domenica 2 settembre 2007

professò/provincia romana

I miei anni nella scuola non sono fatti soltanto di aule fredde, di un verdino stinto o decisamente grige, di edifici sgraziati o addirittura fatiscenti.Era fatiscente quello di Priverno, dove adesso ha sede il Municipio e che era un vecchio, bellissimo palazzo signorile di origine gotica. Puntellato alla meno peggio, una miriade di stanze chiuse perché ci pioveva, conservava una grazia aerea, una semplicità purissima.
Ma lo odiavamo. Raggiungerlo era un’odissea. Il primo treno del mattino per Formia. Scendere a Fossanova, ignorare l’Abbazia plurisecolare, salire in quattro su una millecento in assetto molto precario, guidata da un contadino del posto, improvvisatosi autista.
Percorrere i pochi chilometri di distanza ed essere scaricati alla porta del paese. Bellissima porta, per altro.
Iniziare l’attraversamente del paese, tutto in salita, verso il suo punto più alto, dove, immancabilmente, sulla porta dello splendido palazzo cadente ci attendeva il Preside. Preside con la maiuscola e molto agitato, perché un ritardo qualsiasi lo avrebbe lasciato con quattro classi scoperte. Questo percorso era fatto in uno stato di ansia ed affanno, perché i tempi erano strettissimi. Il primo treno da Roma, con cui arrivavamo in quattro, giungeva a Fossanova alle 8 e 20 e avevamo solo dieci minuti per sederci sulla nostra cattedra. Arrivavamo ansanti, sentendoci in colpa per la mancanza di una stazione ferroviaria a Priverno, come pure per l’orario delle FFSS, per essere residenti romani, per non avere le ali, e infine per esistere. Queste nostre colpe erano scritte ben chiare sulla faccia corrucciata del Preside, e nel modo sgarbato con cui sbatteva il portone alle nostre spalle.
Ma la vita ci elargisce a volte piccoli risarcimenti. La finestra della mia aula si affacciava sulla valle dell’Amaseno. Era un tuffo nel vuoto, tra il cielo e la discesa verde verso il mare di Sabaudia. Il mare non si vedeva, ma lo sapevo dritto davanti a me e tanto bastava.
Ero fuori dal mio territorio a quel tempo, perché Priverno è in Provincia di Latina, ma rientrai presto nella mia provincia. Percorrerla ha significato imparare un mucchio di cose del territorio intorno a casa mia che altrimenti avrei per sempre ignorato. Nomi di piante, alberi e fiori. Tra il bivio per Genazzano e quello per Olevano, prima dell’inizio della salita, c’è un lungo tratto piano e dritto. Io accostavo la mia macchinetta, lasciavo scendere Buck, che si gettava frenetico nei prati della sua terra, e me ne stavo una decina di minuti lì a nulla fare. Partivo prima da Roma appositamente, per quei dieci minuti per Buck e me. Che facevo? Qualche volta fumavo una sigaretta (allora fumavo), qualche volta scrivevo qualche riga, qualche volta guardavo e basta. Respiravo. C’era una brillantezza nei prati intorno a me, una pacifica, modesta bellezza, e sui due lati, lontani, i colli. Quando da lontano vedevo spuntare la sagoma della corriera Zeppieri, richiamavo in fretta Buck e ripartivo. Guai a trovarsi dietro la corriera sulla salita verso Olevano. Significava ritardo certo perché superarla era (quasi!) impossibile. Qualche volta, al ritorno, quei chilometri li facevo a piccole tappe. Esploravo i tesori botanici del luogo. A primavera ai margini della strada era un fiorire dei più impensati, magnifici fiori di campo che io avessi e che io abbia mai visto. Li coglievo a mazzi, inoltrandomi sempre un po’ di più nella campagna disordinata.
La corriera scendendo, protestava con furibondi colpi di clacson, perché la strada era stretta e la mia macchina, percheggiata sul ciglio, infastidiva. Vai, vai, dicevo fra me. Imperterrita.
Campioni di fiori e foglie dei miei bellissimi mazzi, poi li sottoponevo ai miei ragazzi, che me ne indicavano i nomi e le caratteristiche. -Ma che cogli l’insalata, professò?- Ridevano. I miei mazzi di fiori erano tutti commestibili!- Ma possibile che mangiate tutto!- Mi seccava che si mangiassero tutta quella bellezza, ma effettivamente sì, tutte quelle erbe, fiori compresi, le madri le facevano in insalata, o li gettavano nelle frittate o nelle minestre.
Avevamo un approccio diverso a quei piccoli tesori della natura. Qualche volta adottai il loro. Feci qualche insalata di quei fiori di campo. Il sapore era buono, sì, ma i colori e i profumi, quando li sistemavo sulla mia scrivania, mi incantavano di più.
Verso Palestrina invece, (la patria di Pierluigi, avete presente?), poco prima dell’ingresso in paese, a novembre ci si trovava di fronte ad una incredibile distesa di alberi di cachi. Le sfere arancio appese contro il cielo azzurro e freddo, erano un’apparizione aggraziata, quasi magica. Poco dopo i caki venivano raccolti e restavano i rami nudi, trama netta ed elaborata insieme. Altrettanto magica. Poco più avanti, prima di inoltrarsi nel folto dei castagni che precedevano Cave, sulla sinistra della carreggiata, a primavera avanzata, un susseguirsi di gigli di S. Antonio profumava l’aria in modo quasi insostenibile. Quel lungo tratto ombroso era scelto dalle donne di Palestrina come piantagione comune dei gigli che avrebbero offerto al santo nel giorno della sua festa. Quell’ombra impediva che si ingiallissse il bianco assoluto dei fiori.
Invece sulla via dei Laghi i pini imponenti svettavano e il lago di Marino nella sua conca di verde folto, si incupiva di tutto quel verde. Lago di Marino, così si chiama, anche se tutti lo dicono di Castelgandolfo. I ragazzi di Marino, lo misero in chiaro da subito. Quello era il loro lago e Castelgandolfo se ne era impadronita solo perché era la residenza estiva del Papa. Di conseguenza il Papa a Marino non lo potevano vedere. Usurpatore. E un po’ lo era, lo è. La sua reggia sorge sulle rovine del palazzo di Domiziano. Da un monarca ad un altro. A primavera qualche volta, in occasione dei consigli di classe, scendevo a mangiare sulla riva del lago. Le canne, la terra soffice, il filare dei viburni, alti, quasi degli alberi e i cespugli di mirto. E l’acqua tranquilla. Mangiavo il mio panino, me ne stavo al sole. Scrivevo, qualche volta. Pensavo che ci sarebbe voluta della musica. Una musica da portare in tasca. Fantasticavo i walkman, di là da venire, o già nella testa di qualcuno. Poi risalivo la strada tutta curve verso Marino, dove le ginestre si alternavano agli olivi. Ma subito dopo, castagni e querce. Si entrava nell’ombra e si riusciva tra le case con le edere arrampicate fin sul tetto intrecciate alle campanule.
Anche i vigneti erano meravigliosi, con la loro esattezza, l’ordine, la pulizia in cui erano tenuti. I vigneti, orgoglio dei castelli romani. Per il resto, così poco orgogliosi. Considerati dai romani poco più di un unico ristorante casereccio all’aperto, nascondono tesori di architettura civile e religiosa, palazzi, chiese, dipinti di maestri, fontane, porte romane, palazzi rinascimentali, monasteri. Se i castelli romani appartenessero ai Francesi, l’intero mondo ne conoscerebbe le bellezze, sarebbero sulla bocca di tutti. Invece a Roma, con disprezzo si dice: ”quello viene dai Castelli”, intendendo che è rozzo, incolto, che parla “burino”. Tutto vero, ma la grande città, troppo bella per qualunque località, per sostenerne il confronto, ha ingiustamente offuscato la bellezza e l’importanza storica, artistica e paesaggistica di quei paesi. Mi piacerebbe restituire qualche cosa a quei paesi, di tutto quello che mi hanno dato.
E poi l’entrata a Roma dalla Casilina. Sì, l’orribile Casilina, che però negli ultimi chilometri verso la Borghesiana, tutta una discesa leggera, era costeggiata da una serie ininterrotta di acacie. Imponenti, quando fiorivano lo facevano con una esuberanza tropicale. Mandavano un profumo pazzo. La mia amica Nuccia ed io nell’ultimo tratto, spegnevamo il motore, aprivamo i finestrini e scivolavamo dentro quel profumo, zitte e contente, il sibilo dell’aria nelle orecchie, finché la macchina, la mia o la sua, si arrestava. Ci scuotevamo, rimettevamo in moto e riprendevano la nostra strada. Rientravamo verso le due e mezza del pomeriggio. La strada era poco frequentata a quell’ora e i nostri esercizi al volante non incontravano impedimenti.
Eravamo giovani e ci piaceva sognare. Lo facevamo a partire da cose minuscole, da cose banali con cui le nostre giornate, sempre faticose, si arricchivano. Cantavamo, portavamo scatolette di carne ai cani che incrociavamo. Nuccia non girava mai senza le scatolette di Simmenthal, in previsione di incontri canini.
Gli incontri canini potevano essere anche pericolosi. Una volta scelsi di tornare da Olevano passando per il bosco della Serpentara, un querceto secolare, che Corot chiamava la “foresta incantata” e che dipinse più e più volte, come Doré che vi si ispirò per le incisioni dell’inferno di Dante. Il bosco è immenso, pieno di una vita silenziosa e intricatissimo. Alla sua uscita la strada volge verso Tivoli e fiancheggia dei pascoli. Mi fermai a guardarmi intorno, appoggiata alla mia macchina. Lontano un gregge si spostava lento. E poi, d’un tratto, dal gregge partirono velocissimi verso di me tre cani da pastore. Bianchi, enormi, decisi. Aggressivi. Non ebbi il tempo di fare niente, me li trovai praticamente addosso, i denti scoperti, il pelo ritto, latranti. Io amo sommamente i cani, ma quelli erano davvero spaventosi e incazzati neri. Non so quale istinto mi guidò. Quasi mi sentivo male dalla paura, ma, senza neanche pensare, mi accosciai alla loro altezza, in un testa a testa e gli parlai, con il più tranquillo dei toni. O almeno il più tranquillo che riuscii a trovare. Bastò. Miracolosamente bastò. Dichiararono chiuse le ostilità, capirono che non volevo fottermi le loro pecore, mi slinguazzarono un po’ e se ne andarono , tornando al loro lavoro, maestosi, al piccolo trotto.
Le infinite, piccole avventure, tutti gli incontri speciali che ho avuto sulle strade della Provincia romana, potrebbero da soli, se sapessi davvero restituirli, riempire un libro.
In ogni caso per anni, hanno riempito la mia vita, alimentato le mie fantasie, tenuto vivo e aperto un canale tra la natura e me, che la vita in una grande città sempre rischia di uccidere. Sono tornata in quei paesi. In tutti, dopo molti anni. Per piccole contingenze: consegnare qualche scatolone di libri alle bibliotechine delle mie ex scuole, raccogliere documenti per la ricostruzione della mia carriera. Cose così, ma soprattutto portata dal desiderio di rivederli.
Molto si è perso, ma molto si è conservato. In me, in ogni caso, tutto si è conservato.

6 commenti:

  1. Che bello leggerti! Riesci a toccare le mie corde più intime: i fiori ed i cani mi commuovono e sono parte della mia anima. Quando sono giù, e mi capita sovente, mi basta guardare i fiori o accarezzare e nutrire un cane e la vita torna a guardarmi benevola....

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  2. Grazie, ma MO (romana di roma) basta con i complimenti!
    Tu ce l'hai un cane? Io ho due gatte, e penso che non prenderò più un cane, anche se mi manca.
    A parte che le mie gatte sono entrambe nevrotiche, trovatelle terrorizzate dalla loro stessa coda. E poi sia mio marito che io siamo un po' troppo stanchi per assumerci questa responsabilità. Ma siamo tentati, ah se siamo tentati...

    ciaomarina

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  3. Io ho un cane in comproprietà, Filippo.Non posso avere animali perchè sto sempre in giro, ma nutrisco molti randagi. Amo i randagi, sono simili a me :)

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  4. l'idea della comproprietà canina mi affascina, la devo studiare meglio..

    Il cane Filippo, bellissimo nome per un cane.

    ciao, randagia, se ti incontro una ciotola d'acqua e una simmenthal è garantita ;-))

    ciaomarina

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  5. Resto sempre incantato dai tuoi racconti.

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  6. grazie Finazio ti ringrazio!

    ciaomarina

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