Un ricordo ne porta un altro.
Non comportarti come chi debba vivere molte migliaia di anni. L’inevitabile ti è sopra: finché vivi, e ti è possibile, sii buono.
Marco Aurelio “I miei ricordi”.
Quello che mi piace di questa frase è quell’inciso: se ti è possibile.
Questo libro mi è stato regalato da mio cugino. Venne a trovarmi in clinica, dove avevo subito un intervento chirurgico e me lo portò. Quasi trenta anni fa. Ero già inadempiente verso quel libro, in ritardo. Lo lessi in quei giorni di degenza e da allora l’ho letto e riletto e riletto, ed ogni volta mi sento un po’ degente, un po’ convalescente, un po' in cura.
Ricordo che leggevo un po’ e poi mi stancavo e restavo con il libro posato sul petto a ripensare qualche frase, a rifletterci su.
Mettevo in relazione quel libro e quella mia esperienza, quel libro e le emozioni di quei giorni.
Sensazioni ed emozioni già provate perché di interventi chirurgici, di natura e importanza diversa, ne ho vissuti diversi. Sette, per la precisione. E sette anestesie totali.
E’ un’esperienza molto particolare, almeno per me lo è stata. E si ripete sempre uguale.
Tu sei lì, sulla lettiga che ti ha portato via dalla tua stanza. Ti senti molto insonnolita, perché nella tua camera già ti è stata fatta una iniezione, per tranquillizzarti, per predisporti al sonno successivo. Hai un grande sonno, ma non ti addormenti perché hai anche paura e ti mantieni sveglia e guardinga e attenta a quello che ti succede, a quello che ti accadrà. E poi entra un uomo, e si presenta. Sono il suo anestesista, ti dice. Sembra impossibile, ma ti dicono tutti così: sono tutti il tuo anestesista.
Questo serve, credo, a creare un legame affettivo, rassicurante. Ti chiede come ti chiami e tu dici marina, solo il tuo nome, perché non senti di essere altro che marina ed è già tanto che tu senta di avere ancora un nome. E lui è molto gentile con te, la sua voce è tranquilla e tranquillizzante; ti dice: adesso marina le farò una iniezione e lei si addormenterà; si sente bene? è tranquilla? e tu lo rassicuri. Sì, gli dici, mi sento bene e provi quasi dell’affetto per lui perché è così gentile con te e ha un tono quasi tenero. E tu pensi che questo uomo gentile è forse l’ultimo essere umano che vedrai nella tua vita e la sua gentilezza è l’ultimo regalo, l’ultima cosa buona che la vita ti regala. E gli sei grata ed in fondo è un modo di essere grata anche alla vita. E fra di voi c’è una grande intimità o almeno a te sembra così.
Certo, se qualcuno ti chiedesse lì sul posto: pensi davvero che questo uomo ha un’attenzione speciale per te? che è interessato a te, a come ti senti, alla tua paura? tu risponderesti di no. No, diresti, sta solo facendo il suo lavoro, quello che fa ogni giorno. Ma non ha alcuna importanza, perché tu preferisci credere che la sua gentilezza sia proprio per te e sei disposta a credere che il suo tono sia anche affettuoso. Siete lì in quella stanzetta piccola e senza finestre-le sale opertaorie sono sempre nel sotterraneo della clinica, lo sono state tutte le volte e tu avresti preferito una stanza un po’ più larga e magari che entrasse un po’ di sole, ma va bene anche così, così forse è più intimo, più raccolto. Siete lui e tu e delle voci lontane, sbiadite. E lui ti dice che sarà lì accanto a te e ti seguirà nel tuo viaggio e ti chiede di contare mentre prepara il tuo braccio. E allora succede. Tu pensi che forse non ti sveglierai e che questo potrebbe essere l’ultimo istante cosciente della tua vita, che forse morirai e non lo rivedrai più e con lui non rivedrai più nessun altro e niente altro. E lo accetti. Senti una specie di abbandono, di cedimento, come se la resistenza che avevi opposto al sonno del valium fosse stata in realtà una resistenza che avevi opposto alla morte ed ora che forse è proprio vicina, proprio lì accanto a te, sopra di te, cessi di resisterle. È proprio così che ti senti. Arresa. Accetti il fatto che non ci sarai più, accetti di perdere te assieme alla coscienza, perché prepararsi a perdere la coscienza è ogni volta come accettare di morire. Accetti di non esserci e di essere presa da qualche cosa che non ti lascerà più. E anche la paura ti abbandona e subentra una tranquillità tutta particolare, tutta diversa da ogni altro tipo di tranquillità e ti dici: va bene, è così. E senti anche un senso di gratitudine perchè sei stata viva ed è proprio così che pensi di te: sono stata viva. Lo pensi al passato e accetti che tu stia andandotene e saluti qualche cosa senza nome, non i tuoi affetti, niente e nessuno di particolare, ma qualche cosa di più intimo, di più interno, di più aderente.
Saluti il tuo stesso essere e ti prepari a non essere più. Sei pronta a non essere più e lo fai seguendo bene le istruzioni. Senti l’ago e il tuo anestesista ti chiede di contare e tu conti.
Anche i risvegli sono tutti uguali: vieni dal nulla e devi riabituarti ad esserci. Tutti ti sorridono, facce spaventate ma incoraggianti e tu sorridi e tutto finisce lì.
Ma il risveglio, malgrado tutto, non è un evento significativo.
L’esperienza vera è quella di accettare di morire e tu non puoi che pensare, ogni volta, che vorresti che la tua morte fosse proprio così.
Quel libro, quello che lessi in clinica quella volta, non parla proprio di questo, ma in un certo senso parla anche di questo, parla del fatto che la vita umana è mistero e che quello che possiamo fare è solo accettare il mistero e regolare il nostro vivere nel modo più degno possibile. Rallegrarci di essere stati e accettare di dover non essere più.
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"Quello che mi piace di questa frase è quell’inciso: se ti è possibile."
RispondiEliminaGià, mia nonna (che, comunque, non era buona) ci diceva sempre: "Bambine, state buone se potete... e se non potete, fate quel che volete!"
P.S.: quell'orologio sul blog di Saretta! Lo voglio! Marina, metti subito nel tuo blog quel meraviglioso oggetto (e, andando sul sito di clocklink, guardati pure il world clock).
Mariateresa
Non ho mai provato un anestesia generale,solo locali e fanno un male assurdo guando il liquido comincia ad entrare,è sempre una mia angoscia quella di essere addormentato artificialmente il pensiero è quello non svegliardi più.
RispondiEliminaUn caro saluto
Roberto
Non sono mai stata sottoposta aa anestesia totale e devo confessare che ne ho molto timore come per tutte le cose che non posso controllare...
RispondiEliminaLa frase finale è decisamente bella e condivisibile
prometto di essere più buono.
RispondiEliminaall'imperatore si deve obbedienza.
se mi sarà possibile.
anestesie totali ne ho fatte 3. tutte prima dei 10 anni. quindi entro il 1958.
quella delle tonsille (1951) la ricordo ancora oggi.
ciao
Io ho fatto tre anestesie totali, ma un non la dimenticherò più. C'era un anestesista che quando è entrato non mi ha degnato di uno sguardo, ha cominciato a parlare dei pesci del suo acquario e mi ha infilato l'ago. Io credevo che stesse ancora preparando ed invece mi sono improvvisamente andare. Ricordo di aver pensato, sto morendo. Una sensazione orribile... Grazie al cielo gli altri due sono stati doclissimi. Giulia
RispondiEliminaanestesizzati di tutto il mondo uniamoci e facciamoci intervistare da....vespa :-)))) in una puntata sul ritorno dall'al di là; l'altra sera parlava dei miracoli di padre pio, una puntata da denuncia penale per circonvenzione di spettatori
RispondiEliminamarina
Mai provata un'anestesia totale. Mi hai messo un'inquietudine addosso, Marina!!!
RispondiEliminaMeno male la frase finale del post mi ha un po' rassicurata.
Per Artemisia: tranquilla, si può viverla anche in modo diverso un'anestesia totale.
RispondiEliminaIo non ho pensato che non mi sarei svegliata più. Mi hanno detto di pensare ad una cosa bella, pensai alla mia gatta mimmi, la più dolce, la mia "figlia" pelosa.
Semmai la paura era COME mi sarei ritrovata dopo l'intervento (vomito? nausea? qualche ferro dimenticato dentro di me da un chirurgo sbadato?).
Ma tutto questo era molto prima di ER: oggi ho il terrore di essere intubata, brrrrr....