giovedì 17 maggio 2007

randagi

Per quasi dieci anni nella mia strada un uomo è vissuto dentro la sua auto. Era un’alfa ed era tutto quello che gli era rimasto.
I primi tempi l’uomo era un uomo come un altro, assolutamente normale, semplicemente non aveva una casa.
Aveva bisogno di parlare. Raccontava a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo il paradosso della sua situazione, ridotto a vivere in macchina perché un divorzio particolarmente crudele gli aveva portato via tutto: la casa, la liquidazione e metà della pensione da insegnante.
Ma parlava anche delle cose del mondo, commentava i fatti politici, la cronaca, era colto, intelligente. Era pulito, ordinato, informato. Una volta voleva addirittura offrirmi un caffè.
Si lavava nei bagni dei bar, e consumava panini e cappuccini nella macchina.
Oscurava i vetri della sua auto con dei giornali e durante il giorno andava in giro nel quartiere. Cercò un lavoro per molto tempo, poi rinunciò rendendosi conto dell’inutilità dei suoi sforzi. La gente lo trattava con rispetto, il vigile di zona chiacchierava con lui e il magistrato della palazzina accanto alla mia aveva sempre nuovi suggerimenti da dargli per uscire dalla sua situazione. Ma quando veniva l’inverno eravamo diversi a cercare di non passargli davanti.

La macchina divenne sempre più sporca, sempre più colma di piatti e bicchieri di plastica, di vecchi giornali e indumenti che un po’ tutti nel quartiere cominciarono a portargli. Qualcuno meno tollerante o solo più malvagio cominciò a rompergli i vetri della vettura, sperando che il freddo lo costringesse ad andarsene. Il mio carrozziere glieli sostituiva gratis. Poi gli ruppero le quattro gomme. La macchina si afflosciò e anche lui finì di afflosciarsi. Ormai non aspettava più che qualcuno lo salutasse o gli passasse vicino per parlare, parlava da solo, facendo su e giù sul marciapiede. Cominciò ad apparire sporco, trasandato, spettinato ma soprattutto i suoi occhi cambiarono definitivamente. Erano sempre spalancati, come in allarme, e lanciava sguardi allucinati su chiunque si avvicinasse.
Io mi imponevo di salutarlo ancora, era un mio collega no?, ma ormai emanava un odore terribile e si muoveva a scatti. Io pensavo: è così che un uomo diventa pazzo.
L’incuria, ma soprattutto la solitudine, credo, lo stava facendo impazzire.
I servizi sociali avevano altre priorità, altre situazioni disperate di gente cui dare una sistemazione e poi lui si rifiutava di spostarsi dalla sua vettura.
Non c’è stato un giorno in cui quell’uomo è diventato barbone, è stato uno scivolare lento sotto gli occhi di tutti noi.

Cominciò ad andare in giro con una grossa busta di plastica, in cui metteva quello che riusciva a raccogliere nei sui giri nella città. Non voleva andare alla Caritas a pochi passi da lì, né per dormire né per mangiare.Cominciò a raccogliere avanzi nei ristoranti e pizzerie della zona, e mangiava in macchina. Non la teneva più pulita, tutto si accumulava, ormai i vetri erano talmente sporchi che l’interno non si vedeva più.
Ci furono inverni rigidi, ma lui sopravviveva. Però diventava sempre più magro.
Smise di radersi e lavarsi.
Ogni tanto qualcuno chiamava i vigili o i servizi sociali.
Lui sbraitava. Si rifiutava di farsi portare altrove. Resisteva lì non so perché.
Il vigile che una volta chiacchierava con lui se ne teneva a distanza: era un modo di continuare a proteggerlo, di non intervenire come avrebbe dovuto fare contro di lui.
Ma la sua auto era parcheggiata di fronte ad una scuola elementare e le madri dei bambini cominciarono a lamentarsi del cattivo odore, del suo blaterare.
Dicevano che i bambini ne avevano paura anche se lui nemmeno li vedeva.
Non si rivolgeva a nessuno, parlava solo a se stesso o a interlocutori dell’altra sua vita, quella in cui era uno come tutti noi. Perorava la sua causa, protestava, malediceva.
I più vecchi del quartiere, quelli che lo avevano conosciuto all’inizio della sua avventura, tentarono di difenderlo, si raccolsero dei soldi, dei giovani gli procuravano vestiti e coperte, altri gli portavano del cibo.
Lui ormai non guardava più nessuno e non voleva essere guardato.
Smisi di salutarlo, poi anche di passargli davanti.


Quando ne parlavamo nei negozi ci vergognavamo: assistevamo da anni allo sfacelo di un uomo e non eravamo capaci di fare qualcosa per lui. Lui rifiutava semplicemente di allontanarsi, e dopo qualche tentativo di trovargli una sistemazione era stato dimenticato lì.
Troppo egoisti tutti: in realtà ognuno di noi sapeva quello che andava fatto.
Non chiedere per lui, ma fare direttamente, in prima persona. Nessuno di noi lo ha fatto.
Io penso anche che una società organizzata non dovrebbe proporre questo tipo di dilemma a nessuno.

Poi un giorno una troupe cinematografica si è installata nella strada. Il mio quartiere è diventato di moda, ci girano almeno due o tre film all’anno.
I cineasti si comportano come padroni, delimitano strade e marciapiedi con nastri colorati, accendono luci incredibilmente potenti, parcheggiano i loro camion di servizio con tutte le loro attrezzature lungo le vie. Bloccano i passanti per non farsi alterare il set mentre si preparano a girare.
Quella volta era estate. -Ricomincia questo strazio –pensai.
Solo la mattina dopo mi accorsi che la macchina del professore non c’era più.
Il marciapiede era pulito, e la costumista sistemava il suo trespolo con tutti gli abiti di scena proprio al suo posto.
Non so come avessero fatto, ma erano riusciti a sloggiarlo di lì.
Era accaduto che la finzione si era dimostrata più potente della realtà.
Cercammo di farci dire dai servizi sociali che fine avesse fatto, ma nessuno sapeva dirci niente. Lo dimenticammo.

Questa storia non l’ho raccontata per sgravarmi la coscienza di uno dei suoi pesi, non so bene neanche io perché l’ho raccontata, ma è vera.

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