lunedì 21 gennaio 2008

luoghi







Questa piazzetta l’attraversavo ogni giorno e salivo lungo la bella scalinata che ruotava tra i palazzi anni venti e trenta.



Andavo e tornavo dalla scuola elementare che portava e ancora porta il nome di Ruggero Bonghi, patriota, filologo, professore Universitario di Letteratura Latina, Ministro della Pubblica Istruzione dopo l’Unità di Italia, uomo di destra, liberale attento ad ogni nuovo fermento culturale. Il suo ritratto solennizzava la stanza della Direttrice.


Non so se sia ancora là. Conto di andare a gettare un’occhiata quando, nel prossimo autunno, il mio nipotino entrerà nelle aule dove prima di lui abbiamo studiato le mie
sorelle ed io, mia figlia e il figlio di mia sorella. Sarà la terza generazione ad affacciarsi sull’immenso cortile disadorno, a rincorrersi nei vasto corridoi dove, più spesso di quanto sarebbe ragionevole, ancora mi reco a votare.
Forse è stato il filologo Bonghi che mi ha ispirato l’amore per il latino e per la storia romana o forse sono stati quei resti così familiari da cui la piazzetta prende il nome: i resti del Tempio di Iside e di cui mio padre mi raccontò l’origine.
Ora sono protetti da una cancellata ed un pannello illustra i lavori che sono stati effettuati, segnala gli importanti ritrovamenti-statue, lucerne votive, ecc- e ricostruisce la storia di questo antichissimo luogo di culto.


Quando ero bambina i ruderi erano esposti ad ogni offesa, ma anche inseriti nella vita quotidiana della gente del quartiere. Vi si appoggiavano le biciclette, gli operai vi si sedevano a mangiare la ciriola con la mortadella, io mi ci arrampicavo per avvicinarmi ai gatti, che ne erano i veri, indiscussi proprietari. I gatti ne sono ancora proprietari, e da dietro la cancellata, beffardi, si sottraggono ad ogni confidenza indesiderata. Il centro della piazzetta è reso accogliente da qualche panchina, da sei alberi di aranci e da quattro bei lampioni. Fino all’anno scorso, passando quotidianamente per andare a trovare mia madre malata nella nostra vecchia casa, nelle belle giornate mi sedevo su una panchina qualche minuto.Tiravo il fiato.
Adesso cerco di non passarci. Ma oggi ho avuto il desiderio di rivederla e di raccontarla la piccola piazza. Le bambine vi giocavano al gioco della campana, quel gioco che prevede di entrare ed uscire, saltellando su un solo piede, da un disegno tracciato in terra con il gesso. Il gioco della campana mi era interdetto. Mia madre non voleva che noi giocassimo in strada. Era una madre apprensiva ed autoritaria insieme. Inoltre ne faceva, credo, una questione di classe. C’erano bambini che giocavano in strada e bambini che giocavano in casa. A me era toccato in sorte di giocare in casa. Passando sulla piazzetta mentre le altre bambine ripetevano la formula di rito e saltellavano allegramente, io rallentavo il passo fino all’inverosimile, mi trattenevo più che potevo, nel desiderio di partecipare anche io al gioco. Il gioco era il più comune già tra i bambini di Roma antica; si chiamava il gioco dello zoppo, il claudus ed è impossibile per me non pensare che forse proprio lì, nella piazzetta, davanti al tempio, saltellavano allegri i bambini romani di duemila anni fa’. Solo adesso sono in grado di misurare il significato di quel ripetersi di quel gioco di bambini, in quel luogo preciso. Allora, ero solo indispettita dal divieto materno e invidiosa della libertà dei bambini che giocavano in strada. Quando ero con mia madre dalla piazzetta si usciva in fretta. Sull’angolo infatti vi era un vinaio ed era tutto uno scaricare botti di vino, travasare da camion a botte e caricare casse di vino imbottigliato. L’odore di vino era fortissimo e per mia madre, astemia, fastidioso. A me piaceva, forse per spirito di contraddizione, o forse per un gusto precoce per il buon vino.



Proprio davanti al vinaio c’era una fontanella. Un camion la investì e quasi la distrusse negli anni settanta e per trent’anni circa la piazza ne fece senza. Recentemente è stata restaurata e rimessa al suo posto. È molto semplice. Ha la sua scritta regolamentare S.P.Q.R. incisa sulla pietra e le sue due cannelle di rame. Quando mancava l’acqua in casa-e quando ero bambina succedeva spesso-mia madre ci mandava a prendere l’acqua a quella fontanella. C’erano due file, una per ogni bocchetta. A me piaceva andare a prendere l’acqua, era una specie di avventura, un tocco di imprevisto e ardimentoso che improvvisamente si inseriva nelle giornate protette della mia infanzia.
Accanto al vinaio c’era una trattoria. Era tenuta da una signora di cui si diceva che cucinasse i gatti: la sora Giovanna, una donna alta, formosa, bionda, con un bellissimo sorriso. Io mi rifiutavo di credere a quella voce, vorrei rifiutarmi ancora, ma temo che per qualche anno sia stato vero. Poco più in là un’ebanisteria e il falegname portava sulla strada i suoi mobili e lì li dipingeva. L’odore della segatura e della vernice tentavano di sbarrare il passo a quello del vino.
Di fronte invece c’era una tipografia e da lì usciva l’altro odore della mia vita di bambina: carta e inchiostro! Odore buonissimo nel quale mi tuffavo con un piacere cui non sapevo dare un nome. Era l’odore che respiravo anche quando andavo a trovare i miei nonni materni che avevano casa sopra un giornale. Di quel mondo-favoloso, straordinario, fatale per me-racconterò un’altra volta.
Ora resto alla piazzetta. Pochi passi dopo il vinaio, in una piccola strada privata, si aprivano, a livello della strada, le finestre protette da pesanti inferriate delle cantine del nostro palazzo.


Una volta l’anno, in autunno, l’inferriata si apriva verso l’esterno, uno scivolo veniva accostato e un quintale di carbone sferragliava rovesciandosi nella cantina. Era la provvista che avrebbe alimentato per tutto l’inverno la grande stufa della cucina. Mia sorella ed io ogni tanto venivamo mandate a riempire il secchio di carbone in cantina. Questo incarico mi piaceva meno. La cantina era lunga e stretta; la zona del carbone era separata dal resto dell’ambiente da una lunga e pesante tenda cerata che doveva isolarne la polvere. Al di qua c’erano oggetti misterioso ed appetibili, tenuti in inappuntabile ordine e pulizia dalla disciplina di mia madre; al di là della tenda il grosso mucchio del carbone, qualche paio di guanti, le pale ed i secchi. E l’aria subito acre alla prima palata e la polvere nera che mi si posava addosso.
Ma una volta risalita in casa, alimentare il fuoco era bellissimo. Gli scintillii delle fiamme, il crepitio sonoro, la vampa di calore che mi investiva quando aprivo lo sportelletto e mi accostavo al cuore della stufa, avevano un fascino segreto. O che tentavo di conservare tale.
Adesso le inferriate sono state fissate, la cantina ridipinta e quasi del tutto sgombrata.
Passandole davanti io guardo in terra e mi scappa un sorriso. Il nostro cane Pippo, improbabile incrocio tra un barbone e un cocker, riccio e nero proprio come il carbone, aveva una speciale predilezione per le inferriate delle cantine e nella passeggiata mattutina bisognava vigilare che non le battezzasse della sua prima pipì della giornata. Erano passati molti anni dalla mia infanzia. Pippo si slanciava su per la scala di Piazza Iside e io lo rincorrevo in affanno. Era intrepido e molto puttaniere. Quando io arrivavo in cima alla scalinata-76 scalini, in quattro gruppi di 14-lui già infastidiva la cagna del carrozziere che aveva la sua officina proprio in quella che adesso è la mia palazzina. Fu così che un giorno lo perdemmo. Seguì un odore per lui irresistibile, prese la via e a nulla valse chiamarlo e rincorrerlo. Per fortuna quella mattina era uscito con mio padre o sarei stata diseredata! Ma la regola, mai detta, del trattare con Pippo era: sacrificarlo il meno possibile. Aveva una vitalità pazzesca e un caratterino molto volitivo. Annunci sul giornale, peregrinazioni, visite in case altrui dove cani ritrovati somiglianti ma altri dal nostro ci aspettavano per deluderci, la casa a lutto, la testardaggine di mio padre: tornerà. Per più di due mesi dedicammo ogni nostra energia alla ricerca di Pippo, una famiglia di cinque persone che disperatamente voleva ritrovare la sesta. La ritrovammo. Ci telefonarono di sera tardi. Ci segnalavano un cane che non si lasciava avvicinare e che urlava alla notte la sua disperazione, al di là di Piazzale Flaminio, lontanissimo da noi. Partimmo tutti e cinque, sicuri che quella fosse la segnalazione giusta. Una vecchia signora, elegante, squisita, mandava da tre sere il suo maggiordomo a portare acqua e cibo al cane. E questo aspettava che se ne fosse andato prima di avvicinarsi a bere e mangiare.
Il maggiordomo ci accompagnò dove da tre sere lo incontrava. Ma prima ancora di arrivare, mentre gridavamo nella notte in ogni direzione il suo nome, da un punto che ancora non riuscivamo a vedere, Pippo lanciò un suono che posso ancora sentire, una specie di lamento di rabbia, disperazione e sollievo insieme, un suono che ebbe l’effetto di farci ridere e piangere all’istante. La gioia è davvero una cosa fantastica! Quella gioia ancora ci alimenta ogni volta che ricordiamo tra noi l’episodio. È come il carbone per quella stufa, ci nutre. I dolori non muoiono, non del tutto; ma anche le gioie non muoiono. È per questo che possiamo amare la vita.



Una delle sue ultime passeggiate mia madre la fece proprio nella piazzetta, che, benché vicinissima, era già molto lontana per lei. Era appena stata restaurata e mia sorella ed io volemmo fargliela vedere. Ci fermammo al sole e lei si guardava intorno, con un piccolo sorriso. Parlava poco ormai, ma si vedeva che era incuriosita dalle novità e soddisfatta per l'ordine e la pulizia della piazza. Volle farne un giro, osservando tutto meticolosamente. Mia sorella ed io le illustravamo le piccole meraviglie come due guide ad un turista e lei invece ci rispondeva con il piccolo cenno di approvazione e assenso con cui un proprietario verifica i lavori eseguiti per lui nella sua dimora. Mia sorella ed io ne ridemmo. Nella sua elegante condiscendenza c'era tutta mia madre.
Accompagnarla fuori in quel periodo della sua vita era impegnativo. Vestirla era un procedimento lungo e faticoso, fatto senza collaborazione da parte sua perché usciva mal volentieri. Si lasciava fare ma ci consegnava il suo corpo totalmente passivo. Però quella mattina, di fronte alla sua aria compiaciuta, fummo davvero contente di averle fatto la piccola prepotenza. E oggi, dopo che per un anno circa ho attraversato la piazzetta di furia, cercando di non vederla, ho deciso che tra tutte le immagini di mia madre ormai molto vecchia, quella che voglio ricordare è proprio quella di quella mattina. La mia mamma novantaduenne ancora bella ed elegante, che ispeziona la sua proprietà e ci sorride con distratta, signorile benevolenza. E con un piccolo, insopprimibile fondo di giovinezza negli occhi ancora luminosi.

13 commenti:

  1. Che bello! Credo che ogni volta che passerò di lì vedrò un po' di questo tuo racconto, di quell'atmosfera. Come ora, nell'ultima foto cerco un po' di te.
    Forse, battagliera e decisa?

    Ma perchè una volta tutti si facevano fotografare in terrazza? Anche i miei mi hanno lasciato una sfilza di foto così.

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  2. Una sorta di Lessico Famigliare in fotografie e parole... Non sai che bel senso di levità che mi hai dato, e vita spesa bene, e anche "stesa" bene, come panni bianchi al sole. Hai proprio quell'odore lì, oggi.
    Buono, in senso estetico ed etico.
    V

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  3. Ecco questi sono proprio quei pezzi di memoria che devono essere riportati in vita.
    Raccontandoci della tua piazzetta, di tua madre e del tuo cagnolino ci hai regalato anche un po' di te.
    Baci e buon inizio di settimana
    Banana

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  4. ho i brividi....
    complimenti!
    un post dei ricordi MAGNIFICO!!!!

    molto affascinante e devocativo...corredato da foto altrettanto straordinario.

    bello bello bello!

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  5. Bellissimo racconto, mi sembrava di essere lì con te, Giulia

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  6. Emozione intensa ma, per buona parte del tuo racconto, senza quella nostalgia che rabbuia l'anima; quest'atmosfera ovattata rende il post leggero e soave con una poesia più lieve nelle parole senza amarezza o malinconia di un ritrorno al passato

    E la fine ci consegna un momento dolcissimo e la voglia finalmente di trovare la forza dentro di te di ricordarlo e volerlo fermare per sempre.

    Brava Marina
    Daniele
    Daniele

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  7. Gran bel post e belle immagini che, se è corretta la data, si possono fare solo a Roma in questa stagione. Da noi, a Milano, la nebbia di questi giorni ci offusca il cervello. Forse per questo ci rifugiamo come talpe nelle nostre tane e parliamo d'altro. Di solito del sole di Roma a gennaio e del ponentino di luglio che sa tanto di mare: raramente possiamo ricordare luoghi. Passando non li vediamo. Non certo per la nebbia.
    Teppista

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  8. Lasciate che vi dica quanto mi faccia piacere ricevere complimenti!
    Vanità a parte, mi sembra che la mia vita passata ne riceva una valorizzazione. Mi compiaccio soprattutto del fatto che ....non è postuma! ;-)

    ciaomarina

    Benvenuto Teppista, qui Roma, naturalmente. Ma oggi è grigio come da te a Milano.

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  9. Brava Marina! Qui parlano le immagini ma anche gli odori, insomma le sensazioni. Fantastico il racconto del ritrovamento del cane. Bello anche il ritratto della mamma. Anche a me non facevano giocare per strada ed io invidiavo molto quelli che i miei chiamavano "ragazzacci maleducati".

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  10. Quant'è bella mia nonna!

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  11. Marina...GRAZIE!!!! Per i tuoi meravigliosi ricordi, che condividi con noi in modo sublime...e GRAZIE per aver pensato a me, riguardo al locale!!! Sai, non avendo trovato ancora niente, ho deciso di cambiar semplicemente casa. Con i miei due coinquilini, ci cerchiamo un nuovo appartamento ed io, spendendo qualche soldo in più, mi insonorizzo la stanza...così suono e dormo, tutto insieme ;-) Bisogna arrangiarsi...

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  12. Bravo Donnigio, ti auguro di trovare un bell'appartamento dove dare spazio a tutte le tue fantasie
    ti abbraccio marina

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