Questa notte mi sono imbattuta in un aforisma di Emil Cioran, nella penultima pagina di “Confessioni e anatemi” edito da Adelphi. Del libro dirò poi qualche altra cosa, intanto la citazione: “Il francese: idioma ideale per tradurre delicatamente sentimenti equivoci.”Il che, detto da un così raffinato scrittore in lingua francese, è degno di nota. Ma a me ha colpito perché io ho avuto per molto tempo un pregiudizio negativo nei confronti del francese. Lo consideravo, grosso modo, come una lingua solo femminile, e in tal caso, molto bella, armoniosa, affascinante, ma punto maschile. Secondo me un uomo che parlava in francese perdeva il suo fascino maschile. Bizzarrie, vero. Arrivavo a chiedermi come gli uomini francesi potessero convincere le donne francesi ad aiutarli a riprodursi. Quando pensavo queste cosucce, il francese non lo conoscevo, o meglio lo conoscevo solo come suono in bocca altrui. Questo per dirvi di quali pregiudizi posso essere capace. Poi andai a vivere a Parigi e scoprii, non solo che il francese stava benissimo anche sulla bocca degli uomini, ma che poteva essere molto seduttivo. Il francese l’ho studiato alla Sorbona e questo periodo resta uno dei miei più bei ricordi di Parigi. Frequentare la Sorbona mi sembrava semplicemente un miracolo. Mi godevo tutto. La solennità, la storia, la bellezza di quel luogo. E lo stare a contatto con tutti quei giovani, mischiarmi a loro, con i miei 43 anni e lasciarmi ringiovanire dal loro spirito. Mangiavo nei loro caffè, leggevo nei loro cortili. Spulciavo le loro bacheche e, infine, chiacchieravo con loro. Il corso di Lingua Francese per stranieri che frequentavo era tenuto da un professore molto molto francese, nel senso meno piacevole del termine. Convinto di stare civilizzando un branco di sottosviluppati. Reazionario molto più che conservatore, razzista e naturalmente ipersciovinista. Ma non mi era antipatico. Tra di noi si stabilì fin dal principio un rapporto di odio-amore. E iniziò uno scambio, impari ma mai sopito, di battute al veleno. Se lui affermava che Caterina de’ Medici aveva portato in Francia l’uso di avvelenare gli avversari politici, io gli replicavo ipso facto che aveva portato anche le forchette in una Corte dove si mangiava con le mani. Se lui osservava che la periodizzazione Renaissance / Rinascimento non coincideva tra Italia e Francia e lo imputava ad un nostro arbitrio classificatorio, io gli replicavo che dipendeva solo dal fatto che noi, prima, avevamo avuto l’Umanesimo, noi, che poi, noi, avevamo passato a loro..
Un’altra bestia nera del Professore era la Greca. Una giovane, di bellezza statuaria, con solo un naso un po’ troppo greco (o meglio, un po’ troppo e basta) che lo aveva in vivissima antipatia. Si sentiva, giustamente, appartenente ad una cultura che non doveva abbassare il capo di fronte a nessun’altra. Era a sua volta un po’ razzista nei confronti dei numerosi ragazzi africani, e sud americani, ma molto simpatica per molti altri atteggiamenti.Era lei a portarci nei ristorantini greci del VI arrondissement e a farci bere allegramente. Era sempre lei a far girare nascostamente, durante la lezione, ritrattini improvvisati del professore in pose erotiche. Disegnava molto bene e anche la sua fantasia erotica era notevole. Avevamo costituito un asse cultura greca-latina e ci divertivamo a indispettire il professore.
La farò breve: eravamo una vera coppia di comici. Quanto al Professore, lui ed io avevamo all’incirca la stessa età e la stessa formazione. Ma simpatie culturali, politiche, storiche molto diverse. La polemica era sempre in agguato. Ciò nonostante ero la sua allieva migliore (bella forza, ero l’unica di lingua neolatina, la più matura, con tutto quello che comporta l’età, insegnante di lettere e, probabilmente, la più affamata di sapere). Non ci voleva molto.
Animato da un forte spirito competitivo, il Professore voleva che una sua allieva risultasse tra i tre premiati al termine dei corsi e mi informò che puntava su di me. Gli dissi che scommetteva sul cavallo sbagliato, essendo io una collaborativa e non una competitiva. Avevo l’abitudine di rispiegare a Olandesi, Tedeschi, Brasiliani e Greci (il gruppetto che frequentavo) le regole che lui buttava là con sufficienza, intervallate da osservazioni sulla superiore bellezza e logica della lingua francese. Lui trovava che questo non andava bene, perché ognuno doveva con le sue sole forze, procedere sulla via della civilizzazione da lui additata.
Un giorno scoprì che al corso di pronuncia, tenuto da altri insegnanti in un bellissimo e super attrezzato laboratorio linguistico, io ero l’ultima degli ultimi. Apriti cielo! Dovevo impegnarmi! Come potevo essere così scadente? Lo ero perché per la musica delle lingue sono negata. Non riesco a riprodurne i suoni. Credo che ci siano due fattori che entrano in gioco: uno semplicemente organico, una difficoltà del mio apparato uditivo e/o fonatorio e un secondo di ordine psicologico. Mi è semplicemente impossibile imitare qualcuno. Mi sento come se tradissi me stessa. Mi svilisce fare le smorfie altrui, scimmiottare i loro atteggiamenti facciali ecc. Lo so è ridicolo, infantile e molte altre cose negative, ma è più forte di me. Mi sentirei semplicemente ridicola ad atteggiare la mia faccia per il "bien sur" francese, come per il "the" inglese. Le lingue impongono, con i loro suoni, una mimica: io semplicemente tento di parlarle conservando la mia. Il risultato lo potete facilmente immaginare. Il Professore, protestava, mi incalzava continuamente, mi esortava, mi rompeva le balle. Quando si giunse agli esami, mettendo assieme i risultati delle prove di traduzione, composizione, dettato e, orrore! lettura, risultai quarta. Il poveretto era inconsolabile. Si sentiva tradito.
Comunque la cerimonia finale, nell’aula magna della Sorbona, in cui ognuno di noi sfilò sul palco a ritirare il suo diploma, la trovai splendida. Avrei passeggiato su quel palco tutta la mattina. Venivo dalla Sapienza di Roma, non so se mi spiego!Dove, se ti andava bene, dopo qualche anno e ripeto, dopo qualche anno, ti davano il diploma di laurea. E il bidello di Lettere, un uomo il cui favore poteva aprirti ogni porta, e che per quattro anni di fila ti aveva appellata cosi: Hei, tu! Dove vai?” appena uscita dall’auletta sporca dove ti eri laureata, veniva lì e ti diceva “auguri dottoressa”, tendendo la mano per le diecimila. C’era di che sputargli sui piedi e restituire la laurea. E invece là! Stretta di mano del rettore, tutti gli insegnanti schierati, e gli studenti nel loro eccitato chiacchiericcio. Me lo sono goduto quel corso di francese alla Sorbona. E come me la godo ancora la conoscenza del francese! Ed ora Cioran mi dice che “è l’idioma ideale per tradurre delicatamente sentimenti equivoci.”
Nel delicatamente c’è della verità. Eppure il francese è anche una spada affilatissima.
Se il mio Professore legge quest’aforisma, sai come gli girano! Tentò di uccidermi, il tizio. Il mio primo anno a Parigi, l’inverno fu furiosamente infame, anche per i parigini. Neve, neve e neve. Freddo come non se ne aveva da vent’anni. Mi sembrava di stare in Russia, ma non esisteva possibilità di ritirata. Passavo da un raffreddore potente ad uno megagalattico, completi di mal di testa, tosse e lacrimazione. Una mattina il Professore, premuroso, mi passò un suo medicinale. Un antistaminico, disse blandamente. Mezz’ora dopo non lacrimavo, il naso non mi colava, non avevo più saliva, ero più asciutta di un cactus del Nevada, ma la mia pressione era scesa in prossimità dello zero. Qualcosa del tipo: “La stiamo perdendo, la stiamo perdendo!” Mi sentivo precipitare lentamente nell’indistinto, le orecchie mi fischiavano e, soprattutto, non riuscivo a maledirlo! Questo parossistico desiderio di insultarlo, fu lui a tenermi in vita. Ma lo perdonai. Devo dire che il piccolo reazionario mi faceva tenerezza. Aveva uno di quei tagli di capelli che, da Ottaviano Augusto in poi, nessun uomo ha più portato, tranne appunto i reazionari francesi. La frangettina sulla fronte pallida, gli si scomponeva nell’irritazione. Gli occhi, mobilissimi, dardeggiavano disapprovazione e supponenza. Ma aveva una bellissima voce, che riusciva, quasi, a far dimenticare le camicie a grosse righe grige che indossava sotto giacchettine striminzite, completate da cravatte malinconicamente pendule e da un immancabile impermeabile troppo corto. Un pomeriggio lo incontrai in una pasticceria sulla Dominique. Sedeva solo davanti ad un caffè con un giornale e un libro accanto. Mi portai il mio millefoglie al suo tavolino, decisa ad infastidirlo un po’. Ma fu molto contento. Chiacchierammo un po’ e lui, ogni tanto, mi correggeva la pronuncia. Gli raccontai qualcosa della mia vita. I miei studi, i miei viaggi, i miei interessi, mia figlia. Di lui venni a sapere che viveva solo in un appartamento adiacente a quello della madre. Amava il cinema tedesco e la musica lirica. Buttai un’occhiata al libro sul tavolo: Le elegie duinesi di Rilke. Piacciono anche a me, ma aggiunsero tristezza alla sua immagine. Lo sentii molto solo. Non ricordo come venne fuori il nome di Rousseau, il colpevole di tutte le colpe, dalla rivoluzione Francese al Sessantotto. Lo chiamava, con dispetto misto a spregio, lo Svizzero. Ci incontrammo invece su Brassens, prima che gli infliggessi la definitiva delusione dichiarando di preferirgli, almeno per le musiche, Jaques Brel. Un belga, Mon Dieu! Veramente tentò di farlo passare per francese, secondo quella pratica oltremontana per cui tutte le glorie appena appena sfiorate dalla “francesitudine” diventano, ipso facto, francesi. Del resto, le testimonianze della presenza romana in Gallia, vengono dai francesi chiamate civiltà Gallo-romaine.
Per carità, Cesare fu pessimo, e il famoso bellum gallicum un vero massacro, ma è impensabile stabilire un rapporto di parità tra i livelli di sviluppo culturale di quei due popoli. I Francesi però, lo fanno, molto convinti. E mentre, quando a Roma arrivarono le notizie circa il numero di morti- uomini, donne, bambini, vecchi- causati dalla guerra gallica, in Senato si discusse di un possibile vituperio per Cesare,(allora!) qualsiasi tentativo di far presente ad un Francese che Napoleone non è proprio quell’eroe positivo che loro credono, provoca tre tipi di reazioni da parte dei Francesi: o si scandalizzano o si sorprendono o si incazzano. Il mio Professore era del tipo che si incazzava. Per questo era così divertente provocarlo. Ma quella sera non lo provocai ulteriormente e quando me ne venni via, lasciandolo solo al suo tavolo, quel Gallo triste, era diventato per me, tanto per cambiare, un nuovo affetto. C’est ça. Ma vorrei poter assicurare a Cioran che non si tratta di un sentimento equivoco.
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Un post bellissimo che trasuda di cultura, vita, amore, storia, ricordi e disincantata malinconia.
RispondiEliminaE forse, anche di un pizzico di nostalgia da serbare gelosamente in questi momenti.
Ciao Marina, bellissimo post... come al solito mi sono perso tra le righe del racconto, a metà mi ero completamente dimenticato della citazione iniziale. Anch'io ho avuto il tuo stesso pregiudizio per la lingua francese, di fatto ho smesso di studiarla all'università proprio perché mi sembrava troppo ridicola (probabilmente solo perché mi risultava troppo ostica ;-)).
RispondiEliminaUn abbraccio,
polle
Non ti nascondo che ,quando arrivo nel tuo blog e scorro velocemente e solo visivamente il tuo ultimo post, desisto ,constatandone la lunghezza, e passo oltre.
RispondiEliminaPoi ci torno, lo leggo e, alla fine, sono sempre entusiasta di averlo fatto.
Mia madre decise, in prima media, di scegliere per me la lingua francese. Trovava che fossi troppo "maschiaccio" e che questa avrebbe ingentilito il mio tratto.
Il risultato fu che, quando tutti i miei amici potevano cantare le canzoni dei Beatles ,di Bob Dylan and so on, io restavo lì come una cretina, non potendo cantare parole di cui non conoscevo il significato. Che rabbia!
A quarant'anni decisi che avrei imparato l'inglese e così fu.
Anche io mi sono mischiata ai fanciulli nei college di Cambridge ed è stata un'esperienza bellissima.
Oggi conosco l'inglese abbastanza bene e mi è stato utilissimo in campo professionale, ma la cosa che mi dà più piacere è cantare finalmente a squarciagola tutte le canzoni che non ho potuto cantare da ragazza.Con buona pace di chi mi è vicino, visto che non sono proprio intonatissima.
L'inglese è splendido: é la sintesi.
Il francese è musicale e molto seduttivo (Morticia della Famiglia Addams docet :) ).
L'italiano resta la mia lingua preferita.
P.S. Inizialmente mi sforzavo di imitare la dizione delle lingue straniere, mi riusciva facile farlo, ma, quando mi rilassavo, magari davanti ad un bicchiere di vino, usciva fuori tutta la mia italianità.
Fu proprio in una di queste occasioni, quando, scusandomi con il mio interlocutore per il pessimo accento, mi sentii rispondere "don't vorry, please, your English looks like Sophia Loren's....so amazing!"
Da allora non mi sforzo più tanto haahahahahahahahah......
Baci baci.......
ciao Polle e Daniele, grazie, siete un po' troppo generosi con me, ma apprezzo ;-))
RispondiEliminaCiao Anna, è interessante la storia dei tuoi rapporti con le lingue. Addirittura Sophia Loren, beh ci puoi stare!
Circa la lunghezza dei miei post hai ragione da vendere, devo correre ai ripari
ciaomarina
Vedi Marina, lo so che non vi offendete se non ho tempo di leggere i vostri post. Ma non e' questo il punto. Io fatto e' che post come questo sono cosi' belli che me li voglio leggere con calma non tra un'incombenza fastidiosa e l'altra. Questa e' la mia recriminazione!
RispondiEliminaComplimenti!