Quando all’inizio dell’anno al professore veniva consegnato l’orario, in genere ci si precipitava a vedere quante quinte ore ci fossero.
L’ultima ora infatti era un vero tormento, sia per gli alunni che per gli insegnanti.
La maledizione dell’ultima ora non consisteva soltanto nel fatto che spesso si perdeva il pullman e si doveva attendere un’ora il successivo, e non nel fatto che di conseguenza si arrivava a casa tardissimo. La vera maledizione della quinta ora erano i ragazzi. Stanchi, irrequieti, incapaci di concentrarsi, affamati e disinteressati.
In genere alla quinta ora leggevo per loro. Poi introdussi la dama cinese. Non è un gioco di grande difficoltà ma richiede un minimo di strategia, costringe ad immaginare la mossa dell’avversario e questo comporta una riflessione astratta, in assenza del dato sensibile. Presentandosi però come solo un gioco, i ragazzi lo accoglievano con entusiasmo. Organizzavo un piccolo torneo. Avevo solo quattro esemplari del gioco e i giocatori ruotavano. Gli altri stavano attorno e osservavano tifando.
Il primo anno mi aspettavo che prima o poi il preside, venendolo a sapere, mi vietasse questa disciplina così poco protocollare. Invece ne fu entusiasta. Era un grande giocatore di scacchi e suggerì che potessi passare dalla dama cinese alla dama tout court e infine agli scacchi. Glielo lasciai credere, ma agli scacchi non ho mai saputo giocare e oltre la dama non arrivammo mai.
Comunque la lettura restava l’attività di elezione della quinta ora. Sceglievo storie un po’ fantastiche, un po’ paurose, un po’ romantiche, un po’ avventurose.
Leggevo la prima mezz'ora e poi toccava a loro. Dovevano immaginare il seguito della storia, suggerire possibili sviluppi, fini più o meno lieti.
I maschi erano molto sintetici. In genere i personaggi morivano tutti in un battibaleno. Le ragazzine avevano molta più fantasia, qualche volta più dell’autore stesso. Un libro che ha sempre avuto un grande successo è Fontamara di Silone. Non è un libro leggero, né divertente. Ma aveva la potenza della verità e i ragazzini sulla verità non si sbagliano.
La quinta ora era anche adatta per giocare con le parole. Non ho trovato un solo ragazzino che non si divertisse a fare rime, assonanze, giochi di parola. Componevamo anche poesie. Io tracciavo un verso alla lavagna e ognuno aggiungeva una parola, una immagine. Uscivano delle poesie fantastiche. Alcune le ho ancora. Un anno le raccogliemmo in un piccolo libro. Erano così stupefatti e orgogliosi quando dicevo “Bravi, avete fatto un’assonanza”. Un’assonanza? Si sentivano importanti. In prima invece componevamo filastrocche. Partivamo da quelle della loro infanzia e le rifacevamo in chiave umoristica o, se dialettali, le traducevamo. Nella quinta ora non si scriveva. Troppo stanchi. Scrivevo solo io, su dettatura.
La quinta era anche l’ora delle storie di famiglia. Cominciavo io, raccontando qualche storia buffa della mia famiglia. Dopo un po’ era una gara. All’inizio tentai di fargliele trascrivere il giorno dopo, ma questo li privava di tutto il piacere e alla quinta ora il piacere di fare qualcosa era indispensabile.
Un’altra possibilità consisteva nell’osservare i ritratti dei personaggi che studiavamo nella storia. Cercavo nei vari libri e ne avevo sempre una collezione. Dai grandi greci fino ai protagonisti del novecento. E loro tutti intorno alla cattedra a guardare quelle facce. Scoprivano che in fondo erano uomini, belli o brutti, alti o bassi. Ne studiavano l’abbigliamento, le espressioni, le decorazioni, quando c’erano. Scoprivano anche che erano solo maschi. Donne pochissime. Le discussioni in classe fra maschi e femmine erano all’ordine del giorno. Le ragazzine avevano trovato chi le spalleggiava e le difendeva. I ragazzini erano sollevati dal fatto che li invitassi ad avere le loro paure, che non le stigmatizzassi. Ma il grande conflitto non si spegneva mai. Disprezzo dei maschi, ma disprezzo anche dalle femmine.
Alla quinta ora, portavo in classe anche qualche rivista di pettegolezzi, in genere me le dava la bidella, erano il suo passatempo quotidiano. Era uno strumento prezioso per discutere di costumi, di modi di vita. Quasi senza accorgersene. Il quotidiano, invece, non lo si leggeva in quinta ora.
Era un lavoro a parte. E complicato. Ne compravo diversi e me li sfogliavo prima. Sceglievo qualche articolo, argomenti diversi. Li leggevamo, discutevamo e alla fine per votazione decidevamo quale testata aveva raccontato meglio il fatto, con quale si sentivano più d’accordo. Gli articoli “vincitori” si ritagliavano e si incollavano su grandi cartelloni. In pratica facevamo il nostro giornale ideale.
Lavorare sui giornali era considerata cosa “moderna” ma delicata. I vari presidi passavano sempre, nell’ora in cui nel mio orario interno risultava la scritta ”lettura dei quotidiani”. Volevano assicurarsi che non facessi della propaganda, che non costituissi piccole cellule adolescenziali comuniste! Non mi passava neanche per la testa. Non ho mai nascostao una sola delle mie opinioni, ma il concetto di differenza fra opinione e verità glielo spiegavo dai primi giorni di scuola. Infatti una delle prime letture era "Esercizi di stile" di Raymond Queneau. So che può apparira assurdo parlare di stile a ragazzini che a mala pena sapevano leggere. (Anche se, attenzione, nel raccontare oralmente avevano un loro stile). Ma dello stile non mi interessavo, volevo solo che sperimentassero gli infiniti modi di vedere, prima che di narrare, un fatto. L’esperimento lo ripetevamo con piccole scenette o piccoli fatterelli, osservati nella scuola. Li raccontavamo e ri-raccontavamo. Ognuno a suo modo. L’unica regola: mai ripetere il racconto già fatto da un compagno. All’inizio era proprio impossibile per loro. Ne uscivano venticinque racconti tutti uguali. Ma alla fine dell’anno, anche Queneau sarebbe stato contento di loro! Ognuno aggiungeva un piccolo antefatto. O qualche piccola conseguenza. La realtà di un fatto banale, come il collega di matematica che era arrivato in classe con un ritardo di mezz’ora e la collega di educazione musicale che aveva dovuto badare a due classi, era smontato e rimontato e indagato in tutte le sue possibili cause e conseguenze, da venticinque punti di vista diversi. Ognuno osservava un particolare sfuggito agli altri. Avevano mille occhi e mille orecchie. Quando alla fine dicevo: -Beh, adesso scrivete la verità- era un insorgere. -Ma quale, professò?-La lezione l’avevano appresa!
Dalla verità passavamo quindi al fatto. E scoprivano che il fatto deve essere il più nudo possibile. Questo serviva nei temi. Ho sempre pensato che la vecchia regola del “rem tene, verba sequntur “ potesse essere applicata anche a dei ragazzini di scuola media.
Gli chiedevo di scrivere in pochissime righe quello che volevano raccontare. Frasi telegrafiche. Mozziconi di frase. Poi li chiamavo alla cattedra. E lì ci lavoravamo sopra. Attraverso le mie domande cominciavano ad aggiungere un po’ di aggettivi, qualche avverbio, un po’ di particolari. Si sforzavano di cambiare un po’ la forma della frase.
I presidi masticavano male, perché i compiti in classe di italiano li facevamo in due giorni. Nel primo c’era questa raccolta di elementi, nel secondo, con tutti i loro fogli di appunti e frasi sparse, dovevano ricostruire il tutto, montare il tema. Poi imparavano che questo lavoro dovevano farlo da soli, dividendo a metà le ore a disposizione per il compito. Le prime volte gliene davo quattro. Poi scendevamo a tre. Non diventavano Quintiliano, ma imparavano a mettere ordine innanzitutto nei loro pensieri e poi a dargli un ordine sulla carta.
Erano così fieri della parola metodo! -Noi abbiamo un metodo, vero professò?-
Naturalmente il metodo non era sufficiente. E, grazie al cielo, in alcuni casi era superfluo. Ho incontrato ragazzini, per i quali scrivere era una passeggiata. Di piacere. Bastava il primo compito in classe per accorgersene e loro andavano felicemente per la loro strada.
Anche io, finita la quinta ora, riprendevo la mia.
martedì 13 maggio 2008
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Che bel post Marina. Mi fai ricordare la mia prof di Italiano. Era la mia preferita e io credo di essere stato il suo preferito! Sai quando c'e` una certa intesa.
RispondiEliminaPensa che suo marito era un altro prof di Italiano che insegnava nella stessa scuola ma loro al lavoro se si incrociavano nei corridoi non si salutavano nemmeno! Penso lo facessero per una questione di professionalita`.
Mi fa sorridere quando dici che "a malapena in prima sapevano leggere" ma non insegnavi alle superiori? Ah dimenticavo la rivalita` con le professoresse delle medie...!!!
Mi sarebbe piaciuto fare le quinte ore con te!
"La prima regola era di non accettare mai nulla per vero, senza conoscerlo evidentemente come tale: cioè di evitare scrupolosamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi niente più di quanto si fosse presentato alla mia ragione tanto chiaramente e distintamente da non lasciarmi nessuna occasione di dubitarne.
RispondiEliminaLa seconda, di dividere ogni problema preso in esame in tante parti quanto fosse possibile e richiesto per risolverlo più agevolmente.
La terza, di condurre ordinatamente i miei pensieri cominciando dalle cose più semplici e più facili a conoscersi, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza delle più complesse; supponendo altresì un ordine tra quelle che non si precedono naturalmente l'un l'altra.
E l'ultima, di fare in tutti i casi enumerazioni tanto perfette e rassegne tanto complete, da essere sicuro di non omettere nulla."
Cartesio, Discorso sul metodo
è vero che un buon metodo senza contenuti è come pestare acqua nel mortaio.
ma è altrettanto vero che senza metodo non si riesce ad avvicinare neppure un contenuto
complimenti per le tue "strategie dell'ultima ora in una quinta"
Che meraviglia! Avrei desiderato essere tuo alunno, anzi, verrò per lezioni di recupero.
RispondiEliminaRino, felice di leggerti.
Ciao Marco, no, io ho sempre insegnato alle medie!
RispondiElimina@ amalteo: Cartesio ce l'hai tutto sulla punta della lingua? complimenti
@Rino: qualche quinta ora la farei volentieri ancora adesso!
Grande ritorno dei post della serie "Professo'". Quanto mi piacciono!
RispondiEliminaqueste sono le famose botte di fortuna che possono capitare nella vita: una professoressa come te...privilegio che, ahimè, non mi è toccato.
RispondiEliminaMa hai mai pensato di fare ripetizioni d'insegnamento a qualche professore svogliato? O forse no, non servirebbe. Questa passione, le idee, la fantasia, il saper suggerire angolazioni o fanno parte di te, del tuo entusiasmo nel voler donare oppure non c'è niente da fare, insegnerai sempre sotto traccia.
Un abbraccio " Capitano".
Lo sapevo che, prima o poi, mi avresti dato modo di rispolverare ricordi della mia prof.
RispondiEliminaTutti teneri e nostalgici, anche se non tutti piacevoli.
Era da un po' che mi ritornava in mente sempre più spesso: chissà cosa scatena queste rimembranze "fuori tempo"...
Aspettati un post "dedicato"...
Ti abbraccio e grazie per la ventata di un tempo che fu.
Un post davvero molto bello e scritto bene.
RispondiEliminaTemo che siano poche le insegnanti come te.
Saluti
Marina mi dici dove ti sei andata a nascondere nei miei anni passati sui banchi di scuola? Anni in cui vacevo il minimo indispensabile per tirare avanti, per arrivare ad uno straccio di promozione. Al liceo, col mio compagno di banco, per passare il tempo avevamo organizzato tutta una serie di giochi, dal risiko sulle cartine del libro di storia alle partite di calcio con i playmobil. Mi sarei perso durante le tue ultime ore... mai avrei messo mano alla gomma che ci serviva da dado per perdermi un attimo dei tuoi racconti... i tuoi alunni sono stati molto fortunati! Addirittura hai fatto conoscere loro Queneau con i suoi "Esercizi di Stile", meraviglioso.
RispondiEliminaUn bacio,
polle
So di essere stucchevole ma per l'ennesima volta devo rimpiangere il non aver avuto un'insegnante come te.
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