Conserviamo così il diritto di indignarci e di coltivare, se vogliamo, rancore e persino odio nell’animo nostro. Ma soprattutto ne ricaviamo in cambio un'intima convinzione di superiorità nei confronti di colui che intenzionalmente ci ha offesi: releghiamo quello nel novero dei cattivi e ci accomodiamo nell’angolo caldo dei moralmente superiori.
Invece, se siamo costretti a riconoscere che l’intenzione di chi ci ha offeso non era malevola, se cioè siamo costretti a riconoscergli la buona fede, ecco che allora entriamo nella posizione disagevole di chi deve comprendere, scusare e addirittura perdonare.
(Nel paese del dichiarato cattolicesimo il perdono non è merce benvista. Se ne fa un gran parlare, a proposito ma più spesso a sproposito, ma si pratica poco.)
Per questo credo che la cosa più difficile sia riconoscere la buona fede altrui, perché ci costringe(rebbe) al perdono. E a riconoscere nell'altro qualcuno simile a noi, capace di errore sine voluntate.
Dev’essere così che ha ragionato, o meglio sentito, consapevolmente ma più probabilmente inconsapevolmente, la persona che senza volerlo ho offesa, -per leggerezza e superficialità, forse per temporanea mancanza di sensibilità o cecità morale ma senza nessuna intenzione - e che ha respinto le mie scuse. Trasferendosi nel silenzio più accusatorio. Che da qui chiamerò silenzio che non perdona.
Doveva operare una scelta: credere o non credere alla mia mancanza di cattiva intenzione anzi di intenzione tout court.
Nel primo caso -credendo cioè alle mie scuse- avrebbe dovuto riconoscermi come persona leggera e superficiale ma non malvagia. E, se ciò nonostante, avesse sentito ancora rancore dentro di sé, avrebbe dovuto pensarsi come persona incapace di comprensione e di perdono. Immagine che a nessuno piace avere di sé.
Nel secondo caso - non credendomi- avrebbe potuto invece qualificarmi come persona malvagia e inoltre menzognera dal momento che invocavo per me la giustificazione della non intenzionalità. Il suo rancore e il suo desiderio di ferirmi in risposta sarebbero apparsi ai suoi occhi come assolutamente giustificati, doverosi anzi in presenza di tanta impudenza. La mia offesa passata si sarebbe in un certo senso rinnovata e anzi aggravata. Lei sarebbe cioè risultata di nuovo vittima di una mia cattiva intenzione.
La persona che ho involontariamente offesa un anno fa e cui, senza nessuna autoindulgenza, ho chiesto perdono per il mio errore, ha scelto –naturalmente nella ridotta misura in cui possiamo davvero scegliere- di non credermi.
La capisco e persino la approvo. Almeno se mi metto nei suoi panni.
Ogni volta che riconosciamo un altro meritevole di indulgenza da parte nostra, dobbiamo misurarci con la nostra capacità di dare effettivamente indulgenza, operazione difficile e faticosa.
Meglio dunque, nell’economia della nostra psiche, mantenerci nella posizione oltraggiata e sentirci in accordo con l'immagine di noi stessi che ce ne deriva.
Il meccanismo per cui difendiamo accuratamente la nostra immagine ai nostri stessi occhi è perfettamente comprensibile, banale direi: cerchiamo cioè di evitarci disagio, senso di colpa, ferite alla nostra autostima eccetera. Spesso, molto spesso, lo facciamo inconsapevolmente.
(Del resto potrei anch’io essere caduta nella stessa inconscia tentazione quando ho scritto che il mio agire è stato dettato da superficialità e leggerezza piuttosto che da malignità intenzionale e scorrettezza morale. Meglio pensarmi sventata che maligna.)
Su questo lato, cioè dalla parte di me, offensore involontario, la faccenda va così: chi ha offeso, quando se ne rende conto, vuole soprattutto che venga riconosciuta la propria buona fede, perché sente che è quella la sola porta attraverso cui può passare il perdono dell’altro ma, soprattutto, il ripristino della sua immagine ai suoi stessi occhi. (Tralascio intenzionalmente il dolore che può derivarci dallo scoprire che si è arrecata offesa ad una persona cui vogliamo bene.)
Si prova l'urgenza di mondarci del nostro errore. Di dichiararlo e chiedere scusa.
Quando si chiede perdono a qualcuno per un'offesa arrecata portando come propria scusante la mancanza del desiderio di offendere tre sono le possibilità.
L' offensore che chiede perdono rivendica la propria buona fede mentendo consapevolmente. Dopo aver offeso l’altro vuole anche ingannarlo. In tal caso l’altro che respinge o ignora le sue scuse, è perfettamente nel vero e nel giusto.
Oppure l'offensore protesta la sua buona fede per effetto di scarsa consapevolezza, ovvero mentendo a se stesso. Si riconosce una colpa minore – superficialità, insensibilità specifica, leggerezza, distrazione, ma non intenzionale malignità. Può darsi persino che nell’offendere fosse animato da un sentimento maligno, da un desiderio di colpire di cui non era, e ancora non è, consapevole.
Anche in questo caso respingerne le scuse, restando chiuso nel proprio silenzio, da parte dell'offeso è ancora legittimo e forse persino appropriato. Pedagogico. Il silenzio che non perdona da parte dell’offeso potrebbe servire all’offensore per riflettere meglio sulla effettiva inintenzionalità del suo atto e portarlo magari a riconoscere la sottile voglia di ferire che inconsciamente lo animava.
C’è poi anche il terzo caso, quello di una vera mancanza di intenzionalità offensiva. In tal caso il silenzio che non perdona come risposta alle scuse dell’offensore potrebbe essere accolto come punizione per la leggerezza e superficialità di comportamento dell’offensore. Una specie di richiamo: attenzione che puoi offendere anche non volendo. Bada a non caderci più. Un memento, insomma. E qui resterebbe solo da chiedersi quanto a lungo debba durare il silenzio-punizione. O forse "fine-pena-mai" come nel caso dell'ergastolo?
Comunque in ognuno dei tre casi, nell’alveo di un ragionamento logico, ammetto il comportamento dell’offeso. O meglio, lo accetto come perfettamente comprensibile. Me lo spiego, ecco.
Ma poiché mantenersi nell’alveo di un ragionamento logico non esclude che i nostri sentimenti intanto ribollano, ecco quello che può accadere quando l’offensore si convince infine della sua assoluta mancanza di cattiva intenzione. (E questo dopo avere a lungo e a fondo guardato dentro di sé ed essersi sforzato di portare a galla tutte le sue colpevolezze; dopo aver chiesto intorno a sé molti pareri e averli pretesi severi e averne avuti diversi ma concordanti tutti su un punto: essere stato il suo un peccato omissivo; omissivo di attenzione, di perspicacia, di intuizione, sensibilità, ma voltosi in offesa senza il suo volere).
Egli accoglie a quel punto il silenzio che non perdona, come punizione legittima ma crudele. Non ne riconosce davvero, fino in fondo alla sua coscienza, la proporzionalità rispetto alla sua colpa, non può riconoscerla poiché questa punizione sarebbe certo proporzionale ad una colpa intenzionale; sarebbe pedagogica, anche se non esplicativa rispetto ad una colpa inconsciamente intenzionale; ma appare troppo indifferenziata, non graduale, rispetto ai due casi precedenti e, quindi, inappropriata per il terzo. L’offensore involontario e pentito sente cioè di aver ricevuto una punizione non congrua per la sua colpa. E non congrua non ci mette niente a diventare ingiusta.
E può essere tentato di stabilire un confronto morale tra se stesso, offensore inintenzionale pronto a chiedere perdono e l’offeso, punitore intenzionale e ingiusto. Respingerà il pensiero in ogni sede razionale ma il sentimento di aver ricevuto un contro-torto continuerà a lavorare nel fondo più fondo. Sentimento lenitivo che sarà bene accolto dalla sua psiche (questa infatti segue le stesse leggi economiche nell'offeso e nell'offensore) ed essa sarà ben lieta di poter riequilibrare il confronto morale tra se stessa e l’altro, l’offeso, confronto fino a quel momento a suo svantaggio. Ecco che ora l’immagine di sé, per l’offensore, improvvisamente si ristabilisce positiva ed egli può pensare di sé che sì, può essere, casualmente, superficiale e leggero, ma è capace di riconoscere i propri errori e di domandarne scusa. Mentre l’altro, l’offeso, è incapace di comprensione e di perdono, persino del semplice gesto di dichiarare apertamente la sua delusione o la sua rabbia, tace per punire, si fa cioè a sua volta e intenzionalmente offensore. Infatti il silenzio che non perdona verrà vissuto come contro-offesa. Il primo offensore quindi sarà tentato di assolversi della sua colpa, -che gli apparirà a quel punto ben più lieve di quella dell'offeso, quasi alleggerita dal comportamento dell'altro, come se l’offeso, divenendo contro-offensore, l’avesse cancellata ai suoi occhi.
È così che si protraggono nel tempo e si trascinano piccoli conflitti, figli della nostra propensione all’errore, figli della nostra stessa fallibilità. Nostra intesa, in questo caso, come appartenente sia all’offensore che all’offeso.
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Ci sono alcuni pensieri connessi, piccoli corollari che questo ragionamento si porta appresso.
In fondo, senza troppe sofisticherie, tre sono i modi possibili di spiegarci le ragioni di un conflitto interpersonale in cui siamo coinvolti.
Imputarne all'altro tutta la responsabilità.
Assumerne su di noi tutta la colpa.
Più un terzo modo, il più difficile. Infatti tertium datur. O meglio, lo sarebbe se i contendenti fossero entrambi capaci di immedesimarsi nelle ragioni dell'altro e poi di uscirne per tornare a riconoscere le proprie.
Ma il compito ci depassa.
Io in genere assumo su di me tutta la colpa. E la dichiaro apertamente. Non certo per superiorità morale: in parte per l'impossibilità di fare diversamente (ahi, ahi, ahi), in parte perché mi sforzo di aprire una strada alla soluzione del conflitto. Il conflitto infatti è roba pesante, che mal sopporto. E in parte, sì, perché penso di indicare all'altro un modo di confrontarsi, quasi di dargli un suggerimento o almeno un esempio.
Nutro sempre la speranza che l'altro, preso atto della mia autoaccusa, la usi per interrogarsi. Esamini cioè il suo comportamento, individui la sua parte di responsabilità e la dichiari. Spero sempre di poterlo incontrare in un punto, non importa se più vicio alle sue o alle mie ragioni, dal quale il conflitto possa essere osservato con calma e riconosciuto risolvibile. O, al peggio, non risolvibile ma frutto semplicemente di quei reciproci fallimenti che la vita rende inevitabili.
Lo dico subito: novanta volte su cento l'altro mi delude; salta sulle mie autoaccuse, le aggiunge alle sue, si monda di ogni responsabilità, si dichiara innocente e chi si è visto si è visto.
Io resto sola colpevole proprio come mi ero considerata da subito.
Qui si apre la battaglia eterna tra la mia logica razionale che mi porta a credere che i conflitti tra persone abbiano due responsabili, sia pure in misure diverse, e il mio imprinting di nata colpevole. Chi vincerà secondo voi? Ebbene, se l'Orca ha trascinato sott'acqua la sua addestratrice, sì le Orche non si tengono negli acquari, sì non le si addestra ad esibirsi, sì non le si bersaglia di flash e non le si strappa al loro mondo di spazio e di silenzio, ma comunque la colpa è ancora una volta mia.
io non so che dirti, io sono sempre pronta a perdonare e a credere nell'altrui buona fede, forse per garantirmi anche io in caso di miei sbagli o offeseil perdono altrui, cosa che non avviene quasi mai, ho un piccolo tarlo da quest'estate si è spenta un'amicizia decennale senza un vero perchè, non lo so nemmeno io, giuro, non ci sente per un po' di tempo e poi nessuno riesce ad alzare la cornetta per spezzare questo "incantesimo"...
RispondiEliminaalcune volte penso che l'incoscio la sa più lunga di noi perciò lui quando è il momento di far finire un rapporto. non bisognerebbe mai perderlo di vista, l'incoscio è ingovernabile.
RispondiEliminaciao simona
sai, Marina, io credo che questa volta tu abbia peccato di "eccesso di attenzione", ecco la tua vera responsabilità.
RispondiEliminaAttenzione eccessiva a tutte le ipotetiche e le variabili e i quozienti, ti sei cioè gettata in un'impresa persa in partenza poiché a nessuno di noi è dato sapere con scientificità ed oggettività quante siano le variabili, le ipotetiche e i quozienti in una relazione: ci mancherà sempre qualche dato, vuoi sul nostro "altro", vuoi su di noi, vuoi su entrambi...e per fortuna, aggiungo io.
Cercare di dipanare cerebralmente, fino allo svolgimento totale del gomitolo, tutte le combinazioni è impresa tanto impossibile quanto inutile, che tenta ingenuamente di sconfiggere la verità dell'angolo oscuro che tutti conserviamo, quello che ci fa peraltro più attraenti e fascinosi, proprio perché impossibili da spiegare razionalmente fino all'ultima piega.
Ci sono aspetti, momenti, occasioni, in cui le spiegazioni non bastano, non costruiscono nulla: è il confine dell'incomprensione; quanto questo sia frutto della volontà e/o della "necessità" è spesso impossibile a dirsi.
Però, a mio parere, ci vuole in certi casi l'accettazione del senso del limite, la capacità di rinunciare a capire, fosse pure per il semplice motivo che l'altro ha delle paturnie che cozzano esattamente con le nostre, testa contro testa lì a darsi capocciate memorabili.
Non ho mai creduto molto a quelli che risolvono tutto, accettando o fingendo di accettare la soluzione più conveniente al momento.
Allo stesso modo non dò molto credito ai simpatici per partito preso, quelli sempre in accordo con tutti...diciamo che mi insospettiscono...
No, non sto facendo un'apologia della guerra interpersonale, solo sto cercando di riportare il tuo discorso entro i confini del "fine-rovello=raggiunto limite di tentativi esperiti".
Magari ti sembrerò una superficialona, ma credimi, mi fa soffrire vedere tanto sofferente arrovellarsi per qualcosa che sfugge alle possibilità del dialogo e delle spiegazioni, almeno ora, almeno qui: che poi, alla fine, puoi ridurla anche al semplice decidere che "non è il momento, lasciamo che scorra".
Un abbraccio, e scusa l'affettuosa critica.
@Tez: no, no, niente scuse per nessuna critica! a dire il vero mi ha fatto bene leggere le tue parole: soprattutto fine-rovello-raggiunto-limite-di-tentativi-esperiti. Me lo voglio appuntare sul frigorifero e speriamo che mi illumini.
RispondiEliminae hai tanta ragione che potresti aprire una bottega: bisogna saper rinunciare a capire, io debbo ancora impararlo, questo è davvero un mio grosso limite. In realtà non mi do pace. E poi Tez "l'eccesso di attenzione" possiamo anche tradurlo con "presunzione di venirne a capo". Non lo hai detto tu, lo dico io. Però è proprio come dici, mi ci arrovello e ci sto male.
grazie tez, sei grande, lo sai? marina
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RispondiEliminaMarina, a circa due terzi del post mi si e' intrecciato il cervello e mi sono persa.
RispondiEliminaTi posso solo dire che personalmente condivido in pieno questa tua affermazione: "Il conflitto infatti è roba pesante, che mal sopporto."
Quindi a me rimane piu' facile e piu' rilassante, nel caso che mi offendano, pensare ad un malinteso e non ad una malevola intenzione perche' incazzarmi mi costa fatica. Il rischio e' di passare sempre da bocca (=da fessa). Ma pazienza! Meglio vivere in pace, come scrive giustamente il giapponese qui sopra. ;-)
@Artemisia: ho riletto il tuo commento sul giapponese e sganascio! me lo ero perso!
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