sabato 2 giugno 2007

agente di viaggio/bei ricordi

Dopo averne fatti tanti insieme, in tante parti del mondo, quel viaggio a Cuba è l’ultimo che ho fatto con B. Viviamo nella stessa città ma non ci siamo mai più incontrate. Sono passati talmente tanti anni che mi sembra addirittura di rimpiangerla B.
Sicuramente la rimpiango quando ricordo le nostre avventure cubane. O meglio, rimpiango di non poterle dire- ti ricordi? -e ridere con lei.


Quello che vorrei ricordarle è la sera dell’invasione americana di Cuba. Non la Baia dei porci, del 1961, no, uno sbarco all’Havana.Vi sfugge? Non sapevate che nei primi anni ottanta gli U.S.A. invasero Cuba?
Non mi sorprende.

Era la nostra ultima sera all’Havana. La passammo con quello che continuerò per sempre a chiamare “il cantautore di stato”. Si chiamava José ma tutti lo chiamavano Pepe. Suonava la chitarra e cantava nella casa de trova, ricevendo dallo stato una piccola mensilità.
Sembrava così naturale a Cuba che lo stato si preoccupasse di pagare qualcuno perché scrivesse canzoni e le cantasse accompagnandosi con la chitarra.
A me parve un’idea semplicemente geniale. Di più, un principio di civiltà.
Questo pur tenendo conto di tutto quello che di Cuba proprio non ci andava giù.
Comunque Pepe suonava la chitarra come Segovia, ma era molto più bello.
Mi lasciò provare la sua chitarra e mi insegnò le sue canzoni. Una molto bella parlava di un’ombra su un muro. Non ne ricordo più la musica e solo un verso del testo “ porque tu es como una sombra en la pared” ma ricordo la sua malinconia. Ogni tanto qualche amico gli si rivolgeva protettivo: “Que pasa, Pepe?”.
Sono molto sensibile alla malinconia. Ero indecisa se rientrare in patria come programmato o fermarmi per venire a capo della malinconia di Pepe, ma l’ora tarda decise per me. Rientrammo in albergo.
Dormivo da poco quando fui improvvisamente svegliata da scoppi assordanti e sirene.
Mi precipitai sul balcone. Il cielo dell’Havana era illuminato a giorno da tracce di proiettili, il fumo lo invadeva, scoppi fragorosi provenivano da tutte le direzioni. Altoparlanti gridavano frasi incomprensibili.
Semplicemente restai inebetita. C’era una sola cosa da pensare. Cuba era attaccata. E c’era un solo possibile attaccante. Gli Americani. Ergo, gli Americani avevano scelto come data del loro attacco a Cuba l’ultima notte del mio soggiorno lì.
Non ebbi paura di beccarmi qualche proiettile, ma sì di restare bloccata là per chissà quanto tempo, di non poter comunicare con mia figlia, di non poterla rassicurare sul mio stato.
Intanto l’albergo era tutto un gridare e precipitarsi nei corridoi e B. bussava freneticamente alla porta della mia stanza.
Le aprii. Se il mio aspetto era come il suo dovevo essere in uno stato pietoso.
Mentre mi infilavo i jeans pensavo che forse ancora si riusciva a fare una telefonata, e che dovevo arrivare prima di ogni altro ospite giù al centralino.
B. mi chiamava dal balcone, perché andassi a vedere. Mi affacciai rapidamente e intanto mi infilavo una maglietta. Dal mare partivano tracce luminose verso il cielo e dal cielo si riversavano in mare altri proiettili. Il fumo aveva mille colori e un odore acre riempiva l’aria.
Dai piani bassi dell’hotel venivano voci concitate. Abbassai lo sguardo e allora vidi la piscina illuminata dagli spari e accanto alla piscina un uomo, con un lungo bastone in mano. Pigramente raccoglieva con una rete dalla superficie dell’acqua le foglie di magnolia che vi erano cadute. Lavorava con calma e apriva nell’acqua luminosa grandi cerchi e piccoli mulinelli.
Intorno a lui la battaglia infuriava e lui raccoglieva foglie secche. Era possibile?
L’America, era lì, in forze e lui raccoglieva foglie secche?
Il mio sguardo era catturato da quella scena inspiegabile. Forse l’uomo lo sentì o forse semplicemente si permise un piccolo sguardo distratto in su.
Guardò tutti noi, affacciati ai balconi che guardavamo la battaglia aeronavale di Cuba e ci fece un saluto amichevole con il braccio sinistro, continuando a setacciare l’acqua col destro.
Insieme e di botto B. ed io comprendemmo: esercitazione!
E-ser-ci-ta-zio-ne! Una di quelle miriadi di esercitazioni che Cuba sempre faceva per prepararsi all’attacco americano. Tutti all’Havana lo sapevano, ma noi non eravamo stati avvertiti.
Io ridevo, ridevo, B. turpiloquiava. Poi ridevamo e turpiloquiavamo in due.
Intanto nell’albergo piano piano tornava la calma. Ognuno rientrava nella sua stanza.
Noi restammo sul balcone fino alla fine della guerra. Durò quasi due ore. Vinse il bagnino.

2 commenti:

  1. sì. il regime vive con l'incubo, nn del tutto ingiustificato, d uno sbarco Usa.
    cmq a Cuba nn c sn mai stata, ma amici mi dicono sia bellissima.
    Un salutissimo
    Luana Modini

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  2. ciao Luana, hai ragione naturalmente sul rischio sbarco.
    Di allora ricordo anche dei camion militari parcheggiati nelle piazze dei paesi, con dei bersagli sopra e donne in fila che si esercitavano a sparare.
    ciaomarina

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