E’ moderatamente emozionata. Lo sposo anche. Sono belli, eleganti e allegri. Noi coristi no.
Chi in pompa magna, chi piùcasualdicosìnonsipuò, chi in sandali, chi in Clark, chi in scollato nero osé, chi in jeans, chi in cravatta rosa. Le cravatte rosa secondo me andrebbero vietate per legge. Il nostro maestro è semplicemente splendido.
La bellissima testa da uccello, il capo perfettamente calvo, la figura elegantissima.
Ce lo contendiamo. Lui si schernisce.
Il dilemma della giornata è stato: piove? non piove? farà freddo? farà caldo? Ogni tanto qualcuno mi telefona: che ti metti?
Li depisto: -in lungo. -In lungo? -Sì, molto molto lungo-Non mi crede nessuno. -Allora che ti metti?-
Siamo un’accozzaglia di stili, ma cantiamo divinamente. È l’entusiasmo di cantare ad un matrimonio invece che ad un funerale, dei pezzi d’amore invece che dei requiem, un ritmo brasilero invece di una fuga di Mozart. Non fraintendetemi noi adoriamo le fughe di Mozart, ma volete metterle con “amar è um deserto e seus temores...
Tanto che la sposa appena sbrigata la faccenda viene a cantare con noi. Lo sposo la segue a ruota.
Sposarsi a cinquant’anni. Incomparabilmente più sciolto.
Una collega di sezione corale, che assiste al suo primo matrimonio civile, mi avvisa: --ho gli occhiali scuri perché ai matrimoni piango sempre. Non meravigliarti.-
Io non piango. Sono molto più sadica: io rido.
In un quarto d’ora siamo entrati ed usciti. Gli ultimi brani li cantiamo sul prato in un’atmosfera goliardica.
Mentre riaccompagno la corista sentimentale alla Metro, commentiamo la cerimonia. Le sfugge dal cuore un sospiro di delusione: -non ho fatto neanche in tempo a piangere-.
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