martedì 30 settembre 2008

cicli

Non vogliatemi bene:
La tenerezza ci fa male
Il cuore si sbuccia.
Non dite parole gentili:
Si crinano gli argini.
Noi camminiamo sull’orlo
E chi
“la destra soccorrevole ci porge”
Ci sfila l’orgoglio
Bastone sottile
cui appoggiamo la nostra vita.


(2005)

lunedì 29 settembre 2008

autocensura

Ho sempre fatto parte di una minoranza politica, di quel trenta per cento circa che si chiamava comunisti. Ero all'opposizione. Spesso all'opposizione dell'opposizione. Anno dopo anno, elezione dopo elezione niente si spostava. Ma nel mio paese io mi sentivo a casa. E non ho mai perso la speranza, anzi, la fiducia che la società si sarebbe mossa, che gli indifferenti avrebbero cessato di esserlo, che i ciechi avrebbero aperto gli occhi, che il mio paese avrebbe compiuto il suo cammino e mia figlia avrebbe conosciuto una società più giusta e più libera. Si trattava solo di lottare, assieme alle altre e agli altri, lottare e avere pazienza. E non smettere mai di avere fiducia.

Sono ancora in minoranza, all'incirca quel trenta per cento. C'è chi si chiama ancora comunista, chi si definisce democratico, chi semplicemente di sinistra. Non è questo che mi spaventa. Non sono una nominalista. Mi spaventa il fatto che nel mio paese io non mi senta più a casa mia. Non vado tra gli altri -strade, piazze, negozi, mercati, autobus- pensando, come una volta: Vi sveglierete. Lo so. Vi aspetto. Vi sto aspettando. Ho fiducia che capirete. So che cambieremo questo paese.
Perché malgrado le rabbie e le impazienze dell'età e le ubriacature degli slogan e malgrado la terribile violenza che serpeggiava intorno a me, ho sempre sentito amicizia per il mio popolo.
Ora non più. Guardo con un senso di estraneità e insieme di sospetto la gente che incontro per strada. Ad ognuno di loro, invece che i miei educati "buongiorno" vorrei dire: Guarda, brutto s.....o, dove ci hai portato! Guarda, dove hai portato il mio paese! Sei un lurido, schifoso, spregevole pezzo di m...a!

Perché? Mi chiedo perché ho questa reazione forsennata dentro di me. E ho paura che sia perché siamo andati troppo al di là e non c'è riparo per almeno un paio di generazioni.
Mi scopro a guardare i giovani. Li soppeso con lo sguardo. Vorrei penetrare nelle loro teste. Cerco nei loro gesti, nel loro abbigliamento, nelle frasi che rubo passando, un segnale, un accenno, qualche cosa che mi permetta di dire: ci sono loro, ci penseranno loro, loro cambieranno questo paese. Posso credere in loro, fidarmi di loro. Certe volte la giornata cambia radicalmente solo perché un giovane, senza occhiali da sole, spettinato ma non ad arte, in jeans ma senza firma, cammina mangiando un panino. E a me sembra di poter sentire il flusso della sua energia e della sua voglia di essere e di fare. E nel momento in cui lo vedo venire verso di me, ho fiducia in lui, in ognuno dei suoi neuroni e penso: sì, questo ragazzo ha una bella testa ed un buon cuore. Sì, questo ragazzo troverà la strada giusta. Sì, questo ragazzo saprà battersi. E vincerà anche per me.

Eppure, lo confesso, non sono pronta a farmi da parte e a dire: pensateci voi, perché forse quando cominciamo a pensare che saranno i giovani a battersi per noi siamo davvero irrimediabilmente sconfitti e io non sono pronta a considerarmi sconfitta.

Ma considero questo paese come una terra straniera, da riconquistare palmo a palmo, da sottrarre palmo a palmo ad un'orda di selvaggi profanatori e da riannettere palmo a palmo ad una idea di civiltà.

domenica 28 settembre 2008

ancora poesia pagana

da "Il guardiano di greggi" di Alberto Caeiro (Fernando Pessoa)


V

C'è abbastanza metafisica nel non pensare a niente.
Che cosa penso io del mondo?
Che ne so cosa penso del mondo!
Se mi ammalassi ci penserei.

Che idea ho delle cose?
Che opinione ho sulle cause e sugli effetti?
Cosa ho meditato su Dio e l'anima
e sulla creazione del Mondo?

Non lo so. Per me pensare a questo è chiudere gli occhi
e non pensare. È fare scorrere le tende
della mia finestra (ma essa non ha le tende).

Il mistero delle cose? Che ne so cos'è mistero!
L'unico mistero è che ci sia chi pensi al mistero.
Chi sta al sole e chiude gli occhi,
comincia a non sapere cos'è il sole
e a pensare molte cose piene di calore.
Ma apre gli occhi e vede il sole
e non può più pensare a niente,
perché la luce del sole vale di più dei pensieri
di tutti i filosofi e di tutti i poeti.
La luce del sole non sa cosa fa
e per questo non sbaglia ed è comune e buona.
Metafisica? Che metafisica hanno quegli alberi?
Quella di essere verdi e chiomati e di avere rami
e quella di dare frutti al momento giusto, cosa che non ci fa pensare,
noi che non sappiamo accorgercene.
Ma quale metafisica meglio della loro,
che è quella di non sapere perché vivono
né sapere che non lo sanno?
"Costituzione intima delle cose »...
"Senso intimo dell'Universo »...
Tutto questo è falso, tutto questo non vuol dire niente.
È incredibile che si possa pensare a tali cose.
È lo stesso che pensare a ragioni e fini
quando l'alba sta irraggiando e dalle parti degli alberi
un vago oro lustro va perdendo l'oscurità.
Pensare al senso intimo delle cose
è in più, come pensare alla salute
o portare un bicchiere all'acqua delle fontane.
L'unico senso intimo delle cose
è che esse non hanno nessun senso intimo.

Non credo in Dio perché non l'ho mai visto.
Se egli volesse che credessi in lui,
verrebbe senza dubbio a parlarmi
e entrerebbe dalla mia porta
dicendomi: Eccomi!

(Forse ciò suona ridicolo agli orecchi
di chi, perché non sa cos'è guardare le cose,
non capisce chi ne parla
col modo di parlare che l'accorgersi di esse insegna).
Ma se Dio è i fiori e gli alberi
e i monti e il sole e il chiarore lunare,
allora credo in lui,
allora credo in lui ad ogni momento,
e la mia vita è tutta una preghiera e una messa,
e una comunione con gli occhi e attraverso gli orecchi.
Ma se Dio è gli alberi e i fiori
e i monti e la luce della luna e il sole,
perché lo chiamo Dio?
Lo chiamo fiori e alberi e monti e sole e chiar di luna;
perché se egli si è fatto perché io lo vedessi
sole e chiar di luna e fiori e alberi e monti,
se egli mi appare come essendo alberi e monti
e chiar di luna e sole e fiori,
vuol dire che vuole che io lo conosca
come alberi e monti e fiori e chiar di luna e sole.
E per questo io gli obbedisco,
(che altro so io di Dio che non Dio di se stesso?),
gli obbedisco nel vivere, spontaneamente,
come chi apre gli occhi e vede,
e lo chiamo chiar di luna e sole e fiori e alberi e monti,
e lo amo senza pensare a lui,
e lo penso vedendo e sentendo,
e sto con lui a ogni momento.

sabato 27 settembre 2008

Ramin Jahanbegloo mi ha detto...

Ieri ho partecipato ad una video-chat con Ramin Jahanbegloo. Il filosofo iraniano si trovava a Toronto dove insegna Scienze Politiche. Egli è una delle voci che si alzano costantemente in favore del dialogo interculturale e contro la guerra. Tiene un corso su Politica e non-violenza.

Nel 2006 mentre stava lasciando Teheràn per partecipare ad una Conferenza a Bruxelles fu arrestato e imprigionato nella famigerata prigione di Evin. Accusato di spionaggio, vi restò tre mesi, sottoposto a tortura, e fu poi liberato, senza alcun processo, grazie alla mobilitazione internazionale.

Così ha parlato del periodo della sua prigionia:
Ho pensato che dovevo resistere esistenzialmente alla violenza. Per me importante era leggere e scrivere. Scrissi 2000 aforismi sull'amore, la vita, la morte, la violenza per far funzionare il cervello ed è così che sono rimasto lucido.
Quando sono uscito non sentivo nessun desiderio di vendetta spirituale. Mia moglie mi ha portato l'autobiografia di Gandhi ed io l'ho letta e riletta. Ho letto tutto quello che mi davano, il Corano e libri di filosofia spirituale.




Ecco la domanda che gli ho rivolto:
Crede lei che il popolo iraniano saprà coniugare la sua religiosità con la libertà?

Questa è la sua risposta:
Il popolo iraniano come ogni altro popolo è formato di persone che credono nella libertà ed altre no. E tra quelli che vi credono alcuni cercano di formulare la loro idea di libertà dentro i paradigmi religiosi, altri al di fuori. Il senso della libertà per sé e per gli altri dipende dal tipo di religiosità; se è basata su una lettura rigorista genera fanatismi. Questo accade in ogni religione.
Il cristianesimo ha avuto San Francesco e Teresa d'Avila, ma anche l'Inquisizione. Com'è stato possibile estrarre dallo stesso Cristo pensieri violenti o pensieri generosi? Tolstoi ha estratto l'amore per il prossimo. L'Inquisizione ha estratto l'odio.
In Iran dipenderà dal fatto che i giovani accettino una visione morbida e non rigida della religione: il concetto di libertà deriva da una lettura morbida della religione.


Piccola nota: la domanda da me scritta in chat è stata amputata di una sua parte in cui sottolineavo come nel mio paese si assista sempre più al tentativo della sfera religiosa di invadere il campo della politica. Avevo formulato la domanda in francese, (che Jahanbegloo usa come una seconda lingua madre), proprio per evitare che il traduttore la modificasse, ma non è servito.

venerdì 26 settembre 2008

ispirerei Giacomo?

All' opre femminili intenta. Dopo le marmellate sto producendo dadi per brodi vegetali e di carne, nonché ketchup.
Intanto ho messo in cantiere tre colli-scialle da regalare alle sorelle e alla figlia a Natale.
Non sarò la sola a giovarmi dell'ergoterapia!

Che gli uomini non lo sappiano, ma a noi donne le opre femminili piacciono. Naturalmente "quando" ci piacciono e non come dovere e ruolo. C'è una tale ricchezza nelle opre femminili che manco se la sognano!

giovedì 25 settembre 2008

la campagna d'autunno

"Questa notte, girando su blog - amici, conoscenti e vari, come sono divisi nel mio menu "blog preferiti"- mi sono imbattuta in una quantità esagerata di addii. C'è chi dichiara di prendersi una pausa, ma era il febbraio scorso e ancora non si vede la fine della pausa; c'è chi lamenta una stanchezza, dichiara che sarà presente saltuariamente e in effetti compie salti olimpici, da tre mesi non è presente sul suo blog; c'è chi scrive, determinato: non ho più voglia di scrivere, né qui né altrove ( e il mio cuore si stringe per lui); c'è chi lascia con un "ciao a tutti" e s'invola verso spazi che ignoriamo; c'è chi segnala che ha cambiato casa, ma non lascia il nuovo indirizzo; c'è chi promette, continuerò a leggervi, ma niente più post da me; c'è chi invece, quasi scusandosi, dichiara di voler scrivere ma non leggere e ci saluta tutti; c'è chi ci informa di aver tolto la possibilità di commentare perché non riesce a mantenere attivi tutti quei rapporti; e, infine, c'è chi non c'è, semplicemente. Il blog è stato cancellato, un clic e non si trova più traccia della passata esistenza di quel blog e si dubita di averlo mai davvero letto. S'incontrano anche molti indecisi, titubanti, esitanti; si capisce che sono stanchi o delusi o a corto di idee o che la vita li sta chiamando con più prepotenza. Lasciano intendere l'imminenza di un commiato, ma non riescono a staccare la spina.

Forse perché era notte, ma ho avuto la sensazione penosa di un disfacimento di intenzioni, progetti, ambizioni. Di una voglia serpeggiante di chiudersi in sé.

Benché intristita ho sentito di comprenderli, tutti, qualunque modalità abbiano scelto. Io stessa provo, a tratti, il desiderio di cancellarmi e poiché dalle nostre relazioni materiali, corporee, è impossibile farlo, penso che potrei intanto cominciare con il cancellarmi da quelle immateriali. Ma, nel mio caso, si tratta di un sintomo, che conosco bene. E lo combatto, benché a fatica.
Anche scrivere questo post fa parte della mia battaglia contro l'autunnale desiderio di scomparire a me stessa. Mi autodenuncio, sperando che il mio rigido senso del dovere mi si imponga, ed eviti che io davvero richiuda i piccoli spazi di scambio col mondo che ordinariamente mi concedo. A scanso di equivoci, il dovere non lo sento verso i miei amici lettori -so di poter contare sulla loro benevolenza- ma verso quella me che si era detta: scriverai un post al giorno.
Ci sono periodi in cui debbo assolutamente stringere i denti ed andare avanti in quello che avevo intrapreso pena un circolo vizioso di ulteriore disgusto per me. Così, cercherò di mantenermi presente sul web.
Alé, marina, la campagna d'autunno è cominciata.

mercoledì 24 settembre 2008

figlia di mezzo/quindici/senza peccato

Quando la figlia di mezzo ormai giovane ragazza si accorse del piccolo segno scuro sul collo si applicò a nasconderlo agli sguardi della madre, che considerava con particolare severità qualunque esplorazione amorosa.
Intenta a leggere a letto la figlia di mezzo dimenticò temporaneamente ogni accortezza. Fu così che il Comandante si accorse del segno del crimine sul collo.
Contrariamente ad ogni regola pedagogica dei tempi, il Comandante le spettinò i capelli ridendo e le augurò la buona notte.
Per molto tempo la figlia di mezzo restò sveglia ad assaporare la squisita sensazione di essere priva di peccato.
Ma per qualche giorno evitò di esporre il collo agli sguardi della madre ben sapendo che sarebbe stata riprecipitata all’inferno.

martedì 23 settembre 2008

help informatico

Qualcuno di voi sa dirmi come si fa ad inserire nel blog un file dando la possibilità di farne il dowload?
Mi spiego meglio. Vorrei mettere il titolo di un racconto e vorrei che, cliccandoci, gli interessati possano scaricarselo tutto.
Il racconto è lungo e non mi va di metterlo come post, sia pure a puntate.
I geni informatici sono pregati di mettersi al lavoro e di studiare il problema.
grazie, l'inetta

il sasso, lo squalo e la terza via.

"Gli squali dormono; come tutti gli esseri viventi hanno bisogno di dormire per poter recuperare le energie spese durante l'attività.
Gli squali non hanno polmoni, respirano come i pesci per mezzo delle branchie. Nuotando l'acqua entra nella loro bocca ed esce dalle loro branchie. In questo cammino avviene lo scambio gassoso, la respirazione quindi. Durante il sonno gli squali hanno gli occhi chiusi, i battiti più lenti, la respirazione e gli impulsi elettrici rallentati.
Però quando dormono nuotano, lentamente ma nuotano. Nuotano per tutta la loro vita, perchè devono respirare. Quando si fermano è perché sono morti. " (Enciclopedia di Scienze biologiche Garzanti)


Io posso essere pescecane. Io sono pescecane certi giorni. Come uno squalo io fendo le acque della mia giornata, gli occhi inquieti dardeggiano su ogni cosa, in ogni direzione; scruto e registro, registro e passo a scrutare ancora. Non posso fermarmi. Neanche lo squalo lo può; l’ossigeno necessario alla sua respirazione lo riceve solo se è in movimento; non si posa lo squalo, altrimenti muore. Neanche io mi poso: divoro le strade, le piazze, le chiese; divoro le mie azioni quotidiane; da una all’altra; ingurgito e vivo; e i miei sguardi crepitano intorno a me per scorgere ogni appiglio cui attaccare le mie spaventose energie di quelle ore; infatti mi riempio ma non mi sazio; leggo, poi scrivo, poi cucino, poi poto, poi lavo, poi riorganizzo gli spazi, sposto mobili, oggetti, lucido, curo le piante, riordino armadi, risolvo cruciverba, catalogo libri...
Lo squalo sorride, fateci caso, il suo largo sorriso soddisfatto, che ci balena davanti mentre già ci supera. Lo squalo non si stanca: divora e vive.
Nei miei giorni da squalo anche io sorrido, se pure non si vede; sorrido dentro di me, nella mia soddisfatta pancia da squalo che si riempie di cose di fatti di sensazioni di pensieri di azioni di immagini; è bello essere squalo, che nessuno mi fermi.
Nei miei giorni da squalo non chiedetemi di sostare in poltrona in terrazza, tra le piante fiorite, ad osservare i voli di uccelli o semplicemente il cielo, a scambiare qualche frase senza impegno nella familiarità di una tarda serata. Io volgo il capo di qua e di là, c’è quel ramo da potare, quella pianta troppo asciutta, sentiamo il profumo di questo fiore, via una talea da tentare, il basilico sta “cimando”, subito tagliare, spazzare quelle foglie, aggiustare quel rubinetto, arrotolare quel tubo, chiudere lo stenditoio...
Spesso d’estate sono squalo. Certo, se confessassi che io non scelgo di essere squalo, che anzi, in quei giorni, io non posso essere altro che squalo, voi provereste della compassione per me. Ma sbagliereste: non sono giorni cattivi, i giorni da squalo; quelli veramente cattivi sono i giorni da sasso, con impressa in ogni cellula del mio corpo la terribile attrazione della forza di gravità. Che peso, che stanchezza. Niente basta a sorreggermi. Precipito incessantemente. Lentamente ma continuativamente il sasso sprofonda.

Invece allo squalo tutto accade di colpo. Quando lo squalo è stanco si posa sul fondo e muore. Anche allo squalo dentro di me accade la stessa cosa: non si stanca se non all’improvviso e allora muore. E ogni volta non si sa quando e se tornerà a vivere.
E l'autunno? Che fa d'autunno lo squalo? D'autunno non è facile avvistare squali. Ma neanche impossibile.
Nelle more non resta che essere sasso.



Come gestire il sasso è un'arte appresa in lunghi anni di tirocinio. Arte sottile, difficilmente trasmissibile. Innanzitutto il sasso va pesato. Qui non si può sbagliare: fino all'ultimo grammo bisogna saper pesare la montagna di detriti che ci è franata sopra. Bisogna sapere molto bene se il sasso impone che si chieda a qualcuno di aiutarci a sostenerlo o se possiamo farcela da soli. Uno sbaglio su questo punto può essere fatale.
Subito dopo il sasso va perdonato. Senza perdono il sasso diventa cattivo, cattivo contro se stesso. Al sasso bisogna ricordare, subito e con fermezza, che essere sasso non è una colpa. Il sasso va rassicurato da subito, senza indugio, prima ancora che qualcuno lo solleciti, lo incalzi, lo inviti a diventare qualche altra cosa, a "reagire". Il mondo è pieno di gente che non è mai stata sasso e che crede di sapere come si fa a smettere di essere sasso. Vanno anche in tv. Ieri sera ne ho sentito uno. Un filosofo. A suo dire se un sasso si accompagna ad un filosofo con cui discutere dei grandi problemi filosofici e del loro impatto sulla vita quotidiana, il sasso si assottiglia, anzi si parcellizza e pian piano si fa polvere e, oplà, scompare! E ne esce fuori un essere umano, che, libero del suo falso sé, affronta vita, morte e dintorni, filosoficamente.
Se ieri sera io fossi stato squalo, sicuramente mi sarei attaccata al telefono e avrei lasciato detto all'Ufficio Rai che si occupa del parere degli ascoltatori (esiste, lo giuro! inascoltato, ma esiste) che non pagherò più il canone fintanto che la televisione di Stato non smetterà di attentare alla salute psichica dei suoi ascoltatori distribuendo disinformazione!

Una volta deciso che "sì, insomma, 'sto sasso lo reggo, ce la posso fare da me", c'è tutta una strategia, consustanziata da piccole tattiche, per muoversi da sasso nelle proprie giornate. Ma essa cambia per ognuno di noi e poi sarebbe un racconto noioso.

Naturalmente non ci sono solo squali e sassi nella vita. C'è anche la terza via al vivere, la via dei "normali".
Ora però devo confessare che io ai "normali" non ci credo e che, anzi, non mi sembra di averne mai incontrato uno.
Magari non sono squali e neppure sassi; ma sono tante altre cose, e lo si vede da tanti particolari, piccoli segni, minuscole spie che, come led, ammiccano nel buio della notte. In ogni caso se "i normali" esistono io non li invidio.

Comunque, ho anche io una mia terza via, ma la mia terza via, comunque e grazie a dio, non è "normale" per niente.

lunedì 22 settembre 2008

Storia della felicità/ tredici/il socialismo utopistico

Nella prima metà dell'Ottocento videro la luce diversi movimenti socialisti o comunisti i cui leader erano decisi a costruire, qui ed ora, la società perfetta che avrebbe garantito la maggiore felicità possibile al maggior numero di uomini e donne.

I socialisti utopisti (come li definì Karl Marx) partono tutti dall'osservazione delle terribili condizioni di vita delle classi lavoratrici, nelle miniere, nelle fabbriche, nelle baracche in cui vivevano, senza igiene, colpiti da malattie, e soffrendo un' alta mortalità infantile. Era il quadro che offrivano gli albori del capitalismo mentre in parallelo cominciava appena a costituirsi quella classe cui Marx rivolgerà il suo appello: il proletariato.

Per questi socialisti si trattava di immaginare una nuova organizzazione della socità, capace di produrre felicità per tutti.
Il loro errore secondo Marx è stato quello di aver disegnato dei modelli di società da sottoporre alle classi dominanti perché si convincessero della loro bontà e li mettessero in pratica.

Eppure dei tentativi di costruire realtà sociali diverse li fecero.

ETIENNE CABET

Ci provò Etienne Cabet (1788-1856) che con il suo libro infiammato "Voyage en Icarie" convinse diverse centinaia di socialisti, a lasciare l'Europa per tentare l' avventura nell'Illinois, a Nauvoo; qui, a detta di Cabet, li aspettava un mondo organizzato come una vera società comunista, senza proprietà privata, con la piena uguaglianza tra i sessi e in cui la concordia e la collaborazione avrebbero portato alla felicità.
Il risveglio per gli Icarii fu amaro. Problemi finanziari, dissidi, defezioni li travagliarono. Anche la natura sembrò disapprovarli: un tornado distrusse il tempio che avevano costruito, incendi si mangiarono le stalle e il mulino, si scatenò persino un'epidemia di colera. Nel frattempo Cabet si rivelava autoritario e si rendeva inviso alla maggior parte degli Icarii. L'esperimento morì con Cabet stesso, anche se aveva realizzato una integrazione tra sessi che restituiva dignità alle donne ed era riuscito ad organizzare un sistema scolastico gratuito ed un'orchestra di lavoratori.




ROBERT OWEN

Anche Robert Owen (1788-1856) promise la felicità per tutti mentre tentava di garantire almeno una vita meno dura per gli operai della fabbrica paterna di tessuti. Creò piccoli nuclei a base socialista in Scozia ma benché i suoi testi vi fossero diffusissimi, in Gran Bretagna pochi si lasciarono indurre a metterli in pratica. Così il suo sogno della fine di ogni proprietà privata e del sorgere di "una razza umana amalgamata in una sola famiglia intelligente e cordialmente unita, con una sola lingua, un solo intresse ed un solo obiettivo, la felicità permanente di tutti" restò il sogno suo e di pochi altri.




HENRY DE SAINT SIMON

Anche Saint Simon (1760-1825) fu un sognatore particolarmente ottimista. "L'età dell'oro non è nel passato, è nel futuro" è il suo epitaffio e rappresenta perfettamente il suo pensiero.
Malgrado la prigionia nelle Indie Occidntali, e quella decretatagli dai giacobini, un ricovero coatto in manicomio, il sequestro di tutti i suoi beni, restò fiducioso fino alla fine.
La sua idea che la società andasse studiata come un fenomeno naturale tra gli altri e che si dovesse riorganizzare in un sistema a difesa del proletariato e contro lo sfruttamento borghese, si diffuse e produsse, alla sua morte, il saintsimonismo, movimento politico ugualitario, con forti sfumature religiose che vedeva la felicità come realizzazione del messaggio evangelico. Nella socità saintsimoniana però la proprietà privata sarebbe sia pur parzialmente rimasta e uomini illuminati avrebbero gestito la conoscenza a vantaggio delle masse.



JOSEPH FOURIER

Fourier(1768-1830) invece riteneva che alla base della felicità ci fosse la piena soddisfazione personale realizzabile solo quando l'uomo lavora in un'attività che lo soddisfi e ad un progetto che lo interessi. Fourier progetta così la falange, gruppi di circa 1800 persone di entrambi i sessi che vivono in una serie di falansteri collegati fra di loro.
I falansteri sono strutture abitative collettive, in cui vi sono spazi per le riunioni, spazi per le attività lavorative, per i divertimenti comuni, e sono circondati da terre coltivabili. Ogni falansterio è economicamente autossuficiente e in esso donne e uomini hanno gli stessi diritti e praticano il libero amore.

Le personalità e i progetti dei socialisti utopisti sono molto diverse tra loro ma conducono la stessa analisi delle cause della infelicità di grandi masse.

In comune hanno anche il fatto di spostare lo sguardo dalla felicità dell'individuo a quella della collettività. Nessuno può essere felice se non lo sono tutti.
L'Icaria di Fourier e le falangi di Saint Simon sono solo avanguardie, vanno estese e debbono contagiare il mondo intero.
Il mondo intero non fu contagiato, ma sorsero comunità Oweniane in una quindicina in vari stati degli Usa e falangi sorsero in Romania, Russia, Brasile, Francia e negli Usa.

L'altro elemento in comune tra i socialisti utopisti è quello religioso.
Anche là dove non lo esplicitano traspare dal loro linguaggio biblico: Fourier parla di sè come del "Messia della ragione", per Cabet il comunismo è il cristianesimo nella sua purezza e Saint Simon considera la dottrina un cristianesimo nuovo e migliorato. Per lui infatti il cristanesimo è riassumibile in un solo precetto: trattare il prossimo come fratello. Applicato esso porta ad una società socialista.

Nonostante questo linguaggio religioso non si può sottovalutare la carica fattiva che scaturiva dalla loro critica sociale. Se l'elemento religioso era presente ve ne era un altro, intimamente rivoluzionario anche se mai dichiarato come tale: fare.

La lezione degli utopisti che Marx porterà a conclusioni radicali è che un mondo migliore non va sognato ma realizzato.

domenica 21 settembre 2008

ma c'è la poesia...

Wislawa Szymborska: Discorso all'ufficio oggetti smarriti
Adelphi, Milano - 2004
da "Appello allo yeti" 1957


PICCOLI ANNUNCI

CHIUNQUE sappia dove sia finita
la compassione (immaginazione del cuore)
-si faccia avanti! Si faccia avanti!
Lo canti a voce spiegata
e danzi come un folle
gioendo sotto l'esile betulla,
sempre pronta al pianto.

INSEGNO il silenzio
in tutte le lingue
mediante l'osservazione
del cielo stellato,
delle mandibole del Sinanthropus,
del salto della cavalletta,
delle unghie del neonato,
del plancton,
d'un fiocco di neve.

RIPRISTINO l'amore.
Attenzione! Offerta speciale!
Siete distesi sull'erba
del giugno scorso immersi nel sole
mentre il vento danza
(quello che in giugno
guidava il ballo dei vostri capelli).
Scrivere a: Sogno.

SI CERCA persona qualificata
per piangere
i vecchi che muoiono
negli ospizi. Si prega
di candidarsi senza certificati
e offerte scritte.
I documenti saranno stracciati
senza darne ricevuta.

DELLE PROMESSE del mio sposo,
che vi ha ingannato con i colori
del mondo popoloso, il suo brusio,
il canto alla finestra, il cane fuori:
che mai resterete soli
nel buio e nel silenzio tutt'intorno
-non posso rispondere io.
La Notte, vedova del giorno.

sabato 20 settembre 2008

che direbbe Gramsci?

Leonardo Sciascia: Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia
Einaudi, Torino - 1977


"Del comunismo di Candido e di Don Antonio; e dei discorsi che tra di loro e coi compagni facevano.

Candido, dunque, leggeva Marx. Aveva letto prima Gramsci, poi Lenin; ora leggeva Marx. Su Marx si annoiava, ma vi si ostinava.
I libri di Gramsci li aveva invece letti con grande interesse; ed anche con la commozione che gli veniva dall'immaginare quel piccolo uomo gracile e malato che divorava libri e annotava riflessioni: e così aveva vinto il carcere e il fascismo che ve lo teneva.
Gli pareva proprio di vederlo, di vedere la cella, il tavolo, il quaderno, la mano che scriveva; e di sentire il lieve raschio del pennino sulla carta. Ne aveva parlato spesso, con Don Antonio, di Gramsci e di quel che di Gramsci aveva letto; ma Don Antonio non amava molto Gramsci, vedeva nelle pagine dei quaderni serpeggiare un errore, una incrinatura. I cattolici italiani: e dove li aveva visti, Gramsci? La domenica alla Messa di mezzogiorno: poiché non altrimenti esistevano."


Che gran parlare i cattolici italiani! Famiglia, vita, solidarietà, amore.Che gran parlare!

venerdì 19 settembre 2008

tre parole

Esorabile. Mi piace pensare che una persona può essere esorabile, cioè clemente, cioè indulgente e perdonare, lasciar correre, e in definitiva sorridere delle proprie ed altrui debolezze.
E' termine arcaico, sì, ma resiste. Ed io lo amo proprio perché resiste agli attacchi del suo contrario, quell' "inesorabile"che vuol cancellarlo dal vocabolario, che incombe su di noi e ci stringe e ci soffoca e ci annichilisce e la fa da padrone.
L'inesorabilità ha il suo fascino, non lo nascondo. E' fatto di esattezza, puntualità, decisione. Ma l'esorabilità, lei, è virtù più filosofica.
Confesso che mi tenta in questi ultimi tempi l'idea di colpire qualcuno -più di uno- inesorabilmente. Di sconfiggerli.

Sconfiggere. Parola terribile se ci pensiamo. C'è dentro ex-conficere, annientare ma forse addirittura ex-configere, trafiggere, inchiodare.
In fondo la sconfitta ci inchioda -così ci è accaduto, siamo stati inchiodati sulla porta del seggio elettorale e non possiamo che osservare gli altri, i vincitori, mentre agiscono sulla scacchiera del nostro paese.
Sicché, dicevo, il desiderio di sconfiggerli a mia volta è forte.
E' triste dover rinunciare ad esorabile e dirmi che non solo è termine arcaico, ma-almeno per quanto attiene alla politica- è anche termine sconcio, perché non si può e non si deve indulgere.
Per compensare saremo più esorabili nei rapporti a due, tra madre e figlio, tra uomo e donna, tra amici, tra compagni.

Abbandonico. Mi piace la sua musica e schivo il suo significato. Che cosa fa la persona abbandonica? Non fa, ma si lascia fare.
Una parola con un così bel suono e così poca spina dorsale!
Le donne sono spesso abbandoniche, duole constatarlo. Non sempre, no, si finirebbe nel patologico. Ma hanno momenti, periodi, stagioni abbandonici.
Chissà, forse servono per ritemprarsi e poi tornare a far sentire la propria volontà.
Allora possiamo forse accordarci così: concediamoci una piccola crisi abbandonica ma torniamo poi ben eretti e per nulla compiacenti, né corrivi, né condiscendenti.

giovedì 18 settembre 2008

remake/tennis/ uno

Ristabilitami, ho ripreso a girare per blog. E, gira che ti rigira, sono capitata sul blog di marckuck, dove ogni tanto mi soffermo e ho trovato un post dove il tennis viene definito "metafora della vita". Mi sono ricordata così di aver dedicato al tennis, come metafora della vita, tre post lo scorso anno, quando il mio blog era ai suoi primi giorni di vita e aveva solo lettori di famiglia.
Rilettili, li ho trovati simpatici e ho deciso di riproporli. Non per pigrizia (che pure, grazie a Dio, non mi manca), ma per sottoporli ad un giudizio più ampio.

Eccoli in fila.


C’è stato un periodo in cui sostituivo la vita con il tennis. Per ore ed ore di giorni e giorni, per mesi e mesi di anni ed anni, solo osservando sullo schermo una partita di tennis dopo l’altra, sentivo in me un piccolo accenno di vitalità e nello stesso tempo la calma che solo una rappresentazione perfetta della realtà ci dà.
Per ogni sport troverete qualcuno pronto a giurare che è come la vita. Bhe, io sono di quelli che giurano sul tennis.
E posso dimostrarlo.

Il campo. Le sue misure precise, fisse, segnate da righe continuamente ritracciate.
Anche la vita è così. Si gioca tutta su un campo che non possiamo modificare. Non ampliarlo, dandoci più spazio, né ridurlo, rendendolo meno vertiginoso. E i confini, come le righe, se tentiamo di cancellarli, subito vengono ristabiliti.
E’ bene che i limiti ci siano, è bene che la vita si muova tra pochi, chiari, noti confini: c’è un tempo per apprendere, un tempo per sognare, un tempo per amare e per dare la vita, c’è un tempo per riflettere e riposare, c’è un tempo per invecchiare, e c’è la linea di out....

E c’è una rete. E’ verde, morbida ma ferma. Divide il noi dagli altri. Sta lì e ci insegna che non ci sarà mai nessun altro con cui potremo confonderci, che nessuna unità mai sarà totale e possibile. L’unità è durata pochi mesi, i pochi del misterioso processo della nostra formazione, poi ci hanno chiamati in campo. E da allora, sulla sua parte di campo, ognuno di noi è solo, e deve giocare la sua partita.

C’è un giudice di sedia ed è seduto in alto. Non sempre siamo proprio sicuri che ci sia. Infatti il giudice di sedia dovrebbe essere giusto, equanime, imparziale. Ma non lo è: sbaglia, si corregge, finge di non vedere, talvolta davvero è cieco. E allora i giocatori si impuntano, lo chiamano giù, venga a vedere perbacco, venga...
Di fronte al giudice di sedia i giocatori hanno comportamenti diversi. Alcuni lo ricoprono di contumelie, altri gli si ribellano, molti piegano la testa anche di fronte alla ingiustizia più smaccata. Alcuni si arbitrano da soli.

C’è una palla. Più pesante, meno pesante, più lenta, più veloce.
Continuamente ce la tirano contro. Noi la respingiamo, facciamo corse pazzesche per prenderla e rimandarla dall’altra parte, ma la palla ci torna indietro, ci torna sempre indietro..
E’ vero che ogni tanto riusciamo ad assestarle un colpo così forte o così veloce o così preciso che la palla non ritorna e noi tiriamo il fiato. Ma per qualcun altro, di là dalla rete, la palla invece è ritornata.

C’è il punteggio. Il punteggio è complicato, forse astruso, ma i giocatori lo conoscono perfettamente. E con quel punteggio imparano a misurarsi.
Sei a zero. E’ la vergogna. Non succede tutti i giorni ma può succedere e basta questo per rendere il gioco pericoloso e crudele. Proprio come la vita. Anche la vita può rifilarci un sei a zero.

Continua.....

remake/tennis/due

Nel tennis c’è una strategia. La partita si prepara. Si studia l’avversario del momento e si decide l’impostazione del gioco.
Questo lo faccio correre, ha poco fiato, ha preso peso, ha fatto troppi tornei..
A questo la palla gliela mando destra-sinistra-destra, la corsa laterale, con veloci cambiamenti di direzione, lo destabilizza.
Quest’altro è potente ma poco pronto. Lo prenderò di sorpresa. Fingo un diritto e lo chiamo a rete con una corta volée, perché correre in avanti lo tramortisca..
Questo si fa distrarre, deconcentrare. E non è abbastanza cattivo. M’invento un malanno. Chiedo di essere medicato. Prendo tempo. Lui intanto non sa cosa fare. Cerca di mantenersi attento ma piano piano si allontana dal cuore della partita. Io torno in campo saltellante. E’ fatta. Credermi infortunato lo ha perduto.
Oggi invece mi sento leggero eppure fermo e il mio sguardo è acuto e preciso. Tento il lob e la palla si inarca alta verso il cielo e il mio avversario la vede passare sopra la sua testa, abbozza appena un gesto ma capisce che non potrà mai raggiungerla e allora si ferma rassegnato o fremente di rabbia..
E la palla perfetta, tesa e morbida insieme, precisa, esatta al millimetro, elegante e strafottente, dopo il suo arco perfetto ricade morbidamente, appena prima della riga bianca...
Anche a noi succede talvolta il miracolo di un lob perfetto, elegantemente lasciamo fermo il nostro contendente, senza sforzo, per un attimo voliamo più in alto di lui...


Sul campo c’è sudore e fatica. Paura, ansia, incertezza. Ogni tanto si sputa in terra perché l’ansia fa salivare o si beve, perché la stessa ansia secca la gola..
Tra avversari ci si insulta, o si fingono gesti cavallereschi. Ma quando ci si passa accanto al cambio di campo non ci si guarda neppure. Non è quello che facciamo sempre? Ognuno di noi passa accanto all’altro senza guardarlo, pensando solo alla prossima mossa. Ci rifiutiamo di guardarlo per tema di dover riconoscere che è come noi, incerto, timoroso, stanco.

C’è un pubblico che guarda la partita e appassionatamente tifa per l’uno o l’altro giocatore. Il pubblico è crudele. E noi che giochiamo la nostra partita sappiamo che il pubblico ci guarda, come i giocatori sanno che quel pubblico che li guarda, ne vuole uno umiliato. E grida e si agita e ci esorta e talvolta ci insulta. Dobbiamo vincere, non importa se siamo stanchi e se il nostro avversario ne ha più di noi. Dobbiamo vincere.
Quando vorremmo darci per vinti, ci arriva ancora l’ultimo grido del nostro appassionato sostenitore e comprendiamo che finché non saremo stati umiliati del tutto, dovremo continuare a giocare.


Non è possibile giocare la nostra partita tranquilli, in una zona d’ombra del campo. Non ci sono zone d’ombra sul campo. Quando verso il tramonto le ombre cominciano ad allungarsi su una parte del terreno di gioco, ogni giocatore sa che al cambio di campo dovrà tornare dalla parte assolata. E quando quell’ombra invece di recare sollievo mette in difficoltà, fa strani giochi, crea false distanze, nasconde per brevi istanti la palla, in quell’ombra brevemente evitata, il giocatore sa che dovrà tra poco rientrare.


Ci si mette una tenuta per giocare. Qualche giocatore cerca la più accattivante, la più originale, la più elettrizzante per il pubblico, inventa piccoli particolari personali, tenta di distinguersi. Un braghettone largo e lungo, un vestitino come una pelle luccicante, un piccolo congegno per accogliere la palla di riserva, il gonnellino leopardato, un buffo berretto con una strana visiera posteriore...Qualche giocatore cerca solo la tenuta più comoda e confacente, ma se non è davvero un fuoriclasse, presto nessuno si ricorderà di lui.
Continua......

remake/tennis/fine

Al tennis si gioca con una racchetta. Una racchetta è tutto quello che i giocatori hanno. Scendono in campo impugnando la loro racchetta e il gioco ha inizio. La racchetta è importante. 
I giocatori ne portano due, tre, anche quattro con sé. Sono avvolte nel cellophane, lustre, brillanti e meritevoli di ogni cura. Il giocatore e la sua racchetta sono in continuo dialogo. Il giocatore la sbatte in terra, se la dà sui piedi, la lancia in alto e non si sa mai se la riprenderà o se la lascerà cadere per punizione. La racchetta infatti è sempre colpevole. Il giocatore talvolta la guarda perplesso: cosa fa questa racchetta dei miei tiri? Li devia? Mi si ribella? Talvolta, ma raramente il giocatore la bacia, riconoscendo che lo ha servito bene, ma più spesso, con una piccola corsa improvvisa, la getta nel suo angolo e ne cerca affannosamente un’altra per sostituirla. La prova con brevi colpetti del palmo della mano, ne misura la tensione. Ne scarta una, due, prima di trovare quella che va bene per quel particolare momento dell’incontro. Giocatori particolarmente precisi, maniacalmente la cambiano quando in campo si cambia la palla, sfibrata nel susseguirsi dei giochi. 
I giocatori sembrano credere che la racchetta da sola possa fare il gioco, dimentichi che sono loro ad impugnarla, a dirigerla, a comandarla. Ma l’alibi racchetta funziona. Ma che racchetta mi ha dato la vita? Perchè non mi riesce un colpo?





Il campo di gioco, sempre uguale nelle dimensioni e nella geometria può variare nel suo fondo. Il giocatore non può scegliere su quale fondo giocare. Ogni torneo ha il suo e il giocatore si deve adattare.Se la terra è rossa il giocatore sa che dovrà correre molto, molto sudare, avere molta pazienza e molta resistenza. Ma se il fondo è di un impasto verde o azzurro di cemento, il giocatore sa che deve essere molto rapido, che il tempo per scegliere il colpo si riduce pericolosamente. Alcuni giocatori lo preferiscono. Puntano tutto sulla loro prontezza, si gettano nell’attacco veloce, tentano il colpo risolutivo. 
Anche alcuni di noi lo preferiscono. Non sempre abbiamo voglia di tessere tele e faticosamente portarle a compimento. 
Altri di noi invece preferiscono vedere il proprio avversario correre e sudare, mentre loro stessi corrono e sudano, perchè il punto vinto in questo modo sembra pesare di più sulle spalle dell’avversario e il piacere della vittoria così rinviato, diviene più intenso.
Talvolta, ma raramente, il campo è di erba verde. Allora il gioco cambia del tutto. A questo gioco non tutti sanno giocare.
Ci sono giocatori che evitano quell’erba verde. Altri più audaci o sconsiderati pur sapendo di non essere fatti per quel piccolo scivoloso gioiello, ci si buttano dentro perchè la sfida, la temerarietà li tenta come un amore.
Quando inizia il torneo l’erba è intatta, verde, brillante, fresca. I giocatori scivolano, si rialzano e ripartono e l’erba si consuma, il manto si assottiglia. I bei gonnellini bianche delle ragazze si sporcano di verde. Intanto la stagione avanza e il caldo si fa sentire. L’erba pian piano si secca e sul prato verde si formano macchie sempre più ampie di giallo e marrone e la terra, nuda, arsa, farinosa appare. Il prato verde era un’illusione. Le ultime partite si giocano con più lentezza, con meno brio, i colpi si fanno più crudeli ma meno fantasiosi. La terra torna a comandare. 




Ognuno scende in campo con il proprio corredo personale. Cerca di premunirsi contro tutti i possibili imprevisti. Si equipaggia al meglio. Qualcosa per la sete, qualcosa per il calo di zuccheri, qualcosa per la fame. Tutti noi tentiamo sempre di premunirci, ci equipaggiamo, tentiamo di presentarci alla nostra partita con il massimo di presìdi. Ma il caso spesso ci inganna. Un giocatore si sente bruciare gli occhi ma il collirio sotto mano non c’è. Una giocatrice infastidita dal polline inizia a lacrimare. Si soffia più volte il naso, ma i fazzolettini non bastano.I giocatori si guardano intorno irritati. Il piano perfetto, la perfetta organizzazione dunque è fallace? 



I giocatori portano con sè anche diverse magliette. Un sospiro passa tra il pubblico femminile quando il giocatore si toglie quella sudata per indossarne una fresca. Il giocatore non indugia, il fascino dell’operazione risiede nella sua velocità, nell’apparire e sparire del bel torace nudo, con i suoi muscoli appropriati ben visibili. In quei brevi momenti la sua gioventù e la sua bellezza illudono tutti gli spettatori. 
Le ragazze invece non si spogliano in campo. E’ severamente vietato. Si suppone che sia maggiore il potere del corpo femminile di scatenare desiderio nel pubblico, che sia addirittura irrisistibile. Se una giocatrice rapidamente si togliesse la maglietta restando con il suo reggiseno a fascia, così costrittivo sui giovani seni, scoppierebbero tafferugli, si assisterebbe a scene di disgustosa lussuria.
Così le ragazze restano in campo nelle loro magliette intrise di sudore, sempre più appiccicate al corpo, che diventano quasi trasparenti con un incredibile effetto nudo. Ma i tafferugli sono evitati. Oppure le ragazze lasciano il campo stillando sudore e dopo brevi momenti rientrano fresche e si suppone profumate, così fresche, così profumate, così pulite, così innocenti......
La vera discriminazione naturalmente è nei confronti del pubblico maschile, cui è negato quel piccolo brivido di piacere che invece le signore si godono fino in fondo, al cambio di maglietta dei giocatori. 




La partita finisce. C’è un vincitore. C’è un vinto. I giocatori si avvicinano alla rete e al di sopra si stringono la mano. Talvolta il perdente riesce a sorridere. Se sono due donne spesso si baciano. Il conflitto è stato aspro, la durezza della battaglia le ha spaventate, sentono il bisogno di rassicurarsi a vicenda: non è successo niente, tu hai vinto ma io ti perdono, tu hai perso ma io quasi non volevo. Non siamo veramente nemiche e neppure crudeli. 
Gli uomini vittoriosi danno pacche di incoraggiamento al perdente, c’è orgoglio e insieme cameratesco riconoscimento. Sì ho vinto, bhe era naturale che andasse così. Sì ho perso ma ci rincontreremo.Il vincitore con gli occhi è già al pubblico che in piedi applaude. Il vinto si lascia cadere sulla sua sedia. Tenta di riordinare le idee mentre la telecamera gli fruga l’anima. Talvolta la ragazza che ha perso piange, le braccia abbandonate lungo i fianchi, lo sguardo perso nel vuoto. 
Talvolta nasconde la testa nell’asciugamano di spugna. Nasconde il suo dolore e la sua vergogna.
Più spesso è la vincente che, svuotata di ogni energia, si abbandona sulla sedia, la racchetta ai suoi piedi e con gli occhi guarda senza vederlo il pubblico, il campo, il cielo...
I giocatori dovrebbero uscire insieme dal campo come insieme sono entrati, ma capita che chi ha perso, indispettito o umiliato, non sopporti l’attesa dei tempi di riordino del vincitore e abbandoni il campo alla svelta. Oppure capita che la vincente si lasci rapire dai giornalisti, si dimentichi dell ‘avversaria sconfitta e la lasci lì sola sul campo.
Anche gli uomini piangono, ma solo quando hanno vinto. Perchè la forza che l’uomo ha espresso con la vittoria può essere ingentilita dal breve pianto, ma la sconfitta che lo ha umiliato deve essere affrontata virilmente, con una faccia fiera e possibilmente concentrata. 





La vittoria non è mai certa. Può sembrare vicinissima, praticamente già saldamente in pugno di uno dei giocatori, eppure sfuggirgli all’ultimo momento. 
Spesso la partita sembra terminata, vittoria e sconfitta già assegnate, quando un colpo, uno solo, rimette tutto in forse. E la partita già finita ricomincia. 
Quante volte nella vita ci sembra di aver raggiunto il porto, di poter rimettere i remi in barca e poi un vento improvviso ci risospinge al largo, ci allontana dalla riva..
Anche il giocatore che aveva quasi vinto sente il vento cambiare, rabbrividisce di apprensione, si dà colpetti nervosi di incoraggiamento alle gambe, saltella, richiamandosi ad una vivacità che già credeva di potersi risparmiare. E intanto scuote la testa, tentando di scacciare il fantasma di quella vittoria quasi afferrata e ormai lontana. Spesso smette di crederci, si lascia battere stancamente, vuole solo allontanarsi. E l’altro, già rassegnato alla sconfitta, improvvisamente sente le energie tornargli, fa segno di sì con la testa, sì è così che deve andare, sì adesso sarà tutta un’altra partita, sarà la sua partita....


Quando la convinzione dei giocatori vacilla il pubblico, per amore del suo campione, che non esclude una entusiasta mancanza di pietà, lo incita ancora, lo esorta in ogni modo, lo incalza con frasi di incoraggiamento che lo logorano ancora di più. Si intuisce che il giocatore vorrebbe fuggire, che scaglierebbe volentieri la racchetta tra il pubblico e lascerebbe il campo. E invece deve ringraziare e rassicurare i suoi sostenitori. Sì, ce la metterò tutta, no, non mi arrenderò.
Raramente si ribella al massacro che i suoi fans vogliono fare di lui, ma quando lo fa momenti di irresistibile comicità si vivono sul campo. 
In un incontro spettacolarmente faticoso e lungo oltre ogni limite, ormai ombre lunghe sul campo e il giudice stravaccato sulla sua sedia, dal pubblico arrivò il grido di un sostenitore. “Credici!” e l’ineffabile giocatore, un francese famoso per la sua indomabile resistenza ma anche per il suo caratterre vivace, di rimando: "io ci credo, tu vieni a giocarla".



Quanti sono ad incoraggiarci nella nostra partita! Devi avere fiducia, puoi farcela! sei forte, battiti ancora, non arrenderti! Devi credere in te! 
Vien voglia di rispondere come quel giocatore: d’accordo, io crederò in me, ma tu battiti al posto mio.

mercoledì 17 settembre 2008

la mitica Milly!




quale decenza?

Ho il Sindaco che ho e, confesso, ogni tanto mi fa pena. Dice e disdice, vuole e disvuole. Ora che non impugnano più un bastone, non sa dove mettere le mani e spera che i suoi cittadini non se ne accorgano. Inalbera un muso da decisionista e intanto chiede aiuto ai vecchi amministratori. Qualche volta, gli sciagurati, rispondono.
L'unico nord della sua bussola politica è la nostalgia fascista. Quella ce l'ha nel sangue e nella testa e ad ogni occasione con la sua voce chioccia, con un rigurgito, ce la ripropone.
Il mio Sindaco mi disgusta e cerco di ignorarne l'esistenza. Ma non è facile.

Ora multa le prostitute ed i loro clienti. Le donne perché discinte, nelle loro gonne ombelicali; i clienti perché intralciano il traffico.

L'ordinanza del Sindaco dice che "l' abbigliamento indecoroso e indecente" è "motivo di distrazione per gli utenti della strada e causa di frequenti incidenti stradali", e cita il Regolamento della Polizia Municipale che prevede " il divieto di atti offensivi alla decenza e alla morale".
Inoltre vieta a chiunque di "assumere atteggiamenti, modalità comportamentali ovvero indossare abbigliamenti che manifestino inequivocabilmente l'intenzione di adescare o esercitare l'attività di meretricio". Buon per la Ministra Carfagna che è stata costretta a cambiare look a causa del suo ruolo istituzionale o si ritrovava multata.

Di multati ne abbiamo già avuti due. Uno di essi, furioso, ha minacciato di non più votare il Sindaco Alemanno.
Ho sempre pensato che i suoi elettori fossero puttanieri, fermo restando il mio rispetto per le puttane.
Quanto a decenza e morale: non c'è giorno in cui la parte politica del Sindaco non compia, in questo paese, un atto offensivo alla decenza e alla morale.

segnalazioni/Ombra su Ombra

OMBRA SU OMBRA
Avevo promesso per metà settembre una prima relazione trimestrale sull’attività oppositiva della Ministra-ombra per le pari opportunità, Vittoria Franco.
A onor del vero devo anticipare che la situazione politica ed informativa è tale che siamo diventati tutti ombre e Vittoria Franco non può ragionevolmente fare differenza.
Inoltre fare l’ombra della Carfagna è compito davvero ingrato.
Detto questo però debbo aggiungere che la Franco è davvero occupata in troppe cose per incalzare chicchessia. (Ho scoperto che traduce anche testi di filosofia.)
Ha il suo lavoro di docente, naturalmente, e poi convegni, dibattiti ecc. su temi filosofici sempre interessanti ma che la portano spesso lontana dal campo specifico del suo incarico politico.
Questo è molto meno grave del fatto che la vera Ministra ancora non ha capito quale sia il campo della sua attività ministeriale e crede di essere il Ministro degli Interni.
Ma per tornare alla Franco trovo molto pertinente il suo commento al DDL sulla prostituzione approvato nel Consiglio dei Ministri.
Questa mia è una relazione molto scarna, lo so, ma da un lato c’è davvero poco da dire e dall’altro il mio interesse per questa attività di osservazione è andato scemando man mano che la situazione politica si precisava meglio come totalmente bloccata.
Desidero usare le mie energie, vacillanti energie, diversamente.
Spero che mi scuseranno quelli più solerti di me.
Circa il blog Ombra su Ombra mi sembra non morto, ma mai nato veramente, certamente in gran parte per mia responsabilità. Non ho saputo dargli impulso.
Penso che l’esperienza, almeno per me, possa considerarsi conclusa.
Il blog resta a disposizione di chiunque voglia utilizzarlo.
Se poi nessuno intende farlo, dopo un tempo ragionevole, provvederò a chiuderlo.
Grazie a tutti, marina

martedì 16 settembre 2008

en passant

Nelle sue memorie Bertrand Russel scrisse che a suo parere tre erano le cose che rendevano la vita degna di esere vissuta: la ricerca di conoscenza, il desiderio di amore e l’empatia nei confronti di coloro che soffrono.
Lo ricordo bene perché la sua frase costituì la mia massima-guida in un anno lontano.

Recentemente ho letto che Gede Raka, un professore indonesiano che si occupa di creatività, ritiene che le caratteristiche che rendono creativo un ambiente siano la disposizione all’apprendimento, l’incoraggiamento a fare il bene e un atteggiamento favorevole all’amicizia.
Non si discostano poi molto dai tre valori indicati da Russel. Parlano entrambi di conoscenza, affettività e moralità.

Riflettevo sul rapporto tra questi tre elementi e la creatività e una quantità di esempi contrari, sul piano della moralità, mi sono venuti in mente: grandi artisti, in diverse arti, creatori per i quali la moralità era l’ultima delle preoccupazioni. E non parlo di moralità sessuale. 
Ciò nonostante noi siamo grati alla loro creatività, benché spesso figlia di egoismo e talvolta di indifferenza o crudeltà.
Forse le tre indicazioni di Gede Raka, che condivido in pieno, valgono nelle discipline educative, là dove la creatività dev’essere stimolata e fatta fiorire, mentre il grande artista creativo lo è comunque, a dispetto della sua tempra morale e, si direbbe, addirittura di se stesso.

A proposito di massime-guida, mi chiedeva Cristina se io avessi già pronta quella per il 2009.
In effetti ci sto riflettendo. Ne ho prese in esame un paio.
Credo che opterò per Giovan Battista Vico (ho una grande simpatia per Vico):

Paiono traversie e sono opportunità.

Sì, è questa la massima-guida che mi accompagnerà nel nuovo anno.
Anche per tentare di sottrarla a tutte le variazioni e false attribuzioni che continuamente la offendono sulla stampa e nelle bocche degli opinionisti.
En passant sugli opinionisti: ma che cavolo di mestiere è?

come uscire dal tempo dell'odio?



Hanno seminato odio e disprezzo. C'è sempre chi è pronto a raccogliere. Ad Abdul l'odio ha tolto la vita. A 19 anni.
L'odio è contagioso. Lo sento che mi si cristallizza dentro. Siamo entrati in una spirale che non può che farci molto male.
Non se ne esce, temo. O, comunque, io non so come uscirne.

segnalazioni

Raccolgo l'invito e la segnalazione di Giulia
Leggere qui per credere!

Vorrei anche segnalare a Donnigio che non riesco a commentare! vengo sputata su una pagina dove mi si invita ad iscrivermi a My Space! Aiuto!

lunedì 15 settembre 2008

riassaporare l'estate: i suoni

C'è un centro, occupato da me, e arrivano i suoni.

Il chiùchiùchiù delle tortore è vicinissimo; il loro chiacchiericcio musicale mi arriva da un punto posto in alto davanti a me; anche senza aprire gli occhi so dove sono, le vedo, posate su un ramo dell’olivo, la coda rosea arruffata dal vento, il capino tondo che si sporge incuriosito intorno.
Nell’ora meridiana sto distesa sul prato, immersa nel benessere di questo silenzio caldo, affidata all’abbraccio di quest’ora quieta.
Altissimo sopra di me un aereo avanza nel cielo, il ronfare ovattato dalla lontananza mi sorvola e si allontana verso est; lo sento assottigliarsi, smorzarsi lentamente; poi sparisce, lasciandosi dietro ancora una piccola bava di suono.
Ora non c’è più. C’è un momento di silenzio assoluto, pieno di una voce assoluta.
Un soffio di vento improvviso fa cantare tutti i cespugli di oleandro e la chioma dell’acacia si gonfia sonora.
Mi arriva il grido di una cincia e lontano l’abbaiare impaziente di un cane.
Al piano superiore della casa una porta sbatte. La porta! Esclama la Terza Sorella alle mie spalle.
Oltre la siepe al fondo del giardino, nella casa dei vicini si seguono le Olimpiadi; mi arriva la voce dei commentatori sportivi e anche se non ne capisco la parole ne percepisco il tono eccitato.
Dal vicino campo da tennis, invece, giungono i tonfi ritmici della palla sulla terra battuta e a tratti l’esclamazione vibrante di un giocatore. Dietro gli occhi chiusi vedo la palla colpire di piatto il terreno e l’impronta netta che vi lascia disegnata.
E’ come una sinfonia cui la mia mente presta immagini. Tutto accade lentamente; i suoni si accostano senza sovrapporsi, sono come pennellate successive di smalto sulla superficie azzurra del silenzio di quest’ora. Riservata e personale, c'è scritto sopra. Questo primo pomeriggio sonoro, che sa di pino ed eucalipto, compone una melodia delicata, senza picchi o strappi, fluida come le onde di vento che percorrono il prato e danno il la ai cespugli di lantana.
Qualcuno sotto il portico alle mie spalle sposta una sedia per sedersi e prende a sfogliare il giornale. Le pagine frusciano, sembrano ingarbugliate dal vento; avverto il gesto stizzito con cui il lettore le riassesta battendole sul piano del tavolo. Potrebb’essere mio marito. Chiunque sia non disturba il mio riposo, forse mi pensa addormentata.
D’improvviso un calabrone si getta in picchiata verso di me, sento il il suo volo ronzante vicino alla testa, mi sfiora quasi; spalanco gli occhi allarmataa e accenno a sollevarmi, ma il calabrone s’impenna di nuovo e vola lontano.
Mi riparo gli occhi dal sole e guardo il cielo sopra di me. Nel mio campo visivo, come in uno stemma, si scolpisce a destra uno spicchio di cipresso, col suo verde scuro e compatto; a sinistra, invece, il verde argenteo dell’olivo disegna la sua trama cangiante e leggera. Tra i due verdi il celeste del cielo è netto ma delicato.
Una tortora si posa sul prato e lancia il suo richiamo invitante a pochi passi dai miei piedi.
Piego la testa per guardare il cipresso imponente dalla base fino alla cima sottile, che punta dritta verso il sole. Come è alto e largo e folto! Lo piantò mio padre 37 anni fa’. Altri tre cipressi gli sono compagni, ma questo è il più grande e il più bello. Fra le vecchie foto che studiavamo sere fa' tra sorelle ce n’è una in cui mi appoggio al cipresso, giovani entrambi, e con un braccio ne circondo il tronco. Se oggi volessimo circondare il cipresso dovremmo allargare le braccia tutte e tre e forse premere per comprimere il fogliame vigoroso.
Quando piantò il cipresso mio padre non aveva sessanta anni, quando invece piantò l’olivo ne aveva già ottanta. L’olivo è una pianta meticolosa, senza nessuna fretta o avventatezza; tenace ma lenta, assapora bene la terra dove deve crescere e prosperare; ha bisogno di prendere confidenza con il terreno prima di decidere che fa per lui e iniziare il suo percorso.
Per piantare un ulivo a 80 anni ci vuole molta fede nella vita, un grande amore per la terra e molta, molta forza. Piantare un ulivo a 80 anni è un gesto di fiducia ma anche di sfida. E’ il gesto di qualcuno che non teme né la vita né la morte. Era proprio così mio padre.
Poco discosto dall’ulivo il mio giovane avocado allarga i suoi rami ordinati e armoniosi.
Così lento è l’ulivo nella sua crescita (ogni anno la Prima Sorella delusa e scontenta, esclama: ma questo ulivo non cresce mai? Invece l’ulivo cresce, con i suoi tempi, ma cresce; infittisce i rami anche se quasi non ingrossa il tronco) così veloce e impetuoso è l’avocado. L’ho portato qui tre anni fa' ed era poco più di un grosso ramo singolo; ora è un albero, un piccolo giovane albero spavaldo, che oppone la sua straordinaria elasticità ai venti degli inverni tarquiniensi che sanno di burrasca marina.
-Perché non mi hai regalato un seme?- Il pensiero mi attraversa d’improvviso la mente diretto ad una persona lontana lontana nello spazio ma più ancora nel tempo.
Vorrei potergli rivolgere la mia protesta, anzi il mio rimprovero: dovevi regalarmi un seme!
Non i diamanti ma i semi sono "per sempre".
E poi penso al seme di avocado che mi regalò trent'anni fa' un amico scomparso e i cui semi ho distribuito tra altri amici. Uno di quei semi è l'alberello di avocado che ora luce al sole.
Un seme produrrà nuovi semi, frutti che fruttificheranno e si distribuiranno sulla terra, creando nuovi affetti e nuove relazioni.
Lo capisco in questo momento: è un seme quello che dovremmo regalare a tutti i nostri affetti.
Balzo in piedi e comincio a frugare il giardino in cerca di semi. Non è più tempo di contemplazione.

domenica 14 settembre 2008

I have tried in my way to be free/grazie Leonard


Ogni volta che l'ascolto mi sembra un piccolo miracolo. Anzi, tutto, assolutamente tutto al mondo, mi sembra un grosso miracolo.




Like a bird on the wire,
Like a drunk in a midnight choir
I have tried in my way to be free.
Like a worm on a hook,
Like a knight from some old fashioned book
I have saved all my ribbons for thee.
If I, if I have been unkind,
I hope that you can just let it go by.
If I, if I have been untrue
I hope you know it was never to you.

Like a baby, stillborn,
Like a beast with his horn
I have torn everyone who reached out for me.
But I swear by this song
And by all that I have done wrong
I will make it all up to thee.
I saw a beggar leaning on his wooden crutch,
He said to me, you must not ask for so much.
And a pretty woman leaning in her darkened door,
She cried to me, hey, why not ask for more?

Oh like a bird on the wire,
Like a drunk in a midnight choir
I have tried in my way to be free.

sabato 13 settembre 2008

poche righe


Il computer, e quindi il modo più pratico di scrivere, sembra essermi fatale! Sob e sigh!
Mi sembra uno scherzo volgare oltre che una insopportabile crudeltà della vita. Ma poi penso alla sordità di Beethoven e ridimensiono il tutto. Inoltre, da quella ottimista che sono, mi sento convinta che la mia amica Carmela mi rimetterà in sesto.
Però la riflessione su Beethoven e sulla piccolezza del mio rammarico rispetto al suo, mi ha riportato in mente un libro interessantissimo, che ho letto un po' di tempo fa: John O'Shea "Musica e medicina- Profili medici di grandi compositori" EDT-Edizioni di Torino-1991-
Noi pensiamo ai grandi geni spesso dimenticando il loro corpo. Beh, questo libro ci ricorda che ne avevano uno e che come tutti vi abitavano ma ne erano anche abitati.
ciao

le piogge di Ranchipur

-Usciamo, c’è speranza che piova- dico a mio marito. -Proviamo, ma non ti illudere-fa lui. Qui a Roma viviamo dentro un soufflè di smog e umidità da una settimana, da tre mesi non cade una goccia d’acqua e siamo tutti sfiniti. Trattoria a due passi da casa; panche di legno, carne anche, pesce scongelato espresso, ma tanto non siamo usciti per ragioni gastronomiche, ma UNO perché a casa non avevo nulla di commestibile e men che meno la forza e la voglia di fare alcunché dopo aver mescolato e schiumato marmellata di fragole per due ore e DUE nella speranza che lungo la strada la pioggia promessa finalmente ci bagni.
Il mio ottimismo l’ha vinta sullo scetticismo di mio marito e mentre usciamo dalla trattoria si scatena quello che sicuramente i giornali chiameranno “nubifragio su Roma” ed è solo un colossale, fragoroso, meraviglioso temporale! Torniamo lentissimamente sotto la pioggia, camminando al centro della strada, lui più compassato, io con le braccia e la faccia alzate al cielo.
Piove anche sabbia, mio marito se la trova sui pantaloni, io sui sandali. Le gatte sono innervosite da tuoni e fulmini. Io penso che vorrei un cane e sentire l’odore del suo pelo bagnato. Quanto sanno di buono i cani bagnati dalla pioggia! Se tutti potessero riconoscere l’odore di amore canino che emana il loro pelo arruffato di pioggia nessuno più abbandonerebbe cani.
Insomma, questi sono i pensieri della pioggia di ieri sera. In breve, perché la mia amorevole figlia mi vieta soste prolungate al computer.

venerdì 12 settembre 2008

se permettete faccio la ruota...

Questa meravigliosa cassata è il premio ideato dal vulcano Tereza e io l'ho ricevuto oggi!


Confesso che mi sento piena di me e mi ammicco nel passare davanti agli specchi. Fuor di scherzo mi sento felice di un regalo come questo e, se non fosse che Tereza è un tipo umano capace di travolgere qualunque certezza ( o incertezza) mi sentirei anche un po' abusiva e ingannatrice. Ma questo regalo voglio solo godermelo!
Perciò riporto qui il suo post che siete però invitati PERENTORIAMENTE ad andare a leggere direttamente sul suo blog alla pagina di oggi

venerdì, 12 settembre 2008
MARINA, tu sì ka sì nu zzukkere!


Il mondo-blog di Marina l’ho scoperto per caso, grazie al nostro comune e carissimo amico, Finazio.
http://finazio.blogspot.com/2008/03/due-catene-al-prezzo-di-una.html
Già dal titolo il blog di Marina si svela nella sua particolare grazia: manda un segnale importante del suo modo di guardare al resto da sé.
inezie essenziali
riunisce in sé due concetti contrapposti e apparentemente inconciliabili:
l’inezia e l’essenziale.
Con questa bellissima contraddizione Marina apre, va e cammina, raccogliendo nella sua cesta tanti piccoli oggetti, apparentemente da nulla, e trasformandoli in tanti preziosi pacchetti-dono per la lettura.
Marina muove dal piccolo, lo raccoglie , lo lucida e lo fa brillare come fosse grande.

Ho già scritto di lei:
http://tereza.splinder.com/post/17820077/MARINA%3A+Narrazione+che+cammina
definendo la sua narrazione danzante e, aggiungo, cinematografica, perché in perenne movimento, senza per questo peccare mai né di frettolosità né di superficialità.
Ma più di tutto, ed è per questo che le dedico il mio buffo, modesto e personalissimo premio, in lei tracima umanità, intesa come garbo,sapienza e saggezza nell’esistere.
Sono doti queste che s’intravedono persino in talune sue risposte/mosse da tigrotta-semi sonnecchiante, quelle con cui rimbrotta verbalmente ogni tanto il-la malcapitato-a di turno.
Perché Marina ha dalla sua l’intelligenza del disincanto ma anche quella della partecipazione, e l’una coltiva l’altra.
E quando alza la sua zampetta da tigrotta torna professoressa sebbene, pure in quelle impennate, conservi un’ironia che non lambisce mai il territorio dell’acido o del vendicativo.
Penso spesso che solo chi ha alle spalle una storia significativa sappia essere significativo.
E per storia significativa intendo una vita complessa, affollata di dolori veri,e con molte stazioni saltate anche.
Se non temessi d’essere retorica direi che Marina è materna ed accogliente in ogni sua cosa, senza però dare a questa definizione nessuna patina da glassa di infima qualità, ché lo zuccheroso-fine-a-sé-stesso, applicato ai concetti e alle persone ancor di più, mi dà l’orticaria e pure l'Herpes zoster (fuoco di sant'Antonio), oltreché sapere di stra-rancido.
Marina racconta con stupore e amore ciò che guarda e, in questo, mostra d’avere vent’anni.
Per questa sua imprendibile ed inesauribile giovinezza mi piace e le regalo questo mio buffo premio.
A te, Marina, ragazza mia, il premio va davvero di necessità.
http://ineziessenziali.blogspot.com/

postato da: Terezita alle ore 12:05 | link | commenti (3)
categorie: dediche speciali e riconosciment

parlare tra donne

C'è un altro post di cui voglio ringraziare ed è questo di Cristina. Tanto oggi è la festa della (mia) vanità!

DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

Un caffé da M.


Ci sono case e case, ci sono caffè e caffè, ci sono amiche ed amiche.
Ci sono poi, caffè presi a casa di amici che si staglieranno con un allure particolare nella nostra memoria.
Un maremoto di emozioni, indistinte, violente, che mi permettono solo di prendere un soffio d’aria tra un’ondata e l’altra, prima di sommergermi di nuovo facendomi temere di affogare.
Stabilire quale sia stata la spinta che mi ha fatto scivolar giù dalla barca della serenità, scaraventandomi improvvisamente in mezzo ad un mare in tempesta, è difficile a dirsi; le donne sapranno capirmi e gli uomini rabbrividire se ne hanno provato gli effetti. Succede e ci si sente spaesate, incapaci di muovere anche una sola bracciata per tentare di uscire dal vortice bastardo. Non è necessario ipotizzare chissà quale insolubile tragedia, spesso ci si ritrova affrante e di tremendo non è successo proprio nulla, ma si sta male lo stesso: i pensieri si incupiscono, le lacrime scendono ed il mondo sembra avere scelto di botto di mostrarsi senza colori.
Ho imparato a nuotare da tempo, so galleggiare e darmi coraggio per resistere, tuttavia, ci sono giorni in cui l’accoglienza affettuosa di un’amica è una spiaggia assolata in cui distendermi a riprendere fiato.
In questi momenti anche l’uomo più speciale del mondo non può nulla, serve la comprensione complice di una donna, una donna che sentiamo speciale.
In questo stato d’animo ho chiamato la mia amica M.
Provo sempre un certo pudore nell’importunarla, è una donna affascinante e discreta, con una testa talmente brillante che mi sembra un delitto distrarla dai suoi mille interessi con le mie insulse baggianate, ma in questo strano giorno sento di aver bisogno di lei, dei suoi occhi, della sua capacità di guardarmi dentro e parlarmi con schiettezza.
Gli propongo di vederci e lei mi accoglie nella sua casa che sa di buono ed è intensamente bella, come lei.
Un caffè con il ghiaccio ed io inizio a parlare in ordine sparso, vergognandomi un poco della confusione emotiva in cui verso. Sto male e in questo malessere c'entra tutto e niente: piccole cose, grandi cose, dettagli e nodi cruciali del mio essere, dilemmi importanti ed altri inutili, insomma di tutto un po’. M. sta lì, accanto a me e mi guarda come speravo, con i suoi occhi intelligente senza interrompermi se non con brevi frasi pensate, armonizzate con scrupolo. Il sovrapporsi con un passo del mio nuovo libro è impressionante ed in fatti mi impressiona, eppure l’ho scritto molti mesi fa e in quel momento non pensavo né a me né a lei, comunque, continuo a raccontare e lei ascolta, con attenzione.
Non conosco molte persone capaci di dedicare così tanta concentrazione alle parole altrui, all’emozioni che nella confusione del sentire si provano a spiegare, ma lei ha questa sensibilità e, senza che io me ne accorga, come una gatta affettuosa si sta occupando di me, leccando il mio disagio e incoraggiando con piccole musate i movimenti della mia anima dolorante.
Due donne ed un caffè, una casa e tanto caldo ho scritto qualche cosa di assai simile, l’ho già detto, e questo inaspettato sovrapporsi tra finzione e realtà mi fa tornare in mente una frase letta tanto tempo fa tra le note di un’opera di Oscar Wilde:” L’artista inventa e la vita cerca di copiarlo …” Eppure, in genere, siamo convinti che accada il contrario e l’immagine per noi così usale sembrerebbe confermarlo, ma così non è.
Nella mia descrizione io parlo di un dialogo speciale, che si protrae nell’immedesimazione con l’altro e nella volontà pura di riuscire a comprenderlo e quindi ad aiutarlo, eludendo proiezioni e luoghi comuni. Sarà per tutto questo, per la rarità d’intenti di cui mi sono sentita oggetto che il sapore di quel caffè non smette di aromatizzarsi tra la lingua ed il mio palato. Ma, è soprattutto qualche cos'altro a trattenersi dentro di me: il gusto per la vita che lei ha saputo infondermi. Saperla gustare, questa imperscrutabile vita non è cosa di tutti, ma lei sa farlo e sa trasmettere questa meravigliosa propensione. Quanto ne sia consapevole non lo so, però, insieme al caffè, mi tornano in mente altri piccoli particolari che ora compongono un mosaico: un piatto di di rosse ciliegie, uno sguardo eccitato per la sorpresa di una scoperta, l'ironia di saper giocare con il mondo e le sue follie e, più di ogni altra cosa, il sapore pieno e giovane del suo vivere quotidiano. La mia amica ama la vita ed i suoi gesti così come le sue parole viaggiano dentro di me da quel giorno, finalmente nitide. Il ricordo di quel torrido pomeriggio di mezz’estate è un abbraccio morbido ed accogliente nel quale per alcune ore mi sono accoccolata e che continua ad infondermi calore e sagge indicazioni.
Grazie del caffè mia cara M …e hai ragione tu: un “incontro” è una fortuna.

P.S. scusatemi amici del blog, ma non potevo riaprire il mio spazio di scrittura senza riannodare le fila ripartendo da questo buonissimo caffè. Bentornati!
PUBBLICATO DA M.CRISTINA A 7.35 9 COMMENTI
ETICHETTE: RACCONTI ED EMOZIONI

giovedì 11 settembre 2008

salutare un poeta

Vertigini o no, voglio salutare Mahmud Darwish, che ci ha lasciati ad agosto, con una sua poesia.

Mahmud Darwish
Pensa agli altri
traduzione di Francesca Maria Corrao

Prepari la tua colazione, pensa agli altri
(non dimenticare il cibo per i piccioni)
Combatti la tua guerra, pensa agli altri
(non dimenticare chi chiede la pace)
Paghi la bolletta dell´acqua, pensa agli altri
(chi si nutre di nubi)
Torni a casa, la tua casa, pensa agli altri
(non dimenticare la gente nelle tende)
Dormi e conti le stelle, pensa agli altri
(chi non ha spazio per dormire)
Liberi l´anima con le metafore, pensa agli altri
(chi ha perduto il diritto di parola)
Pensi agli altri lontani, pensa a te stesso
(dì: magari fossi candela nel buio)

mercoledì 10 settembre 2008

pazienza

Dialogo


A.
Sono guarito? Ero malato?
E il mio medico, chi è stato?
Oh, come tutto ciò ho dimenticato!

B.
Adesso sol ti credo risanato:
Ché sano è sol chi ha dimenticato.


da Friedrich W. Nietzsche La Gaia Scienza
BUR


Debbo ancora tenermi lontana dal computer, accidentaccio!

lunedì 8 settembre 2008

domenica 7 settembre 2008

vertigo per nulla blù

Mi scuso con tutti gli amici blogger. La mia autonomia al computer, prima di coprirmi di sudore e sentirmi "sbarellare", è davvero poca e mi consente a mala pena di affiggere il mio post quotidiano. Riprenderò quanto prima le mie visite ai vostri blog.

invito a tradurre


Questa poesia di Elizabeth Bishop l'ho sentita sere fa'. La legge un' esitante Cameron Diaz nel bel film In her shoes.
Non la conoscevo. E non l'ho trovata nell'edizione Adelphi delle poesie della Bishop in mio possesso. Eppure è la versione dei Complete poems del 1997! Misteri editoriali.
Comunque l'ho rintracciata in rete per voi. Della traduzione non so cosa dire. Invito voi a metterci le mani.

The art of losing

The art of losing isn't hard to master;
so many things seem filled with the intent
to be lost that their loss is no disaster.

Lose something every day. Accept the fluster
of lost door keys, the hour badly spent.
The art of losing isn't hard to master.
Then practice losing farther, losing faster:
places, and names, and where it was you meant
to travel. None of these will bring disaster.

I lost my mother's watch. And look! my last, or
next-to-last, of three loved houses went.
The art of losing isn't hard to master.
I lost two cities, lovely ones. And, vaster,
some realms I owned, two rivers, a continent.
I miss them, but it wasn't a disaster.

Even losing you (the joking voice, a gesture
I love) I shan't have lied. It's evident
the art of losing's not too hard to master
though it may look like (Write it!) like disaster.

L'arte di perdere non è difficile da imparare;
così tante cose sembrano pervase dall'intenzione
di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro.

Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento
delle chiavi perdute, dell'ora sprecata.
L'arte di perdere non è difficile da imparare.
Poi pratica lo smarrimento sempre più, perdi in fretta:
luoghi, e nomi, e destinazioni verso cui volevi viaggiare. Nessuna di queste cose causerà disastri.

Ho perduto l'orologio di mia madre.
E guarda! L'ultima, o la penultima, delle mie tre amate case.
L'arte di perdere non è difficile da imparare.
Ho perso due città, proprio graziose.
E, ancor di più, ho perso alcuni dei reami che possedevo, due fiumi, un continente. Mi sono mancati, ma non è stato un disastro.
Ho perso persino te (la voce scherzosa, un gesto che ho amato). Questa è la prova. E' evidente,
l'arte di perdere non è troppo difficile da imparare,
benché possa sembrare un vero (scrivilo!) disastro.

Di Elizabeth Bishop voglio offrirvi un'altra poesia, tratta dal volume in mio possesso.


Summer is over upon the sea.
The pleasure yacht, the social being,
that danced on the endless polished floor,
stepped and side-stepped like Fred Astaire,
is gone, is gone, docked somewhere ashore.

The friends have left, the sea is bare
that was strewn with floating, fresh green weeds.
Only the rusty-sided freighters
go past the moon's marketless craters
and the stars are the only ships of pleasure.


Sul mare l'estate è ormai finita.
Il panfilo, creatura mondana,
che ha ballato senza posa sulla pista lucida,
con passi e contropassi come Fred Astaire,
è andato, andato via, a secco in un bacino.

Gli amici sono partiti e nudo è il mare
sotto uno strame d'alghe fresche e galleggianti.
Solo i mercantili dalle fiancate rugginose passano dinanzi
ai crateri senza mercato della luna
e uniche barche da diporto sono ormai le stelle.

Traduzione di Ottavio Fatica

sabato 6 settembre 2008

giocolieri

Quando scatta il rosso lui si toglie d'un sol colpo la maglietta grigia e si piazza in mezzo alla strada, mentre le macchine ancora stanno arrestandosi; lei lo affianca d'un balzo e con un largo gesto della mano lo presenta al pubblico.
Sotto il muso delle vetture impazienti, pronte a scattare appena il verde si accenda, i due giovani fanno il loro esercizio: lei batte il tempo su un tamburo che porta a tracolla e lui inizia a lanciare i birilli.
Lei porta dei calzoncini corti bianchi e una maglietta che le arriva sotto il sedere, pesanti stivali slacciati e una bandana rosso fuoco. Lui ha una testa piena di ricci neri, lancia i suoi birilli e li riprende al volo. Sono cinque birilli rossi e lui piroetta mentre sono tutti in aria. Rullo di tamburo finale, impeccabile inchino di lui, mentre lei si accosta ai finestrini per prendere le offerte. Arretrano appena in tempo, mentre le macchine schizzano in avanti, e si siedono sulla striscia di verde che fiancheggia la grande arteria. Lui l'abbraccia ridendo mentre li supero lentamente, incantata dal loro spettacolo. Esiste un Gran Prix del Circo, vero? Beh, io saprei a chi consegnarlo...

venerdì 5 settembre 2008

versi pagani

Il soffio del vento
E il soffio dell’anima
Si sollevano insieme
E vanno nel sole.

Lietamente.

Procedono uniti
Come petali di una corolla
Senza gerarchie, inizio o fine.

Capriccioso è il vento
E l’anima curiosa.

Non sono forse una cosa sola?

Il soffio del vento e il soffio dell’anima
All'unisono s'alzano.
Dove originano non si sa.
Ma sono una cosa sola. Sì.


(2008)

giovedì 4 settembre 2008

posizione yoga?

A causa di una vertiginosa crisi di vertigini sono costretta a letto nella posizione dello "stoccafisso".

mercoledì 3 settembre 2008

lo spirito suona e canta/Montedoro canta Ginsberg

Torno a parlarvi di Gianfranca Montedoro. Nel 1972 i Living Music pubblicarono l'album "To Allen Ginsberg", in cui venivano musicate delle poesie di Ginsberg (tra cui il famoso poema Howl che fu protagonista di un processo per oscenità.) La voce era quella di Gianfranca, doppiamente straordinaria: per la sua bellezza naturale e per l'abilità tecnica. Alle tastiere Umberto Santucci e Ciccio Santucci al sax e flauto.
Io ho scelto dall'album questo brano: Mandala. Ma altri seguiranno...

martedì 2 settembre 2008

figlia di mezzo/quattordici/notti agitate

Giovane madre, la figlia di mezzo passava l’estate nella casa di campagna dei genitori, in quel crocevia fatto di astio e gelosia da una parte e noncuranza e fastidio dall’altra, che era il loro rapporto coniugale.

Stanca di inseguire in camicia da notte sua madre che in camicia da notte inseguiva il Comandante pedalante furtivamente verso appuntamenti galanti, la figlia di mezzo decise di affrontarlo.

Lo minacciò di ridicolizzarlo pubblicamente se non avesse cessato immediatamente di offendere la dignità materna, con l’esibizione della sua gagliardia, nonché della sua giovane preda, appena più giovane della figlia di mezzo.
L’ordine furibondo fu: massima discrezione.
Così la figlia di mezzo ottenne per se stessa e per la madre notti più tranquille.
Ma pagò quel gesto di solidarietà femminile con l’ostilità del Comandante, che sapeva sì perdere ma anche ricordare.

Il paradosso consisteva nel gelido senso di giustizia che portava la figlia di mezzo, appassionatamente innamorata del Comandante, ad affrontarlo, unica tra le figlie, nella difesa di una madre cui il suo cuore sentiva di poter dare quest' unico tributo.

lunedì 1 settembre 2008

storia della felicità/dodici/John Stuart Mill e Max Weber: ti odio capitale


John Stuart Mill fu tirato su a pane e Bentham. Di conseguenza niente felicità trascendente per lui, ma democrazia e utilitarismo. Eppure una fede Mill la ebbe: proprio la fede nella felicità, nel "principio di utilità" tanto che ne fece, giovanissimo, lo scopo della sua attività intellettuale.

Su questa fede si abbattè come un'onda una depressione clinica, che egli combatté con un sistema assolutamente originale. Si crogiolò e impastoiò ben bene nelle più disperate, sconsolate e deprimenti poesie del romanticismo inglese: Coleridge e Wordsworth.
Un anno di questa cura e la depressione, inorridita, rinculò.
In realtà, e tornando seria, la poesia gli servì per coltivare la sua emotività, per metterlo in armonia con il lato sentimentale ed immaginativo del suo spirito.
Scoprì inoltre che è meglio essere un essere umano insoddisfatto che un maiale soddisfatto: "è meglio essere Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto". (C'è poco Bentham in questo).
La felicità ha per Mill un presupposto: la libertà. E' la libertà che ci consente di progettare la nostra vita e di indirizzarla verso la felicità. Per questo scrive a sostegno della liberazione delle donne: essa comporterebbe un "indicibile aumento della felicità privata di metà dell'umanità, finalmente liberata." Grazie, dear.
Mill mette in guardia contro una pericolosa categoria di pensiero che attenta alla nostra felicità: il mercato. "Diffondiamo l'idea che il pericolo più serio, per le prospettive future dell'umanità sta nell'influenza non contrastata dello spirito commerciale..."
Ciò che davvero voleva contrastare era l'appiattimento su immagini di felicità eterodirette, capaci di rendere gli individui massa indistinta tesa solo ad aumentare la sua fortuna e a compiacersi dei propri beni.
C'era ancora spazio per combattere questa tendenza?
Quanti davvero avrebbero preferito, con lui, essere Socrate?

E' sorprendente quanti studiosi della felicità abbiano vissuto periodi, più o meno lunghi, di depressione clinica. Un altro è Max Weber.



L'America vista da Max Weber , che vi soggiornò nel 1904, era percorsa da una cultura pervasiva e ineluttabile: lo spirito del capitalismo. La previsione di Weber è lapidaria: qualunque cosa avesse tentato di opporsi "alla cultura del capitalismo sarebbe stato distrutto con forza irresistibile."

Ne "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo", come è noto, Weber individua l'origine di quest'ultimo nell'idea protestante che il lavoro è una missione divina e che il successo, rappresentato spesso dall'accumulazione di capitale, costituisce un segno del favore divino. La tendenza a rimandare il godimento dei beni, l'uso della parsimonia e l'operosità crea capitale.
Ma quando si godranno i frutti del proprio lavoro? L'etica protestante rimanda questo godimento ad un futuro indefinito, perché la felicità che il lavoro promette di guadagnare finisce con il coincidere con il lavoro e il sacrificio stesso; in questa concezione "un uomo esiste per il proprio lavoro e non viceversa", osserva, criticamente, Weber.
Egli intuisce anche che la continua produzione di beni, oggetti, macchine, comodità varie, che il lavoro indefesso consente, sta trasformando, se non addirittura sostituendo, il concetto di felicità.
Al termine della sua opera, lucidamente descrive la società del consumo che nasceva in quegli anni: "I beni materiali hanno acquisito un crescente e infine un inesorabile potere sulla vita degli uomini, come in nessun altro periodo della storia."
Eppure per Weber non sarà la legislazione sociale a darci la felicità. Essa pone solo le basi per un vivere senza angosce materiali. E la politica deve solo creare le condizioni di libertà che garantiscano a tutti il perseguimento della felicità.
Quello che può sollevare l'animo umano e fargli realizzare il suo vero scopo è "la sua responsabilità personale, la sua profonda dedizione alle cose più alte, ai valori spirituali e morali dell'umanità...". Non ci sono però ricette né scientifiche, né filosofiche, né sociali per il raggiungimento di questo scopo.