Mi hanno trovata - ho pensato.
Effettivamente si erano già interessati a me trent’anni fa’ a Teheran.
Quella volta, mentre prendevo il sole sul prato ne avevo intorno una decina, silenziosi, incuriositi e a mio parere minacciosi.
Di brivido in brivido ho rivisto l’obdostàk. L’obdostàk è una creatura in fondo innocua ma cui la natura non ha concesso il dono della grazia.
Ne feci la conoscenza il mio secondo giorno a Teheran. Mi fu presentato insieme al giardiniere, dal giardiniere stesso.
Prima ancora di poterne incontrare lo sguardo compresi che Hossein non mi sarebbe stato amico.
Quando Zarà, (che in quel momento era la cameriera trovata ad accogliermi ma che sarebbe diventata una vera amica), me lo presentò, Hossein mi dichiarò subito i suoi sentimenti spingendomi fra i piedi ridacchiando un insetto mostruoso quanto versatile. –Piacere, Obdostàk- Molto lieta, Marina-
In pratica si tratta di un grosso scarafaggio color della terra, grande due volte i già ragguardevoli scarafaggi romani, capace sia di nuotare sotto l’acqua, che di volare e a grande velocità, con uno stridio metallico.
L’obdostak scava la sua tana nella terra umida e lì se ne sta tranquillo e in fondo inoffensivo. Ma, se nell’annaffiare la terra si distrugge involontariamente la sua casa, se ne risente e balzato in superficie si avventa nell’aria alla cieca.
L’incontro con l’obdostàk era ogni volta emozionante.
All’obdostàk non ci si abituava.
Quella prima volta io ritrassi appena il piede e mantenni il sorriso che avevo sulle labbra. Ero riuscita a non gridare solo perché avevo capito d’istinto che si trattava di una sfida e che con quel gesto quell’uomo mi comunicava tutto il suo derisorio disprezzo.
Lo sforzo che feci per non gridare, mentre mi sporgevo a stringere la sua mano ossuta deformata dall’artrite, non mi valse la sua stima, ma fu messo da subito in chiaro che se lui non rispettava me io non temevo lui e su questa base iniziammo e mantenemmo i nostri rapporti.
Hossein il sospettoso era il plenipotenziario del padrone di casa, un ricchissimo Bachtiari, la più potente tribù dell’altopiano iranico.
Si occupava sì del giardino ma soprattutto vegliava sulla proprietà del vecchio Bachtiar in cui ci considerava intrusi.
Quando il mio cane Buck, che avevamo portato con noi da Roma, morì, fu necessario eludere la sorveglianza di Hossein per poterlo seppellire nel giardino dietro la casa. Infatti un cane per gli iraniani è negess, impuro e il vecchio Bachtiar non ci avrebbe mai consentito di seppellirlo nella sua proprietà.
Così alternandoci alla zappa, mio marito, Zarà ed io scavammo nella notte una grande buca, (il mio Buck era un grosso pastore tedesco) che ricoprimmo poi di decine e decine di piante di menta. La mattina dopo Hossein si aggirava per il giardino, sospettoso e guardingo. Era attirato soprattutto dalla zona con le piantine di menta.
Si avvicinò alla pompa dell’acqua con l’intento evidente di verificare fino in fondo la natura della nuova piantagione.
Gli presi la pompa di mano e per distoglierlo dai suoi sospetti presi ad annaffiarla davanti a lui. Gli obdostàk che durante la notte vi avevano trovato comoda tana volavano intorno a me stridendo.
Se uno di loro avesse deciso di posarmisi sulla testa non lo avrei neanche visto: ero un impasto di determinazione, rabbia e dolore. Hossein rinculò sconfitto.
Ancora oggi, dopo trent’anni, sul mio terrazzo c’è un intenso odore di menta iraniana, pianta invincibile. Non potendo riportare Buck a casa portai con me un vaso con una pianta di menta presa dal suo luogo di sepoltura. Ho regalato menta iraniana figlia di quella pianta a decine di amici. Il mio cane Buck è un vero vagabondo.
Ho letto queste tue pagine sull'Iran che ho trovato bellissime. Complimenti Marina... Ti tornerò a leggere. Ciao Giulia
RispondiEliminaciao giulia, mentre tu scopri me io scopro te: ed è una bella scoperta.
RispondiEliminaciaomarina