Paola sul suo sito Tusitala, ha finalmente iniziato a parlarci del suo soggiorno teheranì.
Qui riporto il suo post e, di seguito, e per quanto è possibile, specularmente, le mie contro-osservazioni.
Secondo me il confronto è interessante, ma giudicate voi.
Mi scuso con Paola, ma le foto bellissime che ha inserito, non sono riuscita a copiarle.
Domenica, 16 Settembre 2007
Vita che fu
Ho lavorato ed abitato a Teheran dal 1975 al 1979.
Sono venuta via da quel paese il giorno in cui Komeinì rientrò dalla Francia. Ci salutammo in volo, io in fuga e lui esule al rientro in patria…
Ero salita sul primo dei due aerei speciali che l’Italia inviò a prelevarci, quando tutto ormai era perduto…ed arrivai a Fiumicino con un Pahlavi d’oro in tasca e quattro valigie. E la chitarra di Ilaria.
Allo scalo romano, ad attendermi vi era Puccio e moltissimi finanzieri peraltro molto molto gentili e collaborativi…
Ho cambiato almeno 3 alberghi, 2 guest houses e 3 abitazioni personali in quella città e sono pure stata ospitata nei principali ospedali, mannaggia !
Vi presento alcune delle persone con cui sono stata felice, a Teheran
- Ella, la mia prima segretaria all’Impregilo ed in assoluto la mia prima amica iraniana.
Quando sono partita Ella era in attesa del secondo figlio. Saranno ancora vivi ?
- La famiglia Caffari.
Se non fossero esistiti, avrebbero dovuto inventarli. Sul serio.
Difficile incontrare persone migliori.
- Puccio Fede, il bel fotografo ed un po’ l’imbucato speciale che arrivava di notte
portandomi il profumo Senso di Roberta da Camerino e ripartiva con i chili di
caviale che io avevo acquistato per lui dal rivenditore “non ufficiale”.
- Saverio Pepe, il ragazzo con cui convissi e che – ora – ringrazio
“sentitamente“
per essere fuggito con la figlia del nostro medico curante.
- Hacopian, l’agente per nulla segreto che amava, forse, gli altri agenti e
si dilettava nel leggere tutte le notizie che riusciva a trovare sui regnanti di ogni
parte del mondo. Lui e Moni, che coppia !
- La corrispondente dell’Ansa che chiedeva a tutti di portarle,
con una faccia tosta che aveva dell’indescrivibile
enormi quantità di parmigiano, di ritorno dall’Italia .
- Gay Graham, collaboratrice di Simin Barbour, era allora ancora perdutamente
innamorata di suo marito… E’ diventata la mia migliore amica e ora, indovinate,
è pianista, a Londra.
- Jean-Claude Vertenelle, paziente e saggio amico, compagno di mille avventure ed
ospite ineffabile. Io gli offrivo, la mattina in ufficio, il nostro caffè italiano e lui,
che importava “di nascosto” lo Champagne dalla sua Parigi, bicchieri di quel
nettare a cena.
Vorrei rivivere alcune delle cene con Jean-Claude nella sua casa iraniana
prima ed in quella di Parigi poi …
Credo che ora sia nel Burkina Faso.
Ero nei miei Twenties … allora
Vestivo con pantaloni a zampa di elefante e zeppe di 13 centimetri, i vestiti che mia sorella mi inviava una volta l’anno. Ne riempiva una valigia e la affidava al personale in partenza per Teheran così io mi trovavo, alle due o alle tre di notte, all’aeroporto ad attendere l’aereo dall ‘Italia e poi alle 8 dovevo essere già in ufficio.
Altre notti invece si andava all’aeroporto perchè la sorella di un nostro collega, hostess dell’Alitalia, atterrava portando con sè un termos di cappuccino italiano, quello di un famoso bar di via Condotti.
Con Randone, un mio collega, ho trascorso ore a farmi spiegare le sue teorie sulle banche, le banche “bone” e poi le “bancarelle”… mi insegnava come riconoscerle e io lo ascoltavo affascinata. Qualche mese dopo il mio rientro in Italia avrei seguito i corsi del Master in Business Administration alla Bocconi.
Certe sere ho ballato con Ignazio uno struggente “parlami d’amore mariù” allo Sheraton. Ero così gelosa quando lui gardava un’altra…una sera vi fu un grande scandalo perchè io gli diedi uno schiaffo…
E a volte, di sabato, il Kayan (chi ricorda il Kayan ? ) pubblicava una foto di Gabriella ritratta in costume da bagno ai bordi della piscina dell’Hilton. Era bella Gabriella.
Da Dessì ho imparato che “non ha più alcuna importanza quello che hai fatto sino ad ora, ma quello che farai d’ora in poi…”
Non c’era ancora la metropolitana, no
I taxi erano collettivi e si chiamavano urlando la direzione all’autista
Nei locali Iraniani si fumava tranquillamente il Narghilè
Le strade avevano tutte, ai lati, i Jubs (le fogne) scoperti
Vi erano solo tre tipi di Vino: uno bianco, uno rosso ed uno rosè.
Guidavo - imperterrita e da sola - sino a Shémiran, a Darband, a Vanak, e poi giù giù sino al telefono pubblico,
giù, ben oltre il Bazar, sino alla Stazione Ferroviaria
con la mia due cavalli color marrone. Ero felice così e non volevo l’autista.
Quante persone hanno visto “tutta” la Teheran che ho visto io ?
Ed ora tocca a me:
Non riuscii a lavorare: la mafia locale, italianissima, dava le cattedre a non laureati amici degli amici e io, che ero un’insegnante di ruolo ed ero risultata seconda in Italia nel concorso per l’insegnamento all’estero, mi vidi offrire delle supplenze temporanee.
Sono ripartita da Teheràn con un normale aereo di linea, senza il mio Buck ma con mia figlia ormai settenne. All’arrivo a Roma aveva quaranta di febbre ed iniziò un difficile periodo, durato mesi, per assisterla e guarirla da una inopinata nefrite.
Anche io rientrai con una chitarra: la mia, cui mi ero dedicata in giornate in cui la mancanza di un lavoro rischiava di mandarmi ai matti.
Mio marito, dopo avere onorato il suo contratto fino all’ultimo giorno, partì, ma per Istambul, con l’ultimo volo di linea che si alzò dal Meherabad. Al suo capo americano suggerì l’idea che lo Shah sarebbe presto caduto. Si sentì rispondere da quell’aquila: Be serious, Ugo, the Shah-y-Shah has a good control of the army! Un mese dopo lo Shah fuggiva all'estero.
Tranne i tre giorni di luglio in cui cercai casa non ho mai vissuto in albergo, a parte in quelli sui generis nei miei viaggi attraverso tutto il paese.
Non sono mai stata ospitata in un ospedale teheranì, ma vi ho dovuto accompagnare sia mia figlia che mio marito. In un caso si trattò dell’ospedale americano, nell’altro del più vicino.
Non ho conosciuto nessuna delle persone che nomini, sicché di me non avrai sicuramente avuto occasione di essere gelosa, fino a schiaffeggiarmi! Inoltre avevo dieci anni più di te, un marito ed una figlia! ;-))
Mi è capitato di incontrare probabili, molto probabili, agenti segreti.
Di uno di questi racconterò qualcosa sul mio blog.
Tutti chiedevamo a tutti di portarci il parmigiano dall’Italia, un bene introvabile e inestimabile.
A molti l’ho portato, come molti me lo hanno portato.
Il caviale lo comprava mio marito, anche lui da rivenditori anomali, dopo un po’ mi aveva stufato e sognavo tartine con burro e alici!
Facevo anche io visite all’aeroporto in piena notte per ritirare pacchi inviati dai miei. Era il personale Alitalia, la "famiglia" di mio padre, che me li portava.
In piena notte arrivavano anche hostess, amiche di mia sorella, che ospitavo per la notte. La passavamo in bianco a parlare di politica, sottovoce come due cospiratrici.
Al ritorno portavano sempre via con sé secchielli dello speciale Yogurth locale.
Prendevo i taxi collettivi, contro i quali mi gettavo per fermarli. Ma anche il taxi privato che, soprattutto quando mi muovevo con mia figlia, prenotavo telefonicamente da Rose Taxi. Talvolta lo mandavano, talvolta no. Allora mi gettavo contro quelli collettivi.
Oltre che il narghilé in alcuni locali si fumava l’oppio. Gli oppiomani erano censiti ed avevano speciali ricette per acquistare l’oppio nelle farmacie. Ma erano molti di più di quelli riconosciuti ufficialmente. Girava anche tanto “fumo” e una giovane rampolla di una ricca famiglia maltese si fece accompagnare più volte da me ad acquistarlo in scalcinati bar al sud della città. Finché “sgamai” che non stava affatto cercando di rintracciare un giovane locale per il quale aveva una cotta e smisi di farle da autista.
Dei canali sotterranei, i ghanats, risalenti all’incirca al 500 A. C., irrigavano artificialmente le aree agricole e le città, discendendo dalle grandi catene montuose che circondano gli altipiani. I ghanats di Teheràn, che scendevano dagli Elburts, erano collegati ai djub, canali che scorrevano a lato delle strade portando l’acqua corrente dove non esisteva. I djub che scendevano dalla parte alta della città, divenivano via via che si scendeva verso quella più bassa e più povera, delle vere fogne a cielo aperto, perché, oltre che prelevare acqua, la gente li usava per gettarvi i rifiuti. La mancanza di una rete di approvvigionamento idrico per la popolazione non privilegiata, aveva trasformato un geniale sistema di ingegneria idraulica che risaliva agli Achemenidi, in una fonte di possibile contagio di tutte le malattie infettive.
Dei tre tipi di vini del Caspio ricordo solo lo Chateau Sardast, ma in un momento di felicità sinaptica potrebbe venirmi in mente il nome degli altri due.
L’acqua minerale si chiamava Amolo, ne conservo una bellissima bottiglia. Vuota naturalmente.
Guidavo, da sola ovviamente, la mia Chevrolet rossa, da Shemiran, sia verso Darband che verso Vanak e più giù, ben oltre il bazar e la stazione ferroviaria, fino a Rey, che un tempo era stata la capitale della dinastia Seleucide, prima che i Mongoli la distruggessero ed ora era un miserabile villaggetto, dove avevano sede i laboratori di ricerca della Nioc, circondati da una miseria spaventosa e una spaventosa sporcizia. Il sangue degli agnelli macellati scorreva sulle stradine e lungo il djub le donne lavavano i tappeti, affidati dalle famiglie ricche.
Ogni tanto mi veniva prestato l’autista, un iraniano spregiudicato che trafficava Mercedes dalla Germania a Teheràn dove se le rivendeva. Le prime volte tentò di portarmi a fare acquisti nelle boutique di suoi amici per riscuotere la sua piccola percentuale. Fingeva di non capire le mie indicazioni e mi portava dove diceva lui. Dalla volta in cui gli ricordai che non ero americana e lo pregai di parlarmi solo in farsi, senza preoccuparsi delle difficoltà di comprensione, ci capimmo molto meglio e non ci riprovò più.
Non so se ho visto “tutta” la Teheràn che hai visto tu, come non so se tu hai visto “tutta” la Teheràn che ho visto io.
Con le città accade come con gli esseri umani: ognuno di noi ne conosce degli aspetti e nessuno di noi può dire di conoscerli tutti.
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Piccolissima annotazione al volo...
RispondiEliminaQuello che io ho definito "tre tipi di vino" era lo Chateau Sardast - sempre quello - smerciato nel colore bianco, rosso e rosè... Non ho ricordi dell'acqua. Ricordo bene i secchielli di Yougurt, quelli dove se infilavo un cucchiaio...restava in piedi...
Ciao...a dopo
CHISSA' se un giorno ci incontreremo ?
Molto bello questo confronto, contnuerò a legerti. Un abbraccio Giulia
RispondiEliminaah, no, qui si finisce in rissa! Solo il rosée e il rosso erano Chateau Sardast. Il bianco aveva un altro nome e un'altra etichetta, oltre che un'altra bottiglia. Il sapore era però singolamente simile!
RispondiElimina;-))
ciaomarina
Ieri sera, a letto, prima di addormentarmi, mi sono soffermata a ricordare quei giorni...
RispondiEliminaOra li vedo con una prospettiva diversa e sono ancora più contenta di aver fatto quell'esperienza.
Per questo "stimolo" i miei nipoti a fare esperienze, simili o differenti...
A fare, viaggiare, scoprire, curiosare, investigare.
Ho imparato una cosa mooolto importante: a non aver paura di sbagliare e a rifare al meglio ciò che eventualmente sbaglio.
Peccato che allora i miei genitori mi avessero insegnato tutt'altro, peccato...
Mi sono tuffato con passione in questo e in alcuni altri tuoi post,e ho molto apprezzato la tua eccellente capacità narrativa.
RispondiEliminaFammi sapere quando tutta questa tua arte narrativa si trasformerà in un libro.
caro Danilo, confessa chi sei. Un mio parente? un amico? forse mia figlia stessa? Insomma, devo pensare che per ragioni affettive, qualcuno mi sta incoraggiando o POSSO TRANQUILLAMENTE MONTARMI LA TESTA?
RispondiElimina;-)
grazie in ogni caso
ciaomarina
Chiunque sia Danilo sono d'accordo con lui e tu lo sai.
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