Il ragazzo mirò alla femmina più piccola e sparò. Il baio di Blevins, pur legato, s'impennò con un nitrito e i cervi fuggirono come il vento svanendo nell'oscurità. La cerbiatta colpita restò a terra a scalciare. Lui la raggiunse nell'erba insanguinata, s'inginocchiò appoggiandosi al fucile e le mise una mano sul collo. La bestia lo guardò senza paura, con gli occhi caldi e umidi, e morì.
Lui si sedette e la guardò a lungo. Pensò al capitano, chiedendosi se era vivo, pensò a Blevins, pensò ad Alejandra e ricordò la prima volta che l'aveva vista passare di sera sulla strada della cienaga col cavallo bagnato appena uscito dal lago. E ricordò gli uccelli, il bestiame al pascolo e i cavalli selvaggi sulla mesa. Il cielo era scuro e tirava un vento freddo. Nella luce morente del giorno, un'ombra viola e fredda aveva trasformato gli occhi della cerbiatta in una delle tante cose tra le quali l'animale giaceva. Erba e sangue. Sangue e pietre. Pietre macchiate dalle prime gocce di pioggia. Ricordò Alejandra e la prima volta che aveva visto le sue spalle curve per la tristezza, una tristezza che aveva creduto di capire ma di cui non aveva capito nulla, e si sentì solo come non gli era più capitato da quand'era bambino, totalmente estraneo al mondo che pure continuava ad amare. Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore.
Il mattino dopo il cielo era sereno...." Cormac McCarty: Cavalli selvaggi- Einaudi 1996
Questa estate ho visto un piccolo topo di campagna morto su un sentiero, forse avvelenato, forse crepato di malattia, o di dolore o di vecchiaia.
E' stato un incontro strano. Se lo avessi incontrato vivo nella mia casa (dove durante l'inverno tentano di entrare rosicchiando pazientemente le persiane di legno) ne avrei avuto paura, penso che avrei fatto un salto e lanciato un grido.
Ma nella morte aveva perso tutta la sua spaventosa terribilità; non perché era immobile e dunque non poteva sfrecciarmi tra i piedi gettandomi in allarme; ma perché ne scoprivo l'aspetto di creatura. Perdeva tutto l'alone minaccioso con cui circondiamo ciò che non conosciamo. Nella sua morte presentivo la mia. E nella mia, il cui giorno è ormai più vicino di quello della mia nascita, riconoscevo la sua. Eravamo la stessa cosa. Lui con la sua, io con la mia coscienza. Io credo che in ogni morte noi sentiamo la nostra anche se ci affanniamo a distoglierne gli occhi o a negare che ciò ci riguardi. Ma un topo morto ci dice che nelle due morti non c'è differenza. Ci dice qualche cosa del mondo che dimentichiamo continuamente e continuamente e sempre e sempre. Che il mondo è una cosa sola, che tutte le gerarchie che ci siamo inventati sono arbitrarie e ridicole; sono solo steccati tra noi e la nostra paura di essere al mondo, tra noi e la nostra spaventosa solitudine. Inventiamo gli Dei per sentirci un po' Dei anche noi ed esorcizzare la semplice e terribile verità che siamo solo un piccolo pezzo della realtà, con lo stesso identico destino: appannarci e morire.
Possiamo uccidere una cerbiatta, perché abbiamo un fucile e abbiamo fame. Possiamo mettere sacchetti di veleno per topi intorno alle finestre per non farci mangiare i divani e le coperte e imbrattare i letti. O per non doverne incontrare uno sulle scale di casa.
Ma il piccolo topo morto lo incontreremo comunque: e saremo noi.
La bellezza del mondo intanto esiste. E resiste. Solo che ne ignoriamo, ne vogliamo ignorare, tentiamo continuamente di ignorarne il prezzo.
Siamo anche noi parte di questa bellezza, anche noi arricchiamo il mondo e insieme gli diamo dolore. Ognuno di noi può essere la cerbiatta che annusa l'aria nel crepuscolo freddo ma ognuno di noi è anche il colpo di fucile che l'atterra morente. E ognuno di noi è ancora la cerbiatta che volge un ultimo sguardo davanti a sé e muore.
Scusate.
questo brano oltre che bello, è più di una inezia essenziale. trabocca di tutta l'ansia e l'angoscia che pesa su di noi poveri esseri umani, colpevoli di essere gli unici, su questa terra, ad avere la lucida consapevolezza di dover morire... ognuno di noi fa quello che può per sopportare questa infinita contraddizione, fino ad arrivare a far finta che la morte non esiste.
RispondiEliminasono felicemente non credente, e pur "invidiando",qualche volta, l'uso della preghiera, mi piace pensare di voler morire in modo vitale. s.
P.S. mi è venuto mal di testa e ho bisogno di un triplo caffè!
La nostra "inezia" ci fa pensare cose strabilianti. Che sarà mai?
RispondiEliminaLa trasformazione, che è l'essenza della vita, richiede l'accettazione di mille piccole morti quotidiane dentro e fuori di noi. Queste morti rendono possibile la nascita di altrettante cose nuove. Accettare che questo accada come cosa che in parte non dipende da noi permette di dare un senso alla vita e anche alla nostra morte finale. Che poi ci sia da soffrire è fuori dubbio, l'importante è che si soffra per qualcosa che ti fa sentire vivo.
RispondiEliminaCon questo post hai raggiunto un livello di profondità tale da scandagliare il fondo del mare.
Giorgio.
Mater dolorosa.
RispondiEliminaMater materia.
Made in the World.
Made in.
Dicono che. Il desiderio di non morire, il desiderio che nessuno di quelli che amiamo si allontani da noi o tremendamente muoia, il desiderio di non invecchiare, il desiderio di non ammalare mai. Questi, i desideri irrealizzabili, che verranno delusi, inevitabili e inevitabilmente delusi, sono causa di un risentimento nel quale ci perdiamo, direttamente o in qualcuno degli infiniti modi di evitarlo.
Non è così.
C'è del vero, sì.
Ma non è così, non è questo il problema della vita.
Ciò che ci mette davanti all'invivibile, ciò che ci costringe alla ricerca interna per cui forse ce la caviamo trovando una soluzione e forse no, è la violenza.
Non è la morte in sé il problema. Il topo morto alla fine di una lunga vita, ci fa pena, sì, ci mette davanti ad un destino comune, ma se fossimo certi che è morto di vecchiaia dopo una lunga vita, sarebbe comunque difficile, ma il vero difficile - impossibile?, invivibile? - viene da altro.
Tirando sassi con le mani nude e con la fionda, sparando punte di metallo sott'acqua e piombo nell'aria, adescando pesci con ami acuminati, ho ucciso piccoli animali, sufficientemente grandi da avere uno sguardo. Non l'ho fatto per fame, anche se i pesci poi li mangiavo, e giovane squattrinato com'ero mi sfamavano. Sono passati tanti anni, ma ricordo, conosco lo sguardo dell'animale ferito che ti guarda morendo. E' morto così, il cacciatore - resta il tocco, il passaggio, l'investitura, il segreto.
in fondo dici scusate,
RispondiEliminascusarti di che? dell'argomento, dell'intensità, della morte compagna della vita ed incubo incombente?
scusa ma perché "scusate"
m'è sfuggito il punto di domanda,
RispondiEliminae dirti anche che la lettura del tuo post mi ha evocato una delle scene più belle di un film che dire bello è limitante: dead man di jarmush che confesserò coram populo è uno dei miei film preferiti in assoluto (forse "il" film)
(cerbiatta-occhi-morte-vita-viaggio-della-vita-verso-la morte)
ti scusi della profondità?
RispondiEliminati scusi della poesia?
da quando in qua, Marina mia, ci si scusa di queste cose?
Questo tuo post è come una lama e taglia davvero sottile, come solo le lame migliori sanno fare: parti da una constatazione emotiva e visiva e viaggi nel senso di ogni cosa esistente...che altro chiedere?
Tante volte mi è capitato di riflettere sull'assurdo senso di assolutezza che governa la vita, i gesti e i sentimenti di molte persone, producendo danno e dolore, per loro e per chi sta loro vicino: ecco, tu hai relativizzato tutto quello che c'è da relativizzare e hai reso assoluta solo la Pietas che prima d'ogni altra cosa è compartecipazione, comunanza, vicinanza sentimentale...forse questo è l'unico senso che riuscirei a dare alla parola "Dio".
...Ecco, Marina, vedi, non ci si può scusare parlando dell'Assoluto, mi capisci?
Un bacio e un grazie, questi sì Assoluti
Tereza
a tutti vo: qualche volta penso che le mie riflessioni non aiutino ad affrontare un nuovo giorno e addirittura lo appesantiscano.Di questo mi scuso. Però io scrivo quello che sento e non riesco a fare altrimenti. marina, grata a tutti voi
RispondiEliminaPR MARINA: Parole immense!
RispondiEliminaLe tue riflessioni devono farci meditare, emozionare, capire. Possono non essere il viatico per fare un sorriso ad inizio giornata ma possono però esserlo invece per crescere ancora dentro di noi.
Ed é questo che credo tutti noi che ti leggiamo ci aspettiamo da te.
Ti abbraccio forte
Daniele
A parte gli altri aspetti, il tuo post è un post profondamente politico. E' Berlusconi e quelli come lui che non vogliono che si parli di morte e depressione, e allora giù veline, cosce e tette in tv e di qui il rincoglionimento generale dietro a un ideale irreale di continua leggerezza, felicità, progresso, ecc.
RispondiEliminaNon credevo fosse possibile leggere una Marina ancora più profonda e umana di quella profondissima e umanissima che ho letto finora con immenso piacere. Di questo ti ringrazio con tutto il cuore, il mio, che è compatibile (cum-patìre) col tuo.
Mi sono spiegato?
Non ti devi affatto scusare per questa bella riflessione. Ci appesantisce la giornata? Sempre meglio la consapevolezza e anche l'umiltà di sapere che siamo una briciolina, anzi, un'inezia, che la vuota e superficiale spensieratezza.
RispondiEliminaUn po' come quei frati che si salutano dicendosi: "Fratello ricordati che devi morire!"
Dopo aver letto questo post, ho comprato il libro. Anzi, l'intera trilogia. Grazie per avermela fatta scoprire.
RispondiEliminaV