Sono lì dal mio macellaio, laziale irredimibile, che scambio qualche vivace punto di vista sulla prossima partita Lazio-Inter. Devo premettere, per chi non segue le sorti del campionato di calcio, che la prossima partita dell’Inter è importantissima per la Roma. Si tratta di rosicchiare qualche punto all’Inter prima in classifica, sperando che la Lazio la batta. In questo caso la Roma, vincendo, si spera, a Cagliari, la tallonerebbe a un solo punto di distanza. In via eccezionale noi romanisti tifiamo Lazio, mentre i laziali, loro, sarebbero felici di perdere per non vederci avvicinare allo scudetto.
Mentre siamo lì che scherziamo arriva il fornitore di carne bovina. È un po’ chino sotto un quarto di bue e quasi avvolto da un grosso sacco di juta. Mi sposto di lato per farlo passare. Scarica la carne nella cella frigorifera e torna indietro, mentre tira fuori la bolla di consegna. Mi sposto di nuovo per fargli spazio, perché il negozio è stretto e lungo. Ma lui mi guarda in faccia con espressione corrucciata. Indietreggio ancora un po’, ma l’uomo, grossi baffi, sui quaranta, continua a fissarmi. Comincio ad irritarmi: a meno di uscire dal negozio, più spazio di così non posso farne. Poi l’uomo si apre in un sorriso e mi fa, un po’ esitante: “Lei è la professoressa P.” Ho l’incertezza della sorpresa. “Sì”, fa il macellaio, al posto mio. “Professoressa, so’ D.”. Ora, pur avendo considerato tutti ed ognuno dei miei alunni come un singolo individuo, i loro nomi sono fuggiti dalla mia memoria, uno solo escluso, e inoltre questo ipotetico alunno è un uomo fatto e rifinito, il cui aspetto non può in nessun modo coincidere con qualche pre-adolescente di trenta o più anni fa’. Con cautela, dandogli del lei, inizio a scusarmi. “Mi dispiace, ma il suo nome non mi dice niente al momento...” “So’ Marco, professoressa, Marco D., la terza A, a Marino”. Allora passo al tu. “Dammi un momento, e soprattutto dimmi quando”. “Allora, -e lui passa al professoré- doveva esse’ l’81 o l’82”. “Aripijali” commenta il macellaio, interessato alla vicenda.
Intanto io mi butto indietro nel tempo, cercando di ricostruire in qualche modo quella terza A. Ma non li vedo, mi sento mortificata, ma non riesco a vederli. È lui che me li riporta alla mente, di botto, con una frase: “Si ricorda Vermicino, Professoré?” Altroché se ricordo Vermicino! Tutta Italia, credo, se ne ricorda. E così ricordo anche la Terza A. “Quanto s’è incazzata, Professoré!”
Effettivamente, mi incazzai molto. Il piccolo Alfredo Rampi, che divenne Alfredino per tutti gli italiani, cadde in un pozzo artesiano, e dopo tre giorni, vi morì. Nonostante ogni sforzo, non si riuscì a salvarlo. Quella storia accadeva lì vicino, nella campagna tra Marino e Frascati. I ragazzi la sentivano come una storia di casa loro.
Tutti seguivamo in pena la sua sorte, ma Rai Uno fece qualche cosa di orrendo. Oggi è pratica comune, ma quella fu la prima volta. Una diretta per tre giorni intorno all’agonia di quel bambino di cinque, sei anni. Direttore del telegiornale di Rai Uno era Emilio Fede, talento precoce. C’erano gli esami di Licenza Media, ma in corridoio la televisione era sempre accesa e insegnanti, alunni, bidelli passeggiavano lì davanti, affascinati da quell’orrore in diretta. Non ero certo migliore di loro, né indifferente e peggiore, né più avanti dei tempi, non avevo idea di che cosa fosse o potesse diventare lo spettacolo del dolore, ma ad un certo punto non ce la feci più. Così lasciai il mio posto al tavolo degli orali e piombai in corridoio. “Questa è una scuola o un cinema? Fuori, tutti fuori! E adesso basta! e spensi la televisione. “Ha detto il Commissario che possiamo tenerla accesa”. “Il Commissario, ha capito male e adesso glielo dico io.” “Ma noi vogliamo sapere se lo salvano!” “Volete sapere se lo salvano o volete vederlo morire? Tu, vuoi sapere se lo salvano o vuoi vederlo morire? E tu? e tu? Se lo salvano, lo sapremo immediatamente, state sicuri.”
Brontolavano, puntavano i piedi, il bidello si diresse in presidenza, i colleghi protestavano. “Se tu non lo vuoi guardare, non lo guardare, ma a noi faccelo vedere!” e qualcuno riaccese la televisione. “La televisione te la guardi a casa, qui ci stiamo per fare gli esami non per guardare la tv”. E la spensi di nuovo. Intervenne a darmi man forte la collega di Educazione artistica. “Ha ragione, mica stiamo al cinema. Basta, o state in fondo all’aula ad assistere in silenzio o ve ne andate e tornate quando avete l’orale!” I ragazzi furono sbattuti tutti fuori, i colleghi mugugnarono ma si arresero, il bidello resistette. Il televisore era il suo e andò a protestare dal Commissario Ministeriale. Lo seguii in Presidenza. “Vuole per cortesia darci istruzioni? Dobbiamo svolgere gli esami o guardare la televisione? perché, se dobbiamo guardare la televisione, basta che me lo dica e scrivo ottimo a tutti, senza neanche farli, gli orali!” “Lei ha ragione, professoressa, ma cerchi di capire, siamo tutti coinvolti.. “Va bene, ho capito, vado a scrivere i giudizi”. “Ma no, no, spegnete quel televisore e facciamola finita.”
Rivedo questa scena nella mia mente e mi viene ancora rabbia. “Che str...! penso retrospettivamente tra me e me.
Il mio alunno quarantenne racconta ridendo “È schizzata via come un razzo, si ricorda? E mi ha lasciato seduto davanti alla cattedra un quarto d’ora.” “Oh Dio, eri tu? Quello che stavo interrogando?" “Ma un quarto d’ora, dai non è possibile". “Sì, professoré, la sentivo strillare e non tornava mai” "E poi, com’è andato l’orale?" "Ah, bene. Quando è tornata ha guardato il mio tema, mi ha chiesto di riscrivere un pezzo e mi ha lasciato andare. So’ stato fortunato”. Gli confesso che ricordo l’episodio, ma non la sua faccia. Non se la prende. Anzi insiste per offrirmi un caffè nel bar accanto.
Mi racconta un po’ della sua storia. Ha quarantuno anni, due figli. Lavora in Umbria in un piccolo allevamento di bovini. Fa su e giù col camion per le consegne. Ha fatto due anni di Ragioneria e poi ha lasciato la scuola. Mi chiede qualche notizia dei colleghi di allora, ma non ne ho. “Certo che era tremenda, professoressa!” Protesto. “Tremenda? e perché?” “Strillava a tutti”. “A tutti? Ma va, ma quando mai...”
“Ma mica a noi, agli altri professori!” “Si ricorda quella volta che non ha fatto entrare in classe quella di matematica?”. Non ricordo e chiedo chiarimenti. Sembra che io mi sia rifiutata di uscire di classe durante un tema, non è chiaro il perché. Resto perplessa, ma lui è sicuro del fatto suo. “E j’a detto: Se eri presente nelle tue di ore, non c’avevi bisogno di quelle degli altri!E se voleva chiude dentro a chiave!”. Mi sa che esagera, come facciamo tutti con i nostri ricordi. Comunque: “Oh Dio, allora ero davvero tremenda!”e dentro di me spero di avere almeno usato congiuntivi e condizionali al posto loro.
“E che je sto’ a di’, era tremenda!”
Concordo, mentre scruto i suoi lineamenti in cerca di un particolare almeno che me lo restituisca ragazzino di quattordici anni. Niente da fare. Però un particolare di lui vagamente affiora quando mi saluta. “Tanti auguri Professoré e...Forza Inter!” mi fa con aria di sfottò.
“Forza Inter!?” Ai Castelli romani il tifo calcistico si distribuisce tra la Roma e la Lazio, con una prevalenza bianco azzurra. Avevo spesso amichevoli scambi di vedute calcistiche con i miei alunni laziali e c’era, sì, un provocatore incallito, che sfotteva, con questa stessa aria impunita. Era lui? Era un altro? Non posso saperlo, ma, ad ogni buon conto, gli rispondo pronta: “Forza Lazio, D., Forza Lazio!”.