Ted Hughes-
da: Lettere di compleanno, la raccolta di poesie in cui il poeta racconta, dopo trenta anni, la storia del suo amore e del suo matrimonio con Sylvia Plath.
Il tappeto di treccia
Ne avevi ammirato uno fatto da non so chi.
E cominciasti a fare il tuo tappeto di treccia.
Avevi bisogno di quel lavoro. Abusata dai fulmini,
avevi bisogno di una terra. Forse. Oppure bisognodi estrarre qualcosa da dentro di te-
un qualche verme solitario della psiche. Quanto a me,
ero felice di guardare l'audacia delle tue forbici
mentre tagliavi a strisce i tuoi vecchi vestiti di lana,
gli abiti smessi, un tempo tanto costosi,
facendone bende. Scuro sangue venoso,
giallo narciso. Le intrecciasti
in una corda. Le massaggiasti
e prese vita una vipera multicolore
che sgusciò fuori dalla tomba
del tuo armadio. Come la fasciatura sepolta
di antichi non-io mummie. Ti chinavi
come un vasaio
sul perno del tuo sgargiante tappeto di treccia
che allargava la ruota,
scoprendo il perimetro di una musica-
le lingue dei capi liberi guizzavano nell'aria,
sgorgando come una fuga dalle volute
dei tuoi polpastrelli. Ti calmava
creare il serpente che si avvolgeva in spire
diventando tappeto. E il tappeto,
girando e rigirando su se stesso, ci portava via
da quella stanza cremisi dei nostri giorni cardiaci.
Mi liberava. Ti liberava
per fare qualcosa che sembrava quasi nulla.
..............
Più tardi (non molto)
il tuo diario confidò a chiunque
di quali furie insanguinasti quel tappeto.
Quasi te lo fossi estratto a forza, come viscere,
dall'ombelico...."
Sono ammirevoli i lavori femminili. Sono fantastici, ricchi, esorbitanti di vita. Sono bellissimi, preziosi, delicati, sapienti. E insanguinati. Tutti.
Dalle mani delle donne escono capolavori che incanteranno il mondo intorno a loro.
Ma il mondo non lo chiamerà lavoro intellettuale.
Eppure lo è.
Ogni donna, io credo -anche se non ne ha mai fatto uno- ha fatto uscire dalle sue mani un "tappeto di treccia". Comunque si chiamasse e qualunque aspetto prendesse.
Lavori a maglia, crochet, tappeti, ricami, trine, maglioni morbidi, golfini setosi, tende sontuose,
coperte iridate e le presine, le piccole, modeste presine, ridicole nel loro spasimo di vita.
Dove va la mente di una donna quando conta i punti, quando sceglie una matassa, quando accosta due colori? Quando guasta? Quando torna con tenacia, le labbra strette, sulla stessa maglia caduta? Quando è china, forbici tra le mani, sulla pezza che scivola dal tavolo?
Quanta filosofia, poesia, scienza fluisce da quelle mani sotto forma di un tappeto di treccia?
Quanti continenti non sono stati esplorati perché alzasse contro la finestra quella tenda filet?
Quanti romanzi, quanti dipinti non hanno mai visto la luce?
Dunque tutte Newton, tutte Flaubert, tutte Matisse? tutte Kant, tutte Bach, tutte Churchill? O solo il trenta per cento? o il venti? o il cinque? o lo zero virgola uno?
Ha importanza? Questa aritmetica è offensiva e violenta. E priva di ogni significato.
Dove c'è desiderio là dev'esserci spazio e tempo. Dove c'è energia là non può esserci costrizione, impedimento.
Dove c'è bisogno là dev'esserci semplice possibilità.
Semplice possibilità. Non piango su capolavori inespressi ma su semplici schegge di creatività, ognuna degna del suo piccolo spazio di tempo, della sua piccola occasione.
Mia madre -le sue mani- hanno espresso in tutta la sua vita una creatività, un bisogno di uscire da se stessa e dai confini della sua vita, che tengo sempre a mente -sempre- quando misuro, senza indulgenze, l'urto di quella donna inespressa ma ricchissima di sostanza su di me, su sua figlia. Chi era veramente mia madre? Per essere chi, che cosa, era nata mia madre? Non medica, ma porta chiarezza questo pensiero. E giustizia. Non assolve, ma dà ragione. Molto spesso trovare la ragione scioglie nodi tormentosi, mordenti, devastanti. O anche no, non scioglie niente ma spiega la nostra storia e restituisce ordine e comprensibilità al mondo. Come sempre accade -non fatevi ingannare da linguaggi fantasiosi e aggrovigliati- quando la nostra mente razionale trova un filo e una consequenzialità. Il semplice buon rapporto tra causa ed effetto, la sana, modesta e dignitosa ricostruzione storica. Che può spingersi molto lontano nel tempo -generazioni di donne- e nello spazio -la società.
Senza mai perdere di vista la nostra essenza più misteriosa, organismo e anima, spirito e neuroni.
Qualche volta guardare i "tappeti di treccia" di nostra madre -la loro straordinaria ricchezza, bellezza, varietà- ci dice di noi, della nostra vita, molto più che lunghe sedute di autocoscienza, davanti allo specchio dei nostri malesseri.
Io penso che tutte le "opre femminili" andrebbero bruciate -un grande falò con le fiamme fino al cielo e incandescenze a raggio per miglia e miglia. Ad ogni latitudine dovrebbero vederlo.
E poi, solo poi, andrebbero rifatte. Dopo. In un giorno diverso, quando potranno non essere più "qualche verme solitario della psiche", né i "lavori dell'ergastolano" come ho sentito un uomo chiamarle.
Quando le donne vi torneranno dopo aver esplorato le loro semplici possibilità.
Quando non vi si riverserà più un sangue denso come quello di san Gennaro ma un libero, fresco sangue di vita, la linfa di una scelta felice.
Allora le donne potranno tornare a fare quel "qualcosa che sembra quasi nulla".
Mia madre, in attesa di marina, lavora a maglia.