,
se ne andrà l’amore,
e sarà inafferrabile
come l’ombra di un ramo.
Oh, sì, un normale timore
mi lega la mano.

Questo mio silenzio
so però spiegare.

Come incidere su pietra
parole audaci,
se neppuro oso toccare
petalo di rosa?
Timore arciprudente,
tu mi fai paurosa...

Quando misi mano al foglio,
c’era un altro fra noi.
Non attese, corse fuori
sbattendo la porta.
Se era il vento che entrava
-poco importa, ma se
era la musa, la Musa
dei canti d’amore?

So che la mia prodezza
indignerà i vicini.
Ma dica pure la gente
ciò che le pare.
Correrò giù e griderò
ai quattro venti:
Erato, torna! Aspetta!
Erato, mi senti?

Wilsawa Szymborska
da "Discorso all'ufficio oggetti smarriti"
Adelphi editore

CAB: catena amici blog

Su invito di Cristiana riporto qui 6 cose che mi piacciono. Ma, come sempre, non continuo la catena.
Mi piace infilarmi tra lenzuola fresche.
Mi piace cantare.
Mi piace essere in pace con la gente.
Mi piace leggere.
Mi piace il profumo Fracas.
Mi piace essere puntuale.

In più mi piace Cristiana, se no non abboccavo al CAB.

sabato 19 aprile 2008

dichiarazione d'amore

Di seguito al saluto a Césaire, mi è venuto un momento di malinconia.
Mi sono chiesta: i poeti -queste figure che, anche quando sono grandi, vivono nell’oscurità che la nostra epoca riserva alle persone ininfluenti- i poeti, sanno che c’è chi li ama? Sanno che ci si stringe il cuore quando ne perdiamo uno? Sanno che andiamo a riprendere le loro poesie, per tema che spariscano anche loro?
Io rimpiango di non aver mai potuto dire il mio amore ai poeti che ho amato.

I poeti sono lontani da noi. È giusto, stanno con la poesia e la poesia non ama la confusione. Ma forse avrebbero bisogno che noi dicessimo loro il nostro amore, come noi avremmo bisogno di confessarlo. È peccato non confessare l’amore. Qualunque tipo di amore. Ogni volta che lo teniamo per noi derubiamo qualcuno. L’amato, anche se poeta. E noi stessi.

Forse bisognerebbe interrompere ogni nostra attività. Vivere di qualcosa sgraffignato qui e là e dedicarsi solo a confessare i nostri amori.
Non per sempre. Per un periodo della nostra vita. Un anno sabbatico magari, o una specie di servizio civile. O militare. Perché l’amore è una terribile arma deflagrante e chi va in giro a dichiarare il proprio amore è molto, molto pericoloso. Meravigliosamente pericoloso.
Sì, da giovani, prima di entrare nella vita adulta, tutti dovremmo passare almeno un anno ad imparare come dichiarare amore. A tutti e a chiunque. Imparare attraverso la pratica della dichiarazione d’amore.
Esercizio prezioso, che, certo, ci sarà utile più avanti.

Non l’ho fatto il mio apprendistato.
Ma forse potrei cominciare adesso a dichiarare il mio amore.
Oggi a Aimé (bizzarria il suo nome! forse è stato questo a suggerirmi i miei pensieri).
Con un piccolo bigliettino.
“Caro Aimé, ti leggevo e sentivo caldo e freddo, paura e pace. Volevo penetrare la tua lingua, che allora non conoscevo. Ma amavo tutti i tuoi suoni e le tue parole divenivano comprensibili.
Ti ho amato. E ti amo. Grazie, marina”

adieu

Ci ha lasciati un poeta, Aimé Césaire, che ha dato un nome alla coscienza piena ed orgogliosa di essere negro: negritudine.
La sua poesia partecipa in modo fremente alle sofferenze dei derelitti, ma coglie anche la bellezza sontuosa delle Antille, la sua terra.



Da "Cahier d' un retour au pays natal"


Partir.

Comme il y a des hommes-hyènes
et des hommes-
panthères,
je serais un homme-juif

un homme-cafre

un homme-hindou-de-Calcutta

un homme-de-Harlem-qui-ne-vote-pas


l'homme-famine, l'homme-insulte, l'homme-torture

on pouvait à n'importe quel moment le saisir
le rouer 
de coups,
le tuer - parfaitement le tuer -
sans avoir 
de compte à rendre à personne
sans avoir d'excuses à présenter à personne

un homme-juif

un homme-pogrom

un chiot

un mendigot



mais est-ce qu'on tue le Remords,
beau comme la 
face de stupeur d'une dame anglaise
qui trouverait 
dans sa soupière un crâne de Hottentot? 



Come esistono uomini-iena e uomini-pantera
io sarei un uomo-giudeo
un uomo-cafro
un uomo-hindu-di-Calcutta
un uomo-di-Harlem-che-non-vota.
L'uomo-miseria, l'uomo-insulto, l'uomo-tortura.
Lo si poteva in qualunque momento afferrare
picchiare a sangue
uccidere, perfettamente uccidere
senza aver da render conto a nessuno
senza aver scuse da presentare a chicchessia.
un uomo-giudeo
un uomo-pogrom
un chiot
un accattone

ma si uccide forse il Rimorso,
bello come la faccia stupita di una dama inglese
che trovasse nella sua zuppiera un cranio di Ottentotto?

venerdì 18 aprile 2008

registrare la vita

Dall’ osservazione personale e dai racconti di amici apprendo che è ormai invalso l’uso di portare sempre con sé -in tasca, se si tratta di uomini, o in borsa, se si tratta di donne- una fotocamera, quando non addirittura una telecamera, digitale. Sempre.
Non parlo di persone che, sia pure amatorialmente, come attività seconda creano video o fanno foto, ma di persone come me. Anche se non redattrici di un blog.
Naturalmente non ho niente in contrario, però questo mi sollecita qualche riflessione. Mi chiedo cioè quale sia lo scopo di questa forma di archiviazione minuta della propria vita.
Quale bisogno spinge queste persone?
Avanzo un’ ipotesi. Il desiderio di non farsi sfuggire momenti, frazioni, piccole particelle di esperienza. Di non perdere un’emozione, una sensazione, una -è il caso di dirlo- impressione. Di documentare che si è vivi. E di sottrarre al tempo e quindi alla dimenticanza, quei loro momenti di vita.
La mia idea in proposito è improntata a scetticismo. Dubito che la via per conservare emozioni o sentimenti sia questa.
Ma preliminarmente ritengo che solo il presente sia vita. Pienezza di vita. Non significa affatto che io non ami il passato. Vi torno spesso, con il pensiero e con il cuore. Addirittura portata dal corpo. Quanto al futuro non sono ancora entrata –deo gratias- in quella fase della vita in cui si smette di pensarne uno per sé.
Ma è il presente a contenere per me la vita. Non sono abbastanza sognatrice per assaporare il futuro né sufficientemente nostalgica per rigustare il passato.
Inoltre dubito anche che una foto o un video possano davvero farci rivivere emozioni passate e riportare alla nostra coscienza attimi di vita lontani.
Le madeleines non erano in foto. O Proust non ne avrebbe parlato e noi non continueremmo a citarle all’infinito. Sono gli odori, i sapori, anche i panorami, certo -ma presenti, e noi presenti in loro- ad avere, secondo me il potere di risuscitare il passato. Insomma il passato per me è molto sensuale, “corporeo”, nel bene e nel male, naturalmente. Io ho un sasso, anzi un minuscolo frammento calcareo, capace, al solo toccarlo, di spostarmi indietro di una quarantina di anni. Ed ho una pietra, una liscissima, piatta, celestissima pietra, che di anni me ne toglie almeno venti. Il tatto ha questo potere. E bastano le prime note del Primo Concerto per tromba di Haendel che vengo letteralmente riassorbita in un’altra dimensione temporale. Per non parlare del potere che hanno il profumo del tiglio e quello della ginestra di ritrasformarmi in una marina ormai lontana nel tempo.
Al potere delle immagini però non credo.
Io penso che chi non ha conservato in sé tracce profonde di attimi significativi della propria vita, non li vedrà risorgere di fronte ad una foto e neanche guardando un video.
Entrambi possono aiutare, ma solo a patto di aver immagazzinato in un profondo, immateriale, intimo serbatoio quelle particelle di vita che hanno avuto per noi un significato sensibile.
Se di questo non siamo capaci, se questo piccolo, molecolare fenomeno non avviene spontaneamente in noi, è perfettamente inutile girare per la città con le nostre fotocamere, riprendere l’aria in fermento della cena tra amici, la risata di una ragazza per strada, o il pianto di un bambino fuori di un asilo, l’inclinazione del sole al tramonto e la mano abbandonata di un vecchio.
E qui avanzo una seconda ipotesi. Cioè che la spettacolarizzazione della vita percorra ormai a tal punto le nostre vene che, se non riprendiamo, in foto o in video, gli attimi della nostra vita non siamo certi di averli davvero vissuti, anzi penso addirittura che li viviamo davvero solo quando li rivediamo in foto o in video.
Il fenomeno viene da lontano.
Io ho conosciuto –e sono certa di non essere la sola- persone che si godevano davvero i loro viaggi solo quando potevano rivederli in diapositiva. Capaci di guardare lo spettacolo di un’isola che emerge dal mare e dalla lontananza solo attraverso un mirino. Indifferenti alla distesa delle risaie di Kowloon o alla linea violetta del Rif se il loro occhio non poggiava su una macchina fotografica. E donne che si accorgevano improvvisamente della maschia bellezza di un partner solo vedendolo in una foto. Toh, però!
Questo fenomeno con gli anni si è aggravato.
La gente non desidera viaggiare, ma aver viaggiato e forse, temo, non desidera vivere, ma aver vissuto e raccogliere le briciole di questa vita diaframmatica quando la vita non è più tale.

giovedì 17 aprile 2008

dare futuro al passato



La sala Clementina del complesso Monumentale di S. Michele a Ripa, a Roma, ospita da ieri (e fino al 30 aprile) una mostra molto particolare.
È l’incontro fra tre forme di arte: i dipinti sui bambini africani dei fratelli Cristiano e Patrizio Alviti, i giocattoli che i bambini africani stessi hanno costruito con i più poveri ed impensabili materiali e le sculture di Annalisa Ramondino.
È di queste che voglio parlarvi.


Annalisa è per me un’ amica di lunghissima data ma, nel recarmi alla sua mostra, io mi sono spogliata –come sempre ho fatto- di questo legame affettivo, per incontrare le sue opere senza filtri, per ascoltare che cosa avessero da dirmi senza che la sua voce nota si sovrapponesse alla loro.
Detto il più stringatamente possibile, il lavoro artistico di Annalisa consiste nel raccogliere materiali in disuso, oggetti abbandonati e deteriorati e nell’ utilizzarli per creare oggetti nuovi.



Questa definizione minimale non dice però, secondo me, in che cosa consiste davvero la sua arte.
Io credo che essa sia innanzitutto legata allo sguardo. Le mani -con cui Annalisa personalmente taglia, incolla, assembla, cuce, incastra ecc.- sono artefici dei suoi lavori, ma è lo sguardo speciale con cui Annalisa guarda al mondo che li rende possibili. È il suo sguardo che trasfigura i ferri arrugginiti, le vecchie porte scrostate, le lamiere zincate, i fili di ferro, le reti metalliche. In questi oggetti, di cui va a caccia in spedizioni appassionanti ed avventurose, Annalisa vede una bellezza che noi non sapremmo vedere e la salva dalla dimenticanza e dalla indifferenza e ce la ripropone, in un’altra forma. È qui che le sue mani intervengono e immagino che il contatto con i diversi materiali, nel piacere che suscita, la guidi verso una o un’altra realizzazione.
La bellezza di questi oggetti è già nello sguardo di Annalisa, che riscopre piccoli nuclei di senso, là dove il senso era andato perduto.
Forse è per questo che le sue sculture, oggetti completamente nuovi rispetto al vecchio uso, sembrano sempre ricordarci qualche cosa. Ci ricordano una bellezza che guardammo di sfuggita e che, se pure completamente trasformata, torna ad essere bellezza.

Un artista, credo, è fatto di tre cose: libertà, immaginazione e tecnica.
Annalisa ha una grande libertà, quella di immaginare molte e nuove vite per i suoi materiali, di usarli al di fuori di ogni contesto già consumato, di riviverli come oggetti appena scoperti. I materiali che Annalisa cattura nella rete della sua fantasia -e piega alle sue intenzioni con varie tecniche- non “tornano” a vivere la loro vecchia vita. Ne scoprono una nuova. Annalisa non fa un lavoro di salvaguardia e recupero di materiali; non è archivista, né veramente collezionista.
Secondo me è come un peschereccio che arriva in soccorso di naufraghi. Li raccoglie con amore, ma poi li porta in una terra nuova, dove vivranno una vita nuova.
Noi, che li guardiamo, sentiamo però, come lontananza e nostalgia, l’ eco di quella vecchia vita. Ed è questo impasto di vecchia, fragile, consunta bellezza e di nuova, rigenerata grazia, che costituisce il fascino delle sue sculture.
E la sensazione che si prova è quella, emozionante, di essere trasportati in un mondo diverso: e un po' ci confonde e un po' ci consola.

In questa mostra, l’accostamento con i giocattoli superbamente belli dei bambini africani, fatti di quello che noi considereremmo un niente, fa risaltare una somiglianza abbagliante: la libertà dello sguardo, che, nei bambini come in Annalisa, non percorre le vie già tracciate per oggetti e materiali, ma li reinventa e li porta a sé e al proprio significato. Solo un bambino o un artista sa fare questo.


giocattolo africano


giocattolo africano


giocattolo africano

invito in biblioteca


C’è voluto del tempo e molta pazienza, ma alla fine ce l’ho fatta! Mariateresa ha accettato di fare un blog con me! Si scherniva, tergiversava, negava recisamente, faceva delle false partenze, nicchiava e poi si ritraeva, titubava e si interrogava...
Uno stillicidio! Alla fine si è arresa ed ha anche partorito l’idea vincente. Semplice, ma piena della genialità che contraddistingue Mariateresa.
Ogni giorno ognuna di noi estrae dalla sua biblioteca –sono entrambe piuttosto sostanziose e ne chiedo scusa all’anonimo che mi trova spocchiosa- un libro a caso.
Scegliamo quindi un passo che, per qualche misteriosa ragione, ci ispira in quel particolare momento e lo riportiamo sul blog.
In pratica il libro si presenta da solo.
Non sono consigli di lettura. Potrebbero capitare anche libri che non ci sono piaciuti.
È un po’ come se entraste in casa nostra e curiosaste nelle nostre biblioteche, tirando fuori un libro, sfogliandolo e soffermandovi brevemente su una pagina.
Ma non siamo chiuse ad altri apporti. Se qualcuno di voi vuole iniziare questa pratica, quasi zen, e tirare fuori un libro a caso dalla sua libreria per proporcene un brano, noi lo pubblicheremo. Faremo spazio nella nostra libreria virtuale anche ai vostri libri.
Tutto qui.
Però noi ci stiamo divertendo, perché l’accostamento casuale di libri diversi crea simpatiche cacofonie ma anche rispondenze suggestive.
Intendiamo inserire anche della musica.
Anche qui se avete brani da pescare potete inviarceli.
L’unico criterio è la casualità. A questo teniamo. Il caso ci affascina.
Ecco qui l’indirizzo della nostra biblioteca virtuale http://thebookshow.blogspot.com
Potete curiosare quando volete. Anzi, vi aspettiamo!

mercoledì 16 aprile 2008

musica por favor



Te negare tres veces
antes de que llegue el alba
Me fundire en la noche
donde me aguarda la nada.
Me perdere en la angustia
de buscarme y no encontrarme
te encontrare en la luz
que se me esconde tras el alma.
Desangrare caminos,
sin salidas como muros.
Recorrere los cuerpos,
desolados sin futuro.
Destruire los mitos,
que he formado uno a uno,
y pensare en tu amor,
este amor nuestro vivo y puro.
Te veo sonreir,
sin lamentarte de una herida.
Cuando me vi partir,
pense que no tendrias vida.
Que gloria te toco,
que angel de amor,
que ha renacido.
Que milagro se dio,
cuando el amor volvi a tu nido
Que puedo hacer?
Quiero saber,
que me atormenta en mi interior.
Si es el dolor,
que empieza a ser,
miedo a perder lo que se amo.
Te veo sonreir,
sin lamentarte de una herida.
Cuando me vi partir,
pense que no tendrias vida.
Que gloria te toco,
que angel de amor,
que has renacido.
Que milagro se dio,
cuando el amor volvi a tu nido
Que puedo hacer?
Quiero saber,
que me atormenta en mi interior.
Si es el dolor,
que empieza a ser,
miedo a perder lo que se amo.
Ser que eres el amor de mi vida...!!

Storia della felicità/sette/il secolo XVIII

Quale giorno migliore di questo per pensare alla felicità?


Voltaire, quando ancora sorrideva.



Se sul finire del XVII secolo Locke e Hobbes hanno chiamato, il secolo dei Lumi risponde. Lo percorre infatti, in lungo e in largo, l’aspirazione alla felicità terrena.
È un abate (Pestré) a pronunciare la parola scandalosa: diritto alla felicità. Lo farà compilando appunto la voce "Felicità" dell'Enciclopedia di Denis Diderot.
Ma come attuare questo diritto? Nessuno scrittorte del secolo si sottrarrà a questa domanda e sul tavolo della produzione letteraria si rovesciano opere ed opere di ogni natura e consistenza, trattati, saggi, epistole, discorsi, tutte alla caccia della felicità.

Naturalmente una impennata di così grande favore e fiducia nella possibilità della felicità terrena ha origini diverse. Non solo le precedenti riflessioni di Locke e Hobbes, ma cause molto materiali: l’ascesa degli stati-nazione capaci di mantenere ordine e sicurezza nella società; i progressi nella produttività agricola; l’ espansione del commercio; il tasso di mortalità decrescente, (migliore alimentazione degli animali, maggior consumo di carne, più proteine); la coltivazione di nuove terre e la diffusione di nuove colture(mais, patata, caffè brasiliano, zucchero delle Indie Occidentali, tabacco della Virginia).
L’aspirazione alla felicità può farsi sentire perché le energie di uomini e donne non sono più tutte concentrate nello sforzo di mantenersi vivi.
Diminuiscono carestie ed epidemie, e se nel XVII secolo un terzo della popolazione europea aveva trovato la morte per fame, guerra, malattie, i tre fantasmi cominciano ad impallidire. Solo nell’ultimo decennio del secolo i conti, inevitabilmente, si riequilibreranno.

L’illuminismo (o gli illuminismi) dal canto suo gioca un ruolo importante.
Appoggiandosi alla scienza fisica di Newton e a quella della natura umana di Locke, gli illuministi diffondono l’immagine di un universo armonioso, governato da leggi comprensibili.
Al centro di questo mondo troneggiano gli esseri umani, privi di peccato originale, capaci con le loro forze e la loro libera ricerca di migliorare la propria condizione terrena.
La felicità che si persegue non è più solo individuale, è ad intere società e addirittura all’umanità tutta che gli illuministi vogliono recare felicità.
Questo quadro "felice", non inganniamoci, è relativo: tra il dire e il fare...ci sono i privilegi, le classi, lo sfruttamento, le ineguaglianze.
Gli squilibri violenti porteranno alla grande fiammata della Rivoluzione Francese.

Una grossa scossa alla fiducia del secolo nella possibilità di una vita felice sarà quella tremenda che distrugge Lisbona nel 1755. Terremoto, seguito da tsunami, da incendi, da epidemie.
E Voltaire rimette tutto in discussione.
Ma se il terremoto di Lisbona sconvolge così a fondo la fiducia di Voltaire è perché la sensazione che la vita potesse essere buona aveva ormai conquistato ampi territori culturali. Il grande illuminista riesaminò le sue affermazioni circa la naturale armonia dell’universo e compì un giro di 180 gradi. Al termine scrisse il suo capolavoro, Candide, in cui sarcasticamente deride la sua stessa pretesa che questo sia il migliore dei mondi possibili.
Ma, una volta seminata, l’illusione della felicità non poteva più essere strappata agli umani. Almeno non a quegli umani infiammabili e determinati che sono i Francesi.
Aux armes citoyennes....


Jean-Pierre Houel- Prise de la Bastille.

martedì 15 aprile 2008

q.b./quanto basta



Del mio difficile rapporto con le feste ho già detto.
Mio marito invece ama festeggiare e soffre per la mia resistenza nei confronti dei festeggiamenti.
Confesso che io non mi limito alla resistenza. Mi sottraggo tout court, deludendolo e/o irritandolo.
Tanto per fare un esempio, rarissimamente abbiamo festeggiato l’anniversario del nostro matrimonio e comunque mai con feste e riunioni. Se mai, con tranquille e ristrettissime cene in famiglia
Essendoci sposati il 15 aprile del ’69 mio marito ed io siamo giunti oggi al trentanovesimo anno di matrimonio. Lui non perde occasione per dichiarare –convintamente- che il colpo più fortunato della sua vita è stato quello che gli ha fatto incontrare e poi sposare me. Su questa sua fortuna, immodestamente ma a ragion veduta, io concordo. Infatti se penso al tipo di donna che sua madre e sua nonna lo invitavano ad impalmare, mi si stringe il cuore per lui. Ritengo pertanto che, effettivamente, avrebbe di che festeggiare. Ma ogni anno rimando: festeggeremo i venticinque, cominciai a dirgli, poi i trenta, poi i trentacinque. Quest’anno mi sono impegnata per il prossimo, quarant’anni tondi, con l’intenzione di rendermi, nei prossimi dodici mesi, così invisa da fargli passare la voglia di festeggiare le sue nozze con me.
Ma, pur senza solenni festeggiamenti, ritengo che la ricorrenza meriti una sottolineatura. Come la meritano i fiori con cui mio marito ha voluto rallegrarmi questa giornata amara. (E ho anche dimenticato di comprare il pane!).
Eccola qui, una storia, sintetica fino all’osso, di questi 39 anni coniugali.

Mio marito è un chimico. Per molti anni ricercatore. Il grosso del suo tempo lo passava a distillare. Il resto a solubilizzare. O a cristallizzare. Infatti, nella gerarchia dei suoi interessi, io mi collocavo dopo La Madre, il mare e il laboratorio. Non è lusinghiero, ma tant’è.
Mentre lui distillava prodotti organici io distillavo pazienza. Distillai il distillabile, poi raccolsi i miei milligrammi di pazienza, li chiusi ben bene in una beuta di vetro che tappai col suo bel tappo di smeriglio e passai alla miscelazione. Miscelai una punta di rancore, si dice q.b. (quanto basta) in un mezzo etto di solitudine e riscaldando il tutto ottenni una quantità smisurata di autonomia.
L’autonomia è una sostanza che si autoriproduce. Non so se ne esistano altre in natura (sicuramente mio marito ha la risposta), ma per quanto riguarda l’autonomia io ho sperimentato che, se si imbocca la via dell’autonomia, questa, invece di consumarsi, come avviene generalmente agli elementi delle reazioni chimiche, cresce.
Se compi una scelta autonoma oggi, domani hai qualche milligrammo di autonomia in più; se ti muovi autonomamente verso qualcosa, senza badare se qualcuno ti accompagna, dopodomani il tuo gruzzolo di autonomia è cresciuto di mezzo grammo. Si va avanti così.
Chissà se, a parte quelle che avvengono sul sole, esistono reazioni continue, permanenti. Questa che produce autonomia lo è. Non si è mai interrotta. E infatti la mia provetta di autonomia è diventata una miniera. Posso pescarne quanta ne voglio.

Intanto il tempo passava. Mio marito uscì dal suo laboratorio (con qualche rimpianto) e prese a muoversi a grandi passi nelle strade del mondo. Io con lui. L’autonomia infatti non esclude i sentimenti. È solo, diciamo così, il rumore di fondo di una relazione. Alcune relazioni questo rumore di fondo non ce l’hanno. Mi dispiace per chi le vive. E questo mi sento di affermarlo nonostante quel mezzo etto di solitudine.
E nonostante quel q.b. di rancore che intanto si era, per fatti suoi, cristallizzato in me.
Mio marito è un chimico di valore, arriccierà il naso di fronte a questo uso, più che imperfetto, dei termini chimici, ma sono certa che mi correggerà. Oh, se mi correggerà!
Da un certo momento in poi ho preso a solubilizzare. Questa fase è delicata.
Compii un esperimento audace. Solubilizzare un cristallo. Un cristallo bello duro. Qui mio marito raggiungerà il massimo di indignazione. Ma gli ho più volte sentito dire che i cristalli si bombardano di qualcosa. Raggi? boh.
Diciamo comunque che ho bombardato di penetrante ragionevolezza e di spassionata accettazione, il mio cristallo di rancore, riducendolo in parti sempre più minute e poi ancora più minute e poi ancora un po’.
Poiché nulla si crea e nulla si distrugge, queste minute particelle di rancore da qualche parte staranno pure, ma sono così ben diluite che, a meno che mio marito stesso, con la sua arte alchemica cui nulla resiste, non le vada imprudentemente a tirar fuori, non danno cenno di sé.
Giunta a questo punto della mia vita e del mio matrimonio, siamo in presenza di un prodotto con parecchie impurità, come è ovvio per reazioni della durata di 39 anni, ma stabile. Non è un gas che evapori, non è un liquido che bolla. È un solido.

Fra i sogni di mio marito c’è quello di metter su, per i suoi anni di riposo, un piccolo laboratorio casalingo, dove riprendere quel gioco che ha tanto amato e che è la chimica da banco.
Immagino che ricomincerà a distillare, a solubilizzare e a cristallizzare.
Io ne sono contenta per lui. Anzi, se mi spiegherà esattamente di che cosa necessita, gli farò anche dei regali appropriati. Quanto a me, il suo laboratorio non mi vedrà. Basta, col misurarmi con tecniche che non mi appartengono. Con la chimica ho chiuso. Non credo di essermela cavata male, ma, dopo tutto, sono una letterata!

buongiorno Italia


I pensieri delle 4 e 01 sono i pensieri delle 4 e 01. Hanno un perspicacia fluttuante, perché la notte è andata troppo avanti e la stanchezza ha triturato le ore e persino la certezza che il giorno nuovo verrà.
Un paio d’ore di sonno s’interrompono di botto sotto l’urto di immagini che si arenano d’improvviso nella coscienza e la rabbrividiscono.
È mentre si giace così, in quei primi momenti sconcertati dall’orrore, che si capisce stranamente chi si è. All’ inizio un precipitato di sentimenti che cozzano, si urtano, si respingono e rimbalzano. Una matassa aggrovigliata di proposizioni, con una sintassi primitiva e una grammatica incerta. Congiuntivi, molti. Frequenti ottativi. Sconsolati indicativi. Condizionali vibranti. Potesse essere ancora ieri. Se tutti avessero votato. Crepassero. È un paese di fascisti dentro. Vorrei andarmene altrove.
Ma alle 4 e 11 gli imperativi cominciano ad affacciarsi. Sono gli imperativi che ti dicono chi sei. È quando l’imperativo sale che ti riconosci. L’imperativo non è solenne, ma è come se lo fosse.
In piedi, Marì!” Un caffè e al computer.
Spiacente blonde, ma “niente occhi bassi e tira dritto.” Gli occhi bassi sono loro che debbono tenerli. I, i miei, glieli ficco in faccia. Voglio guardarli bene, uno ad uno.
Io ho dato il mio contributo, in fede e con sacrificio personale, al bene comune. Ho votato, forzando le mie convinzioni, per strappare questo paese al suo oscuro desiderio di passato. Io ho solo un voto. Ho fatto quello che potevo e che dovevo. Mi sento tranquilla.
Intanto questo. Poi passeremo all’ analisi. Malgrado ogni desiderio di renderla sociologica, economica, politica dunque, la parola merda ricorrerà spesso. Perché per i popoli vale quello che vale per gli individui. E cioè che è il carattere che fa la donna e l’uomo e i suoi comportamenti. Il carattere legge e interpreta la realtà, il carattere suggerisce le azioni, il carattere guida i comportamenti. E la lezione di Leopardi sugli Italiani, mutatis mutandis, è ancora valida. Non ho bisogno di rileggerlo, lo conosco a memoria.
E ben si può dire che oggi, al contrario che pel passato, gli stranieri, quando s’ingannano sul nostro conto, più tosto s’ingannano in favor nostro che in disfavore.”
E ancora: Si vede dalla sopraddette cose che l’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun’altra nazione europea e civile”
Per Leopardi l’Italia è un paese rimasto arretrato rispetto alle linee di sviluppo della civiltà europea. Potremmo contestarlo, smentirlo? Dopo due secoli?
L’italiano è una maschera e ama le maschere dice Leopardi. Ce la sentiamo di negarlo?
Ma chi era Leopardi, in quanto italiano? Il mio amato, il mio insostituibile Leopardi, caro al mio cuore e al mio intelletto, Leopardi era un esiliato. Era un esiliato dentro ed era un esiliato volontario.
Bene, io non sono un Leopardi. E c’è solo da rallegrarsene, perché essere un Leopardi deve aver comportato un tasso di dolore e frustrazione quasi insostenibile. Ma sono esiliata dentro come lui e lo sono volontariamente come lui. Così mi sento.
Mattine fa’ con un’amica tedesca si parlava del peso della storia del proprio popolo su un individuo. Non voglio togliere nulla Irmgard al tuo peso di essere tedesca, ma, credi, anche essere italiana non è cosa facile. Bisogna esiliarsi dentro.
E poi bisogna tirar fuori il carattere. Il carattere non italiano.
Respingere ognuna delle infinite variazioni con cui gli italiani sono italiani.
Le stanerò una per una, queste maschere italiane.
Non oggi. Non ora. Ora sono le 5 e 19, è ancora buio, ma la certezza che il giorno nuovo verrà è tornata. Niente simbolismi o metafore, per carità! Parlo di una giornata qualsiasi, delle sue minute incombenze, dei suoi doveri, delle sue noie, di qualche piccola gioia. Come mi sento?
Beh, il disgusto è tanto. Ma potermi guardare in faccia allo specchio resta una grande cosa.
Anche sapere che non sono sola è una grande cosa. Pensare alle persone ostinate che cercano il bene comune e che lo fanno con quello che hanno a disposizione, anche questo fa bene.
Anche un altro caffè può giovare. Buon giorno Italia.

Post scriptum (tag metablog): per un po' su questo blog la politica non comparirà. Mi e vi concedo una pausa rinfrescante.