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Il mio equilibrio -espressione molto forte trattandosi di me- dipende dalla trama delle mie giornate. È fatto di scansioni del tempo sempre spontanee, mai imposte. È fatto di mancanza di programmi costrittivi ma, nello stesso tempo, della sicurezza di appuntamenti stabili; stabili ma facoltativi, a mia disposizione, diciamo.
Non so mai prevedere quale compito mi sembrerà insormontabile, quale impegno troppo gravoso, quale appuntamento inaffrontabile.
Devo essere sciolta –sempre- libera –sempre- e, possibilmente, sola. O, in alternativa, insieme a persone che sappiano starmi accanto con delicatezza di tocco, senza pressioni, senza spinte, senza trazioni.
Farmisi troppo da presso, significa farmi allontanare.
In questo io sono come mio padre, con due piccole differenze non da poco.
La prima è che in lui, uomo, questo bisogno assoluto di libertà ha potuto esprimersi e trovare, sempre, soddisfazione: lui ha avuto, e si è preso, tutta la libertà di cui aveva bisogno.
A me, donna, non è stato concesso.
Ho così sviluppato quella che costituisce la seconda differenza: questo tratto della mia personalità, che in sé non aveva niente di patologico, represso nell’apprendistato della condizione femminile, si è vendicato. Diventando in me di una esasperazione patologica. Si esprime infatti in tutta una serie di minuzie, quasi irraccontabili.
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Quando qualcuno usa la parola “legàmi”, intende o qualche cosa di materiale, in forme ed aspetti diversi, o qualche cosa di immateriale, ma in fin dei conti, ben definito, corposo e tradizionale.
Io sono invece una persona per la quale il termine “legàme” può significare tutto. Ogni cosa, materiale e immateriale, pubblica o privata, grande o grossa, lontana o vicina, può essere un legàme.
E, in quanto tale, per me intollerabile.
Non è sempre stato così. Io mi sono adattata alla limitazione di quel mio bisogno sconsiderato, applicandomi con tutta la mia buona volontà, con tutto lo slancio del mio “dover essere”. Per anni. Per decenni.
Ricacciando sempre più in fondo, la voce che mi diceva “attenzione! non stai agendo in conformità alla tua natura, ma contro di essa. Non potrai farlo ancora per molto e non potrai farlo impunemente".
Poi sono inciampata in una depressione, che ha richiesto, tra le altre cose necessarie ad affrontarla, un allentamento delle costrizioni imposte fino a lì alla mia vita, un alleggerimento della pressione della vita su di me.
Questo significa, sia i massimi sistemi -che trascuro perché troppo "massimi"- che piccolissimi particolari. Sia gli obblighi sociali, familiari, relazionali, che piccoli impegni, meno che piccoli, quasi invisibili. Piccoli, quasi invisibili per gli altri. Non ai miei occhi. Ai miei occhi di quasi invisibili non ne esistono. Il peso che possono esercitare su di me, è lo stesso di quelli grandi. Non esistono gerarchie e non esistono sfumature.
Inoltre, per colmo di sfiga, la mia indole, molto affettiva, fa sì che spesso per puro slancio d’affetto, io stessa mi crei legami, impegni, incombenze, appuntamenti, ecc.
E allora mi trovo in bilico, e dentro di me due forze tirano. Le maledette tirano in direzioni opposte. Una verso gli altri, a scapito del mio bisogno di spazio, di aria intorno a me, ed una verso la mia stretta intimità, a scapito del mio slancio affettivo. Talvolta cedo in una direzione, talvolta nell’altra.
In ogni caso pago un prezzo.
Infatti, quel mio antico, naturale, innocente ma fortissimo bisogno di libertà, che non ho assecondato a suo tempo, ora mi impone di rispettarlo con argomenti molto, molto convincenti.
E, sempre infatti, il mio bisogno di scambi affettivi soffre molto delle limitazioni che quell’altro mio bisogno gli impone.
Ma non crucciatevi per me.
Io sono diventata un’ esperta in quest’arte di equilibrista.
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Governo il mio vascello esistenziale, un occhio a prua e un altro a poppa, uno a babordo e uno a tribordo -infatti di occhi ne ho quattro- e, bene o male, procedo tra i flutti e le secche che si chiamano vita.