Quando mio padre sapeva che su un suo volo, un medio o lungo raggio, viaggiava un cane, al primo scalo lo faceva sbarcare, lo dissetava e lo passeggiava personalmente sulla pista.
Non avrebbe potuto, ma oltre ad un grande amore per i cani, aveva un carattere difficilmente domabile. O per essere più sincera indomabile, tout court.
Al disagio del volo aggiungete che il cane andava consegnato alla compagnia aerea con un anticipo di otto ore su quella della partenza, e se ne restava lì, chiuso nella sua gabbia metallica, a latrare e a tremare.
“Ma, -come disse mio marito, -anche Buck farà la sua parte”. Il mattino della partenza, verso le sei, gli uomini Bolliger passarono a prenderlo. Scese le scale già in stato di allarme. Dalla finestra lo vidi salire sul camion dove lo aspettava la sua gabbia speciale.
In quel preciso momento cominciò la mia passione.E la sua.
Non ricordo con precisione l’orario di partenza del volo Roma-Teheràn, grosso modo si partiva nelle primissime ore del pomeriggio, e si arrivava dopo quattro ore. Lì era già buio, erano circa le nove di sera.
Non c’è stato un secondo durante quel volo in cui io mi sia potuta liberare dall’opprimente consapevolezza che sotto di me, nella pancia dell’aereo, il mio Buck, chiuso nella sua gabbia, penava. La mia mente era allagata da quel solo pensiero.
Mia figlia ed io sbarcammo, passammo il controllo dei passaporti, ritirammo i bagagli. Ad ogni tappa facevo presente che sul volo si trovava il mio cane e chiedevo quando e come mi sarebbe stato consegnato. Sorpresa. Un po’ di ilarità. Molta vaghezza. Nessuna comprensione. Seppi dopo che un cane era considerato negess, impuro. Che me ne fossi portato uno dall’Italia e che fossi così ansiosa di rivederlo, era motivo di sconcerto. Uscimmo infine dall’area off limits e trovammo ad attenderci mio marito. Mia figlia era eccitatissima, io già agitata. Ma mi dissi che mi trovavo a Teheràn e che dovevo avere pazienza, che i loro tempi erano sicuramente molto più lunghi dei nostri e che prima o poi dalla porta dei bagagli la gabbia di Buck sarebbe comparsa.
Aspettammo, aspettammo e ancora aspettammo. L’ansia mi faceva friggere. Passò un’ora e ne passò un’altra, tra domande e lunghi silenzi, concitazione da parte mia e perplessità da parte loro. Chiesi a tutti quelli che passavano e poi decisi di tornare dentro la sala dei bagagli per vedere se lo avessero scaricato assieme alle valigie. Due poliziotti mi fermarono. Insistetti. Furono irremovibili. Il loro inglese era precario, il mio, all’epoca non molto migliore del loro, diventava sempre più raffazzonato man mano che l’ansia si impadroniva di me. Aspettammo ancora. Mia figlia ciondolava dal sonno. L’aeroporto si stava svuotando. Tornai alla carica con i poliziotti. Di nuovo mi fermarono, ma questa volta attesi che si allontanassero nei loro giri a vuoto e di slancio scavalcai la sbarra che divideva la sala di attesa dalla zona degli arrivi interdetta al pubblico in attesa. Mentre tentavano di intercettarmi ripercorsi a ritroso, correndo, il cammino fatto nell’uscire ormai più di due ore prima e risalii fino alla consegna bagagli. Buck non era neanche là e nessuno sembrava saperne niente. Si era mai imbarcato? Era vivo? lo avrei mai rivisto? Raggiuntami i poliziotti abbandonarono l’inglese e i modi tolleranti. Anche io abbandonai l’inglese, straccio ormai inutile e nel più surreale dei modi iniziammo un dialogo veemente, tutto fondato sui gesti e sulla mimica facciale. Gli Iraniani e gli Italiani potrebbero tranquillamente competere per il primo premio in un campionato mondiale di espressività gestuale. Lo imparai quella notte e il tempo me lo confermò. I due poliziotti ed io ne demmo una prova insuperabile. Mentre discutevamo in quel nostro modo primitivo ma efficace, mi passò a tiro uno dei facchini che scaricavano i bagagli e lo agguantai al volo. Tornai all’inglese ripetendo ormai solo una parola martellante “dog, dog, dog”. Il facchino la capì ma era forse l’unica che conosceva perché nel suo bell’idioma mi fece un lungo discorso al termine del quale mi prese per un braccio e mi trascinò con sé. Lo avrei seguito all’inferno. Passammo nel deposito bagagli e da lì uscimmo nella notte, sulla pista. E adesso? L’uomo continuava a parlarmi e mi faceva segno di seguirlo. Si diresse verso un piccolo veicolo elettrico di quelli che portano i bagagli sotto gli aerei e mi fece cenno di salire accanto a lui. Non fiatai e salii.
Partimmo nella notte, lui improvvisamente ilare, io al limite del parossismo. Intanto pensavo all’ansia di mio marito che mi aveva vista sparire inseguita da due poliziotti.
Attraversammo la pista, passando tra due aerei, un Pan Am che ancora vedo svettare su di me, già con i motori accesi e un Iran Air. L’uomo rideva. Cominciai a pensare che fosse un folle. Lui manifestamente pensava la stessa cosa di me. Scuoteva la testa e rideva. Dall’ira io ero passata alla disperazione. Raggiungemmo una zona buia, un immenso deposito di container, centinaia di container allineati nel buio in file lunghissime. L’unica luce i fari del veicolo. Sembrava un film di spionaggio e secondo il copione uno dei due avrebbe dovuto tagliare la gola all’altro. Capii che per errore il mio cane era stato infilato in un container, che nessuno sapeva più in quale e che me lo sarei dovuto far dire da Buck stesso. Iniziammo così a percorrere su e giù, una fila via l’altra, i corridoi tra i container, mentre io gridavo nella notte Buck! Buck! e fischiavo nella familiare modulazione. Avanzare lungo una fila, lui ridendo e io gridando, girare a destra e tornare indietro lungo la fila successiva, io gridando e lui ridendo, girare a sinistra e via di nuovo lungo la fila seguente..
Quanto gridai? Quanto girammo? Infine lo sentii rispondere, rauco, quasi indistinto, rantolante di disperazione, terrore e sfinimento. Ormai piangevo e ridevo mentre quell’uomo, piccolo, sudato e maleodorante, assumeva per me le sembianze di un angelo, sovrana, squisita creatura che mi aveva portato da Buck! Ormai frenetica mi buttai giù, inciampai e caddi, ferendomi entrambe le ginocchia, mi rialzai mentre l’uomo si era ammutolito e mi avventai sul container che conteneva Buck nella sua gabbia. Lo vedevo a malapena, ma infilai una mano tra le sbarre e Buck me la prese tra i denti, stringendo forte, guaendo per trattenersi, facendomi un po’ male, rimproverandomi a suo modo per tutto quello che gli avevo fatto passare. L’uomo mi aiutò a scaricare la gabbia e finalmente l’aprii e Buck ne balzò fuori, come pazzo, e mi si buttò addosso, guendo e latrando insieme, mentre tentavo di tenermi in piedi e rinculavo, curva, sotto la sua spinta e lui, un po’ furioso, un po’ pazzo di felicità, un po’ sollevato e un po’ ancora offeso mi teneva il braccio tra i denti, stringendolo e bagnandolo, senza nessuna intenzione di lasciarlo andare. L’uomo assisteva in silenzio e un po’ discosto a quella scena che si protrasse per una decina di minuti almeno. Infine riuscii a sottrarmi all’abbraccio di Buck, a mettergli il guinzaglio che stringevo nelle mani da ormai tre ore, e risalimmo sul veicolo in tre, io sommersa da un cane di una ventina di chili almeno, che traboccava dal mio corpo e che dovevo continuamente ritirare su e che perdeva a tratti un po' di pipì, trattenuta ormai da una intera giornata. Per lo spavento e non certo per il rispetto delle norme igieniche della IATA. Rifacemmo all’indietro tutto il cammino, lunga zona buia, pista, deposito babagli, zona di consegna dei medesimi e prima di lasciarmi trascinare fuori dall’infallibile istinto canino per la libertà, feci appena in tempo a ringraziare il mio santo protettore iraniano. Il mio grazie italianissimo lo comprese certamente. Tutta la mia faccia lo ringraziava. E finalmente, per la seconda volta arrivai a Teheràn, trascinata da Buck, sporca, sudata, stanca, un po' "spisciazzata" ed emotivamente provata, ma felice.
La prima battaglia di Persia era stata vinta.
Buck a Teheràn
dopo l'happy end ho ancora il cuore che mi batte forte... amo particolarmete i cani e forse posso immaginare cosa tu abbia provato in quelle ore!
RispondiElimina@er88s: mi credi se ti dico che nel raccontarlo ancora mi sentivo male? e sono passati trent'anni!
RispondiEliminaè stato orribile. povero cagnone mio..
ciaomarina
Cosa non si fa per un cane... Io sarei diventata matta e come te avrei affrontato qualsiasi situazione pur di ritrovarlo. Io ultimamente chehosempre avuto cani non ne prendo perchè d'estate viaggio in aereo, non c'è nessuno che me lo può tenere ed io neanche posso pensare di lasciarlo in pensione. Holasciato la mia utlima cagnetta per due giorni in una bellissima pensione, l'ho ritrovata di una tristezza terribile. Ciao e grazie per le belle cose che lasci come commento, Giulia
RispondiEliminaMarina, questa storia mi ha scioccata! ... senza parole...
RispondiEliminaMariateresa
Pensa Marina
RispondiEliminaio ieri nel leggere questo Post ho lasciato da parte il cane (non volermene) ma mi sono "attaccata" ad una "cosa" che per me, nella mia vita, ha sempre avuto un valore inestimabile: essere Pilota di aeromobili...
Quanto mi sarebbe piaciuto !
Dal momento che io ho circa 10 anni meno di te...mi sono chiesta se non avessi mai conosciuto tuo padre...
Quando ero hostess all'allora Alisarda (ora Meridiana) ospitavamo così tanti Piloti di altre Linee a bordo, sovente nel Cockpit, e io trascorrevo il tempo della Roma-Olbia a chiaccherare con loro...
Sei stata grande, sono fiera di te!
RispondiEliminasono ancora commossa dal racconto bellissimo.
la foto di Buck è bellissima.
RispondiElimina@Giulia: anche io purtroppo non ho più un cane con me. Dopo la morte di Orso(ho perso lui e la mia gatta Penelope a 15 giorni di distanza dopo sedici anni che vivevamo insieme!), sono riuscita a riprendere due gattine, ma un cane non ce l'ho fatta. Adesso sono passati otto anni e forse potrei psicologicamente, ma sono troppo stanca e un cane richiede delle cure che non riuscirei più a dare nella misura appropriata. Ci devo rinunciare. Però "sbafo" tutti i cani che incontro. Mi prendono per una molestatrice di cani!
RispondiElimina@paola: ti mando una mail appena posso, sto studiando Bach e mi fa impazzire!
RispondiEliminaciaoamrina
Una vera e propria battaglia! Povero Buck!
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