Dopo avervi afflitti con la storia del mal di vivere e della depressione, vorrei rialzare il tono dell’umore generale, presentando una storia della felicità. A puntate anch’essa.
Sto infatti leggendo proprio “Storia della felicità” di Darrin McMahon, il cui tentativo di tracciare una possibile storia di questo sentimento così sfuggente, può forse inserirsi in quella nuova corrente di studi storici che si chiama Storia delle emozioni.
L’esergo posto ad inizio libro è bellissimo. È di Albert Camus e recita così: “La lotta stessa per raggiungere le altezze è sufficiente a riempire il cuore di un uomo. Dobbiamo immaginarci Sisifo felice.”
Quindi, concentriamoci molto ed immaginiamo Sisifo felice.
L’oggetto dell’indagine è difficile da definire, essendo la felicità qualcosa di essenzialmente soggettivo, come Freud già un secolo fa’ ebbe ad affermare.
Ma resta che il fine ultimo dell’uomo, su questa terra, è proprio essere felice. Almeno a credere a William James. Ed io sono portata a credergli.
Ma il modo di intendere la felicità varia moltissimo da una cultura all’altra e da un’epoca all’altra.
IL MONDO ANTICO
Quando gli esseri umani uscirono dalle tenebre della semplice animalità e cominciarono a chiedersi e a darsi spiegazioni sul loro destino, cominciarono anche ad abbozzare un quadro della possibile felicità. Ma il quadro della felicità, ahimé, non era felice. Per qualche secolo gli uomini si dissero: la felicità non dipende da noi. La nostra volontà è ininfluente.
Tutte le civiltà del Mediterraneo, Asia Minore, Egitto, fino alla Persia e Mesopotamia, hanno la stessa concezione fatalistica. Anche la Grecia ha della vita questa concezione tragica e ineluttabile: sono gli Dei a decidere della nostra felicità o infelicità e, al di sopra degli Dei stessi, il Fato.
Eppure è in Grecia, come sempre, che comincia a farsi strada l’idea che la felicità possa essere conquistata dall’uomo, che la sua azione, individuale e collettiva, possa avvicinarlo a questa meta.
È Socrate a porsi, per primo,” il problema delle condizioni necessarie alla felicità”.
Socrate era un filosofo molto pratico. Mentre gli altri pensatori dell’antichità si concentravano sullo studio delle scienze naturali, e si interrogavano sulla natura del mondo e sulla possibilità di conoscerlo, Socrate inventava l’etica, che allora significava semplicemente lo studio della condotta umana, e indagava il modo migliore per vivere la nostra vita. Così cominciò a parlare di felicità.
Ma quando Socrate parla di felicità non pensa al semplice edonismo; il suo ideale di felicità è più alto, più nobile del semplice soddisfacimento dei nostri sensi e del godimento dei nostri beni.
Platone (è sempre di lui che dobbiamo fidarci, quando si parla di Socrate) nel Simposio gli fa affermare che la felicità dipende da noi, ma non va cercata nelle direzioni in cui uomini e donne si sentono spinti a cercarla dai propri desideri mal controllati: il piacere, il potere, la ricchezza, la fama, persino gli affetti familiari. Cioè l’effimero, ciò di cui approfittare al momento, nel mondo tragico dominato da altre volontà che la nostra.
Al posto di tutte queste cose Socrate predica la Filosofia, sostenendo che solo un’anima ben ordinata e l’elevazione di Eros, il desiderio, può avvicinarci alla nostra meta. Eros, che è a metà strada tra saggezza e follia, può essere disciplinato e la sua forza può essere diretta verso il vero bene e la vera bellezza: la norma morale custodita dentro di noi, il rispetto della nostra voce più autentica, la disciplina del desiderio e l’ordine dell’anima portano felicità. Questo dice Socrate e con lui Platone.
E Platone ci propone di ri-orientare i nostri desideri, per cambiare la parte più pesante ed opaca della nostra natura umana. Socrate e Platone puntano il loro sguardo in alto.
Sarà Aristotele a riportarlo sulla terra.
Aristotele osserva le cose di questo mondo con molta più indulgenza.
Nell’Etica Nicomachea afferma che ogni creatura persegue un suo fine. Quello della creatura umana è coltivare la facoltà che ci distingue da tutte le altre creature, il ragionamento, e agire di conseguenza. Essere un uomo buono significa vivere secondo la nostra particolare virtù umana: la ragione. E l’uomo buono è un uomo felice.
La felicità è una “attività dell’anima conforme a virtù”. Non sembra una grande apertura rispetto alla lezione di Socrate e Platone, e invece lo è.
Aristotele rifiuta infatti l’idea di Socrate e Platone che la virtù sia sufficiente ad assicurare il raggiungimento del fine ultimo della creatura umana. “Qualcuno potrebbe possedere la virtù ma soffrire i peggiori dei mali e delle disgrazie del mondo.Costui non può essere felice, dice Aristotele. E pensare che mi era tanto antipatico!
Una felicità sia pure approssimativa può consistere per Aristotele anche in salute, sicurezza, piacere e prosperità, onori e riconoscimenti, buoni amici e buona fortuna. Di questa felicità però non bisogna accontentarsi, l’uomo deve tendere ad una felicità più completa, la sola che rappresenti lo scopo della sua presenza al mondo.
E chiunque, attraverso l’apprendimento e l’attenzione alla sua ragione, potrà raggiungere questa felicità superiore. Aristotele è incoraggiante. Questo sforzo porterà ad essere felici la maggior parte degli esseri umani.
Però c’è un però.
Tutti coloro che per loro natura siano
mancanti di ragione e quindi della capacità di usarne per raggiungere la virtù, non raggiungeranno mai la vera felicità aristotelica. Tra questi privi di ragione per Aristotele ci sono: gli schiavi, le donne, i bambini e coloro che sono privi dei mezzi necessari per avere del tempo libero da dedicare alla riflessione, all’istruzione e all’esercizio della loro ragione.
La felicità in pratica era riservata ai maschi, liberi e dotati di mezzi!
Chi invece sembra mosso a pietà dalle sofferenze degli esseri umani e dal loro destino e dichiara senza mezzi termini che una filosofia che non allontani le sofferenze dell’anima è come un medicamento inutile per il corpo, è Epicuro.
Gli esseri umani sono responsabili della loro propria felicità, ma in accordo alla loro natura. È questa la parola chiave: natura. A partire dalla sua concezione fisica radicalmente materialistica Epicuro insiste sulla centralità del piacere, ponendosi in contrasto con Socrate, Platone e Aristotele.
Secondo Epicuro l’universo è composto interamente dalla combinazione di materia e vuoto, atomi e nulla. Gli dei beati e immortali non si occupano del mondo o dei suoi abitanti.
Gli esseri umani sono semplici aggregati di materia e le sensazioni sono la fonte di ogni esperienza e di conseguenza la fonte di ogni bene e di ogni male.
Ma a dispetto di tutte le nostre volgarizzazioni e dell’uso comune di edonismo ed epicureismo come termini pressoché sinonimi, la dottrina epicurea è una dottrina ascetica, che comporta una precisa regolamentazione dei desideri.
Il piacere di cui parla Epicuro non è edonismo spiccio, ma ASSENZA DI DOLORE FISICO (aponia) e ASSENZA DI ANGOSCIA O ANSIA MENTALE (atarassia). Questi sono i veri fini, non eccessi di piacere o sottrazioni della coscienza.
In un frammento Epicuro lo dice esplicitamente.
Lettera a Meneceo:
“Quando diciamo che il fine è il piacere, non parliamo del piacere degli edonisti o dei sensuali, come pensano gli ignoranti(...), ma della libertà dal dolore fisico e dalla sofferenza spirituale....”
Per Epicuro i desideri veramente necessari sono estremamente limitati: la felicità richiede poche cose. Cibi e bevande frugali, un rifugio e un minimo di sicurezza dovrebbero bastarci, se teniamo in ordine i nostri desideri.
“Colui che non è soddisfatto di poco non è soddisfatto di nulla”.In fondo Epicuro era uno statistico: la nostra felicità dipende dalla percentuale di soddisfazione dei nostri desideri. Riducendo drasticamente il numero dei nostri bisogni noi ci assicuriamo la possibilità di soddisfarli interamente, divenendo anche più liberi. Il compito dell’insegnamento filosofico di Epicuro è quello di addestrare a quest’opera di limitazione dei nostri bisogni.
Epicuro pensa che tutti possano raggiungere la felicità adottando la sua filosofia: accetta donne e schiavi nel giardino dove tiene le sue lezioni e predica la fratellanza tra tutti gli esseri umani.
Mentre i loro grandi filosofi discettavano sulla felicità e sul bene, i Greci tentavano di strappare alla vita qualche sorriso.
Quello lieve dei κυροι,
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le grandi statue di giovani fiorenti che ancora ci incantano nelle sale dei musei.
E qualche sorriso più carnale, quello di Dioniso e delle sue feste.
Poiché in qualunque momento gli Dei potevano mostrare la loro faccia crudele, tanto valeva approfittare dei loro brevi momenti di distrazione.
Le feste dionisiache si svolgevano a primavera e se culminavano con la presentazione di nuove tragedie, erano comunque una chiassosa, allegra celebrazione del dio del vino.
Si beveva, si danzava, si portava scherzosamente in processione un gigantesco fallo; dopo la tragedia si assisteva alla rappresentazione di un “dramma satiresco”, una farsa leggera in cui un coro di satiri si esibiva tra le risate del pubblico.
Oltre le Dionisiache numerose altre feste e processioni religiose consentivano, dopo i giorni di digiuno e di astinenza, scoppi di allegria, festeggiamenti pubblici, danze, canti e gare sportive. C’erano anche feste più private, banchetti, simposi, con musica, danze, abbondanza di cibo e la presenza di etere e flautisti ad ornamento della serata e per la sua conclusione orgiastica. Questi simposi sfrenati però non erano la regola. Gli eccessi insospettivano i Greci e il simposio “temperato” (dal vaso di Colofone) era quello cui si dedicavano più comunemente. Del resto lo stesso simposio sfrenato aveva una sua ritualizzazione, ancora oggetto di studio.
E infine l’amore, cantato da tutti i lirici greci, consolava, allora come ora, delle pene quotidiane. Naturalmente finché durava!