lunedì 31 dicembre 2007

Si raccolgono auguri. Chiunque può partecipare

Ecco qui gli auguri di Anna, che ringrazio:


Ai metereopatici,il sole
alle casalinghe,la riconoscenza
ai genitori, la saggezza
ai figli,l'amore
agli scontrosi,gli incontri
ai socievoli,l'allegria
agli antipatici, gli antipatici
ai simpatici,i baci
ai datori di lavoro, i dipendenti coscienziosi
ai dipendenti,i datori di lavoro onesti
a noi, la felicità.

Ed ecco l'augurio di Paoladeigatti:
A tutti coloro che hanno bisogno di gioia e comprensione, una piccola tribù pelosa!


Grazie a Finazio che ha risposto al mio invito. Ed ecco i suoi auguri:

Cosa potrei mai aggiungere a quest'opera già completa? Da infermiere preciserei:
ai politici, dissenteria
e che l'unica farmacia aperta,
lontana alla fine del mondo,
abbia esaurito le scorte di lopemide, imodium e bimixin
e per sbaglio vi dia ancora
guttalax
guttalax
guttalax
ed una manciata
di fave di fuca.

Poi c'è l'augurio che considero speciale del Piccolo Lord: Auguroni a tutti! E' semplice ma accompagnato da una bella faccia sorridente! Grazie.
Si è aggiunto l'augurio di Blonde

"no, i brufoli no!
la scelta, sì sì sì :-))))
bellissime le filastrocche di marina, anna, finazio.
io parto contenta, che pare sia l'anno del Toro (bhà..)
auguri a tutti e complimenti: anche quest'anno, ne siamo usciti vivi."

Sono arrivati gli auguri di Banana
"Auguri a chi preferisce passare un ultimo dell'anno con pochi amici piuttosto che in un party anonimo.
Auguri a chi a mezzanotte spaccata se ne va sul terrazzo a cantare a squarciagola
Auguri a chi alla mezzanotte ha avuto intorno le persone più care da abbracciare e baciare.
Auguri a chi si è accorto che era mezzanotte solo dopo 5minuti.
Auguri a chi si è lasciato andare alle emozioni!
Auguri a chi, troppo preso da sè stesso è rimasto solo!
Auguri ai buoni propositi per l'anno nuovo, a quelli detti ma soprattutto a quelli non detti!
Auguri al 2007 appena passato e un ringraziamento per quello che ci ha regalato
Infine auguri al nascente 2008 e a chi spera che quest'anno gli dia la forza per essere sè stesso!
Banana"


Sono arrivati, graditissimi, gli auguri del "rockpoeta che ringrazio.

"Ai diseredati l'oblio
Per non sentire il dolore
Per addormentare il cervello
In un formicolio di salvezza
In attesa, forse, di tempi migliori

Ai giovani le pensioni

A me il buio
Perchè la luce abbagliando inganna

DANIELE VERZETTI, ROCKPOETA"

Avanti il prossimo augurio! Non c'è limite di tempo.

che cosa voglio augurare a chi

Che cosa voglio augurare a chi

Ai pazienti, l’impulso.
Ai fedeli, la tentazione.
Ai saggi, la birichinata.
Ai tristi, la risata.
Agli ottimisti, il dubbio.
Ai pessimisti, la speranza.

Ai coerenti, lo scarto.
Ai volubili, la tenacia.
Agli stonati, il canto.
Agli impacciati, il tango.
Ai previdenti, l’improvvisazione.
Ai pavidi, l’impennata.

Ai sognatori, la lucidità.
Ai realisti, l’immaginazione.
Ai matematici, la poesia.
Ai poeti, l’ispirazione.
Agli invidiosi, l’invidia.
Ai vanitosi, brufoli.

Ai traditi, l’indifferenza.
Ai traditori, la delusione.
Ai superbi, l’umiliazione.
Agli irascibili, la flemma.
Ai golosi, l’abbuffata.
Ai lussuriosi, la scelta.

Agli avari, lo scippo.
Agli accidiosi, il divano.
Ai comici, il mestiere.
Ai bambini, l’infanzia.
Ai vecchi, un progetto.
Ai giovani, il futuro.

Agli ubbidienti, la ribellione.
Ai ribelli, la ribellione.
Ai pacifisti, la moltiplicazione.
Ai guerrafondai, la sconfitta.
Ai benpensanti, lo scandalo.
Agli intellettuali, l’intelletto.

Ai cacciatori, cilecca.
Ai solitari, un cane.
Ai solitari, anche un gatto.
Ai saccenti, l’afasia.
Agli invadenti, steccati.
Agli ossessivi, infrazioni.

Ai paranoici, sollievo.
Ai timidi, l’avance.
Ai romantici, il risveglio.
Ai cinici, l’incanto.
Agli impudenti, il rossore.
Agli scrittori, un editore.

Agli ipocondriaci, un check-up.
Ai depressi, comprensione.
Ai claustrofobici, spazio.
Ai violenti, botte.
Ai conservatori, una rivoluzione.
Ai nostalgici, una canzone.

Ai razzisti, il precipizio.
Ai presuntuosi, consapevolezza.
Agli immemori, la storia.
Alle donne, la coscienza.
Agli uomini, la resipiscenza.
Ai politici, dissenteria.

Ai morti, pace
Ai vivi, pace
A me, tutti voi.

CHIUNQUE PUO’ CONTRIBUIRE CON I SUOI AUGURI PERSONALI

domenica 30 dicembre 2007

con dolore

Speravamo che almeno Giuseppe De Masi riuscisse a sopravvivere all'incendio della ThyssenKrupp. Ma non ce l'ha fatta. Il suo cuore ha ceduto. Aveva solo 26 anni. Nel nostro paese l'anno si chiude con questa ennesima morte sul lavoro.
Verrà fatta giustizia?

reale/irreale

Sono stata al Palazzo delle Esposizioni per vedere la Mostra su Rothko e ho scoperto Gregory Crewdson, fotografo americano di cui ignoravo persino l’esistenza. Ma i suoi lavori mi hanno colpita straordinariamente.



Tenete conto che parla una persona priva di ogni conoscenza in questo campo artistico e quindi anche del linguaggio per commentarle. Ma molto coinvolta da quello che ha visto.
Mi ha colpito la tecnica e il discorso che, secondo me, c’è sotto. Le scene delle foto sono costruite fin nel minimo dettaglio, come se si aprisse il sipario su un palcoscenico minuziosamente preparato per la rappresentazione. E come se la rappresentazione iniziasse e terminasse con la scena pronta lì sul palcoscenico. Non esiste un primo, un secondo ed un terzo atto. Esiste solo la prima scena del primo atto. Gli attori fermi immobili, raccontano la loro storia senza fare o dire nulla. Sembrerebbe impossibile, ma è così: quelle foto raccontano delle storie. Guardandole intere trame ci passano per la mente, prologhi, fatti, epiloghi. Sono storie terribili.



Le foto rappresentano interni di case americane, stanze da letto, tinelli, cucine.
Donne magre, con piccoli seni vizzi, scalze, siedono sulla sponda del letto, o stanno in piedi volte verso la finestra. Hanno spalle strette, colli esili, le braccia lungo i fianchi, gli sguardi vuoti. A guardarle viene freddo.




Intorno ad una tavola apparecchiata, con un enorme arrosto sanguinolento in primo piano, un uomo ed una donna siedono senza guardarsi, composti, assenti.
Le case sono piene di cose: lumi, soprammobili, tappezzerie a fiori, quadri alle pareti, lenzuola colorate, coperte in disordine. Eppure l’effetto è di una grande povertà.
Che cosa rende povere quelle persone? Quello che suggeriscono a me è che quelle vite, non sono vite, ma rappresentazioni di vite. Forse è questo che Crewdson ci dice. Lui rappresenta scene che sono già di per sé rappresentazioni, atone, vuote, mute della vita. E’ una immagine dell’America angosciante, come se su quella parte di mondo fosse passata l’Apocalisse, un’Apocalisse che immobilizza e ammutolisce, lasciando tutto esattamente al suo posto.



Nelle strade grosse macchine con gli sportelli aperti, aspettano sole, che qualcuno le rimetta in moto. Ma è chiaro che nessuno lo farà. Una donna con un carrello sta accanto ad una macchina con il portabagagli aperto, davanti ad un supermercato accecante di luci. Immota sembra accusare l’inutilità di quegli acquisti e di ogni altro gesto.
Cose e persone. Poi passi davanti ad una foto in cui vedi dei fiori in primo piano. Enormi tulipani rossi e gialli e hai un soprassalto di sollievo e di speranza. Ti accorgi solo dopo che in basso, un animale morto giace, già in decomposizione, tra gli steli di quei fiori.
Sembra che Crewdson sia passato con la sua mano a spegnere ogni scintillio di vita in ogni sguardo e ogni fremito di vita in ogni gesto, in ogni muscolo. Sono foto terribili, ma piene di un fascino inspiegabile.
Solo un cane è sfuggito alla messa in scena del fotografo. Si capisce che gli è stato chiesto di stare fermo e che è stato sistemato sulla scena con accuratezza. Il cane ha ubbidito. E’ composto, in posa sullo sfondo di una scena vagamente inquietante. Ma lo sguardo è vivo, luminoso, persino ridente. Si ribella all’opera di morti-ficazione di Crewdson. Prima di lasciare la mostra, dopo decine di questi enormi quadri, interni od esterni con luci calde o livide ma sempre laterali, sfuggenti e corpi sempre immoti che parlano di vite morte, vite spente, vite finzioni-niente sguardi, amore, comunicazione, baruffa- sento il bisogno di tornare a quello sguardo di cane.
Vorrei potervelo far vedere, ma il catalogo era davvero troppo caro.

nulla da perdere

Ieri mattina ho scoperto di aver perso un guanto.

-------- --------- -------- PERDERE---------- --------- ----------


Quando si perde un guanto, e si vorrebbe, almeno, averli persi entrambi.

Quando si perde l’aereo perché il passaporto è scaduto e quando vai dall’analista lui ti dice: forse non voleva partire. E tu ammetti: non volevo partire. E ti metti a piangere.

Quando si perde un’amica e sei tentata di dirti che non era un’amica. Invece lo era, ma non buona.

Quando si perde un padre e si perde se stessi.

Quando si perde col Manchester per 7 a 1 e si spera in un incubo, ma si scopre di essere svegli.

Quando si perdono le elezioni per quarant’anni. E la prima volta che le vinci fai le quattro del mattino a ballare in strada. Impari la tarantella dall’Ordinaria di Antropologia culturale e la balli col presidente dell’Eni.

Quando si perde la pazienza e il piccolo particolare sopportato per anni non è più tollerabile. E l’intero ingranaggio di una relazione rischia di incepparsi.

Quando si perde il controllo dell’auto e mentre si cappotta si pensa “vediamo com’è morire”.

Quando si perde l’utero e ci si sente anomala e poi si scopre che si vive bene anche senza. Si ringrazia l’illuminismo e si butta la pillola nel cesso.

Quando si perde un amico perché ha scelto di andarsene e non riesci neanche a piangere.

Quando si perde tempo, perché non si ha proprio voglia di uscire. Vuoi restare a leggere e ti chiedi perché non sei solo sulla faccia della terra.

Quando si perde il tempo mentre si canta una fuga di Mozart e si attende sempre più ansiosi il momento di rientrare. Il momento non sembra mai quello buono, la fuga finisce e vorresti lanciare lo spartito dalla finestra.

Quando qualcuno intorno a te perde un figlio. Silenzio.

Quando si perde il numero di un vecchio amico e ci sembra di aver perso un’ancora. Ma esiste Internet e scopri che vive ancora a due passi da te, suona il samba e ti vuole ancora bene.

Quando si perde confidenza con una sorella e non si sa da dove ricominciare.

Quando si perdono 50.000 euro perché tua sorella oltre che taciturna è scema. Ma siccome le vuoi bene dichiari: degli euro me ne frego. E scopri che è proprio così.

Quando si perdono gli slip mentre si sta alla fermata dell’autobus e non resta altro da fare che sfilarseli elegantemente e metterseli in tasca.

Quando si perde la strada per Tigounit e non si saprà mai se esiste o no.

Quando si perde un amore e anche se non lo si ama più si vorrebbe amarlo ancora.

Quando si perde il sonno ma si scopre che si guadagna tempo di vita.

Quando si perde l’appetito. Si perde l’appetito!?!?

Quando si perde una maglia e lo si scopre dopo venti ferri. Guastare e ricominciare significa non perdere la pazienza.

Quando si perde la bussola perché alla sua prima uscita parigina tua figlia adolescente sparisce in mezzo agli scontri di una manif. E allora ti sembra che dichiarare ad alta voce “Voglio mia figlia” la riporterà da te.

Quando si perdono le tracce di Tarta perché ha cambiato posto di letargo. Non puoi più coprirla di paglia e hai paura che senta freddo. Ciò nonostante sei pronta a donarla a qualcuno al suo risveglio.

Quando si perde peso e si rindossano con soddisfazione i jeans di vent’anni fa’. Esperienza transitoria.

Quando si perde la parola davanti alla decisione dei tuoi eletti di non votare per il registro delle coppie di fatto. Quando la ritrovi ti esprimi come un carrettiere. Ubriaco.

Quando si perde il pullman per Oaxaca e avendo perso anche i soldi si passa la notte nella stazione degli autobus di Merida sdraiata su una panca con i piedi di un bambino yucateca sullo stomaco.

Quando si perde un libro perché lo si è prestato e nei successivi cinquant’anni non si prestano più libri.

Quando si perde la presa. Sulla realtà, sulla propria vita, su ogni altro psicofenomeno e ti dicono: reagisci. E l’unica reazione possibile che viene in mente a te non è quella che hanno in mente loro e così soprassiedi.

Quando qualcuno perde insieme il senso del ridicolo, il senso della realtà, il senso del limite ed ogni altro senso, e dichiara che la legge sull’ istigazione all’omofobia come reato non è passata perché Dio, interpellato dalle sue preghiere, ha fatto in modo che...
E tu ti dici: Spassosa ‘sta Binetti, vorrei conoscerla.

Quando qualcuno perde il lavoro e si uccide. E la stampa scrive che era depresso. Invece era disoccupato.

Quando si perde coscienza e si vaga nel nulla dell’anestetico finché qualcuno non ti grida nelle orecchie: come ti chiami? come ti chiami? E hai appena la forza di rispondergli: Marina, ma-cche-ccazzo-urli?!

Quando si perde il portafoglio lasciandolo sulla cassa della Upim. Lo stipendio appena ritirato se n’è andato assieme a tutti i documenti e il carabiniere cui presenti denuncia, ti chiede: Ha sospetti? E tu ometti di rispondergli: sì, sospetto che lei sia cretino.

Quando si perde l’olio della macchina e i ragazzini ti gridano: buttala professò! E tu scendi e li mandi a comprare una lattina. Tiè!

Quando qualcuno perde i capelli ma si fa un bell’impianto e loro ricrescono più belli che pria. E tu guardi il soggetto e ti chiedi: e per le palle che cosa s’inventerà?

Quando si perde la giovinezza. Quando, si perde la giovinezza? Non si sa, ma avviene all’improvviso. L’ultima volta che hai pensato alla tua età avevi 38 anni e ora ne hai 64. Dove si presenta reclamo?

Quando si perde la mano perché la tua compagna ha fatto l’impasse dalla parte sbagliata. Sorridi come una vera signora ma giuri che a bridge con lei non ci giocherai mai più.

Quando si perde la vita. Ma non ha un gran senso parlarne, perché tanto, dopo, non lo sai.



Quando si perde un’occasione, si perde la guerra, si perde velocità, si perde il ritmo, si perde la testa, si perde il passo, si perde la faccia, si perde sangue, si perde l’onore, si perde la libertà, si perde la dignità, si perde credito, si perde la fede, si perde l’abitudine, si perde il filo del discorso, si perde l’innocenza, si perde la verginità.....
Qualcuno vuole raccontare qualche perdita?
Tanto non ha nulla da perdere.

Ah, e poi naturalmente ognuno può “perdersi”.
Ci si può perdere nella ressa, ci si può perdere in mare, ci si può perdere d’animo, ci si può perdere in un bicchiere d’acqua, ci si può perdere dietro a qualcosa...
Sì, del “perdersi” sento di volermi occupare.

sabato 29 dicembre 2007

personale ma non troppo/tre testimonianze

Ecco le tre testimonianze con cui chiudo il discorso sulla depressione:

Una risale all'agosto del 1997. Su la Repubblica, nello spazio riservato ai lettori, comparve una lettera di un medico napoletano. La inserisco interamente per due ragioni: perché parla della condizione di vita di una persona depressa con cognizione di causa e perché la descrive nel modo tranquillo e libero con cui si potrebbe parlare di una propria qualsiasi patologia.
Inoltre la straordinaria nota di serenità con cui la lettera si conclude, mi trasmise un messaggio realisticamente fiducioso che mi ha accompagnata per anni e che sempre mi accompagna. E che potrei in ogni momento confermare.



La seconda testimonianza è di un anno prima e consiste in un lungo articolo di Umberto Galimberti comparso sempre su la Repubblica. Umberto Galimberti, laureato in Filosofia, ha insegnato Antropologia culturale, Filosofia della storia, Filosofia Morale e insegna attualmente Psicologia dinamica. È psicoanalista di scuola junghiana. Ha scritto numerosi testi di filosofia, psicologia e psicanalisi, tra cui un preziosissimo Dizionario di Psicologia (Utet). I suoi interventi sul Sole XXIV ore e su la Repubblica indagano la nostra società e le sue più inquietanti manifestazioni con una lucidità che apprezzo molto.
Ciò nonostante vale per lui quello che, secondo me, vale per quasi tutti coloro che, nella stampa del nostro paese, vengono definiti Filosofi. E cioè che uno studioso che insegna Filosofia, non è un filosofo più di quanto uno studioso di Letteratura sia un poeta.
Ma per tornare all’articolo in questione, che non riporto perché occupa due intere pagine, in esso Galimberti ingaggia una battaglia contro “la psicologia cosiddetta 'scientifica'." Le virgolette sono sue. Lo fa in nome della psicologia come arte dell’interpretazione, criticando con velenosa e sapida ironia, il desiderio degli psicologi di emanciparsi dalla Filosofia. Si appoggia a Husserl, Wittgenstein, Kant per sostenere, in estrema sintesi, che la tematica della psicologia si sottrae naturaliter al metodo scientifico, poiché la scienza è un' ideazione dell’uomo e questo non può essere giudicato da una sua ideazione. Il gatto della mente umana, morde la coda alla scienza prodotta dalla mente umana. O viceversa. Personalmente concordo con Galimberti sul fatto che la psicologia non sia una scienza ma apprezzo gli sforzi che fa per aprirsi al metodo scientifico e alle sue procedure. Laboratori per lo studio del comportamento, osservazione, misurabilità, simulazione di modelli, adozione di procedure statistiche, attenzione agli studi della biologia. Penso anche che la collaborazione tra le neuroscienze, la psicologia, la psicoanalisi e, perché no, la Filosofia possa dare frutti al momento insperati.
Nello stesso articolo (e in altri successivi di conferma) Galimberti condanna anche “l’approccio organicistico della Psichiatria” al problema della sofferenza mentale, proprio perché la Psichiatria respinge l’interpretazione delle malattie psichiche e si occupa di trovare "cause e terapie farmacologiche". (Già qui un dubbio, retorico, mi scosse: perché la specializzazione medica che si occupa di patologie psichiche non dovrebbe ricercarne le cause e terapie farmacologiche, in favore invece di una interpretazione?) Porta come esempio, i malati di depressione che la Psichiatria" avrebbe ridotto "a drogati che cercano nelle farmacie la risposta al dolore della vita, che dovrebbero interpretare invece di voler dimenticare."
Confesso di essere rimasta particolarmente ferita da questa descrizione, e colpita dalla superficialità e, in definitiva, dalla mancanza di comprensione, sensibilità ed empatia di una persona che esercita la psicoanalisi. Né mi hanno consolata i successivi, infiammati articoli di numerosi psichiatri, psicologi, biologi, intervenuti a difendere la mia sofferenza ed il mio diritto a cercare di uscirne senza essere considerata una drogata e una imbelle.
So bene che spesso dietro queste querelle si nascondono volgari interessi di bottega e che sulla mente dolorante del malato psichico si danno battaglia diversi specialisti (psicologi, filosofi, psicanalisti, psichiatri, farmacologi, terapeuti di diversi e spesso improbabili indirizzi, ecc) in difesa della loro fetta di mercato, o del loro prestigio, ma trovo che in quella occasione il Professor Galimberti abbia davvero superato un limite di accettabilità dialettica.
A suo modo, comunque, anche quell’articolo, passata la prima rabbiosa reazione-che mi portò a scrivergli la mia veemente protesta- mi fu utile: chiarì a me stessa la semplice verità che “interpretare” la mia sofferenza era per me un bisogno secondario rispetto a quello di trovarne sollievo. Ho detto secondario e non inesistente.


La terza testimonianza è ancora precedente. È un articolo del 1995 comparso sull’Unità. È un incontro-intervista con Dante Arfelli che di lì a poco scomparve, all’età di 74 anni.
Dante Arfelli è uno scrittore italiano con una storia letteraria molto particolare ed un percorso di vita molto doloroso.
A soli 28 anni, nel 1948, pubblicò un primo romanzo, bellissimo, che ebbe uno straordinario successo, di pubblico e di critica: I superflui. Ne seguirono altri finché entrò in depressione. “Ho perso le parole” disse del suo stato e smise di scrivere.
Combatté con la sua malattia per trent’anni; la raccontò, in periodi di remissione, con ironia e incanto insieme. Nel settembre del 1995, malato di Parkinson, da una casa-albergo dove era ricoverato, parlò dei suoi desideri e dei suoi progetti. Riassumibili in uno solo: scrivere, scrivere, scrivere. “Ho ritrovato le parole”.
Nell’articolo prendeva di petto praticamente tutto e tutti: la sua malattia e i modi inappropriati di curarla, il mondo letterario, la società moderna e i suoi feticci e, soprattutto, a 74 anni, si proiettava in avanti, verso un nuovo libro che aveva già tutto in mente e con il quale si preparava a riprendere nel panorama letterario italiano, il posto che gli spettava e che la malattia gli aveva rubato. Ne usciva uno spirito così ironico, una chiarezza di pensiero, un’energia vitale così vibrante che me ne innamorai.
E la storia del mio rapporto con la scrittura che, in quel momento, sembrava essersi chiusa con me che distruggevo tutto quello che avevo scritto in 35 anni di vita, mi apparve sotto una luce diversa. Le parole si perdono, ma si possono ritrovare. Al di là di qualsiasi confronto tra di noi, Dante Arfelli mi disse che le parole si possono ritrovare.



Ho raccontato questi tre episodi in un ordine cronologico inverso per rispettare l'ordine con cui lavorarono su di me. Infatti i primi due in ordine di tempo, (quello su Arfelli e quello di Galimberti), dopo una prima ma in fondo superficiale reazione, stettero un po’ lì a lavorare dentro di me, e trovarono il loro posto definitivo e significativo nella mia coscienza, in anni successivi. “Riemersero” più o meno in concomitanza con la lettera del dottor D’amiceno, che considero un amico pur non avendolo mai conosciuto.
Fine.

venerdì 28 dicembre 2007

Depressione/fine/io ti curerò

Tranquilli, stiamo per chiudere il discorso su mal di vivere e depressione. Mi ero ripromessa di terminare prima della fine dell’anno e ci siamo: con questo post termina la carrellata storica.
Un piccolo supplemento vi verrà però inflitto domani. Vorrei infatti aggiungere tre piccoli ricordi personali. Non il racconto della mia depressione, di nessun interesse, ma il racconto di tre episodi che mi sembrano di qualche significato.


Anselmo Bucci "La Bigia" 1922


Passare dal ‘mal di vivere’ a parlare della depressione clinica comporta un salto di responsabilità verso le persone che casualmente passino sul mio blog.
Il Web ospita tutto, in un disordine caotico e privo di gerarchie. Questo fa il suo fascino, ma naturalmente è anche la sua insidia.
Prima di farlo desidero perciò fare qualche premessa.

La prima premessa è che, anche se le mie affermazioni sulla depressione (origini, terapie, approcci, significati, conseguenze, interpretazioni) sono quelle sostenute dalla ricerca scientifica, suffragate dall’esperienza -personale e non- e dallo studio e da letture costanti e protratte nel corso di diciasette anni, non intendo in alcun modo presentarle come modello di pensiero cui uniformarsi. E il mio discorso non è volto a svolgere opera di persuasione nei confronti di chicchessia.
Ho troppo rispetto per la sofferenza dei miei simili per entrare in forma prescrittiva o paternalistica nelle loro vite. Nello stesso tempo mi sento libera di esporre quanto fin qui ho appreso.




La seconda è che, se ci si dedica alla lettura dei numerosi testi scientifici pubblicati negli ultimi dieci anni sulla depressione, si scopre che non esistono divergenze sostanziali tra coloro che si occupano di depressione, che l’hanno studiata e che continuano a studiarla. Si scopre anche che sulla propria depressione cominciano a scrivere numerose persone, da scrittori (William Styron “Un’oscurità trasparente”; Pierre Daninos "Le 36ème Dessous"; V.S. Naipaul "L'enigma dell'arrivo") filosofi (Clément Rosset "La route de nuit"), fino a quella che è universalmente riconosciuta come uno dei massimi esperti mondiali di questa patologia: la psicologa clinica Kay Redfield Jamison "An unquiet mind".




La terza premessa è che ho scelto come autore di riferimento il Professor Giovanni Jervis e, in particolare, un suo smilzo, ma prezioso libretto a scopo esclusivamente, ma rigorosamente, divulgativo: "La depressione" Il Mulino 2002. Di Giovanni Jervis un riduttivo curriculum, che chiunque può rintracciare, segnala la sua laurea in Medicina, le specializzazioni in Neurologia e in Psichiatria, la successiva laurea in Filosofia, la sua collaborazione con l’etnologo De Martino e quella con Franco Basaglia nella Comunità terapeutica di Gorizia, la formazione psicoanalitica freudiana, l’esperienza nella direzione del Servizio Sanitario Psichiatrico di Reggio Emilia, la cattedra di Psicologia Dinamica nella Facoltà di Psicologia della Sapienza di Roma e le numerose pubblicazioni, sia strettamente specialistiche che divulgative. Un curriculum che dimostra come, nel corso della sua vita, abbia affrontato il tema della sofferenza psichica senza tralasciarne nessuno degli aspetti ed anzi con un’attenzione privilegiata alle problematiche sociali e psicologiche.
A proposito di se stesso Giovanni Jervis dice di appartenere “al novero di coloro che non considerano le esperienze umane come riconducibili a parametri misurabili” e, a proposito della depressione, che “l’esperienza soggettiva intimamente vissuta della depressione è quella che meno sembra prestarsi a venir analizzata dall’esterno.
Piuttosto il disturbo depressivo appare come un dolore non descrivibile, un vuoto oscuro e maligno una mancanza che si apre su una dimensione inquietante e però forse universale della nostra mente.
Non pochi aspetti della depressione ci rimangono tuttora sconosciuti. Eppure, malgrado questo, e malgrado che talune dimensioni del problema non appaiano direttamente sondabili dalla scienza, nell’insieme questo disturbo può essere studiato e, soprattutto, può essere efficacemente curato.”

Smettiamo di premettere e passiamo a dire.

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La depressione di cui parliamo qui non è quello stato occasionale e transitorio di scoraggiamento, tristezza e persino disperazione, in cui chiunque può trovarsi per eventi della propria vita o anche senza ragione, in certe giornate “no”.
È un vero disturbo psichico, e’ uno dei possibili “slittamenti” patologici della nostra mente, ovvero è uno stato mentale alterato.

Una delle definizioni di depressione maggiormente diffuse, generalmente accettata dalla comunità scientifica internazionale, è riportata nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, della American Psychiatric Association, giunto alla sua quarta edizione (DSM IV).
La prima avvertenza del DSM IV è che una persona non È depressa, ma ha una depressione.

In esso la diagnosi di depressione viene basata sul riscontro della presenza di alcuni dei seguenti sintomi: umore depresso per la maggior parte della giornata; marcata riduzione dell’interesse o del piacere a svolgere le attività quotidiane; perdita o aumento significativo di peso; insonnia o eccesso di sonno; agitazione o ritardo motorio; senso di affaticamento e perdita di energia; sentimenti di inadeguatezza o di colpa; ridotta capacità di ideazione o di concentrazione; indecisione; pensieri ricorrenti di morte, idee di suicidio.
La presenza e la diversa concomitanza solo di alcuni di questi sintomi, come pure la durata degli stessi, porta a diagnosi di diversa gravità depressiva. Spesso la depressione si associa ad altri disturbi mentali quali la sindrome ossessivo-compulsiva, i disturbi da attacchi di panico, le alterazioni del comportamento alimentare, l’ansia.
La depressione è quindi essenzialmente un' alterazione dell’umore, e non ha nulla a che vedere con le nevrosi.
Esistono diversi tipi di depressioni, da quelle lievi e temporanee rapidamente riassorbibili fino alla depressione maggiore. Le più diffuse sono: distimìa, distimìa disforica, depressione subclinica, depressione “sorridente” (mascherata ), ciclotimia, depressione stagionale (che tende a comparire regolarmente con l’accorciarsi autunnale delle giornate), depressione psicotica, disturbo bipolare (un tentativo paradossale del nostro cervello di ribilanciare il tono dell’umore), depressione cronica e depressione maggiore. Questa è un disturbo grave, in primo luogo per il rischio di suicidio, ma, anche prescindendone, per lo stato di sofferenza soggettiva e l’estrema angoscia che ne fanno una condizione di vita atroce.

Le cause della depressione sono ancora oggi imperfettamente note.
Ci può essere una predisposizione genetica.
A prescindere dalla depressione, in generale, l’effetto dei nostri geni non è affatto automatico e neppure agisce sul nostro corpo fin dalla nascita. Alcuni geni rimangono “silenti” per anni. Molti cominciano ad agire solo per lo stimolo di eventi esterni. Un meccanismo del genere potrebbe agire per la depressione.
Una delle ipotesi è che taluni eventi sfavorevoli di vita (lutti, fallimenti personali o relazionali, malattie altre) possano contribuire a determinare in soggetti geneticamente predisposti, scompensi funzionali cerebrali di tipo biochimico.
In particolare scompensi relativi a taluni “mediatori chimici’, o neurotrasmettitori, e soprattutto scompensi relativi ai recettori cellulari di questi mediatori. L’importanza dei fattori genetici è confermata dagli studi sui gemelli.
Entrando appena un po’ nei dettagli, allo stato depressivo corrisponde una produzione deficitaria di serotonina e noradrenalina, i due principali neurotrasmettitori, piccole molecole che permettono il passaggio degli impulsi elettrici da un neurone all’altro attraverso le sinapsi. In genere si aggiunge una produzione troppo elevata di cortisolo, un ormone.

Nel 50% dei casi, la predisposizione divenuta attiva tenda ad esserlo e ad agire in modo ricorrente, forse per tutta la vita.
I casi di depressione “permanente” sono rari, anche la depressione cronica, infatti, conosce periodizzazioni. Lo scompenso torna però in genere a manifestarsi a distanza di mesi o anni.

Qualche statistica sulla diffusione. In un “oggi” qualsiasi il 5% della popolazione è colpita da depressione, mentre il 17% ne ha già sofferto o ne soffrirà.
Le cifre sono impressionanti ma quello che c’è di buono è che in più dell’80% dei casi la risposta al trattamento farmacologico è pienamente soddisfacente.
Trattamento farmacologico significa psicofarmaci. Per la descrizione del meccanismo di azione dei farmaci antidepressivi rimando ad un articolo chiaro ed esauriente di Ennio Esposito e Pasquale Liguori su Le Scienze (Febbraio 1996).
Qui mi limiterò a dire che questi farmaci riequilibrano la funzione dei sistemi neuronali.


Il vero problema della depressione quindi non consiste in una difficoltà a trovare cure efficaci bensì nel fatto che un numero molto grande di persone affette da questa patologia non viene curato.
Il motivo principale consiste nel fatto che spesso la depressione non viene percepita come malattia né dalla persona interessata né spesso dai familiari.
Inoltre spesso al malato ripugna l’idea di un trattamento con medicine. La sostanza chimica viene avvertita come qualcosa di artificioso e brutale che pretende di ridurre la persona ad una macchina guasta e nega la dignità della soffrenza.

In questo rifiuto degli antidepressivi entrano in gioco anche fattori culturali.
Veri e propri stereotipi, pregiudizi, o improprie semplificazioni giornalistiche, nonché mitologie popolari e della media cultura o vere e proprie leggende metropolitane.
In Italia questi pregiudizi si esprimono attraverso affermazioni di questo tipo:

-trattare la depressione con psicolfarmaci è pratica recente e quindi poco sperimentata. NON è vero: gli antidepressivi vengono usati da 40 anni.

-esiste pericolo di abuso di psicofarmaci. Questo é vero ma NON riguarda gli antidepressivi. Sono i tranquillanti, i sonniferi, gli psicostimolanti di cui si fa abuso. In Italia non sono mai stati segnalati casi di abuso o di impiego voluttuario o commercio illegale di antidepressivi. NON UN SOLO CASO.

-queste “droghe” allontanano la persona dalla realtà e si configurano come pillole della felicità. NON è vero. Persino il famoso “prozac” (nome commerciale di un antidepressivo non più efficace di altri) non ha effetto euforizzante, combatte la depressione in chi è depresso ma non modifica il tono dell' umore di chi sta bene. È perfettamente inutile prenderlo, come sa qualunque persona tendente all’uso di droghe.

-gli antidepressivi reprimomo il sintomo ma non combattono il disagio. Questo è vero nel senso che l’efficacia si limita al periodo di tempo in cui vengono effettivamente somministrati, ma esistono una infinità di altre malattie e di altre sostanza farmacologiche per le quali si può dire la stessa cosa.

-gli antidepressivi ostacolano la comprensione psicologica dei grandi problemi esistenziali e negano la presenza del male all’ interno della vita umana e del dolore nel mondo. Questo tipo di obiezione proviene per lo più da filosofi. È vero il contrario: questa tematica “esistenziale” è approfondita più lucidamente se il paziente ha un tono dell’umore non alterato.

-la depressione va curata con la psicanalisi.
Questo è FALSO. Se è vero che l’attenzione agli aspetti psicologici della depressione è importante e che in molti casi è opportuno intervenire oltre che con i farmaci anche con talune forme di psicoterapia (tra cui la più efficace è OGGI ritenuta la psicoterapia cognitiva) è ancor più vero e dimostrato che la psicoanalisi è in genere la MENO indicata.

Nel nostro paese esiste un problema supplementare: Spesso i depressi non vengono curati perché si affidano a persone incompetenti.
Della sofferenza mentale in Italia si occupano in tanti e la legge non aiuta a fare chiarezza.
Esistono gli psicoterapeutici che possono o NO essere medici (anomalia tutta italiana).
Tra gli psicoterapeuti possono esserci laureati in psicologia -che, ricordiamo, studia il comportamento umano e non si occupa se non marginalmente di problemi di sofferenza mentale- o psicanalisti. Psicanalista, ricordiamo ancora, non è un titolo riconosciuto dallo Stato, sulla base di studi controllati, ma una designazione generica (anche autoattribuibile) rilasciata da scuole che sono associazioni private. Lo scopo di una psicanalisi dovrebbe essere conoscitivo, culturale, riflessivo ma NON terapeutico.
In realtà in Italia gli unici ad aver compiuto studi specialilistici sui disturbi psichici sono gli psichiatri, i quali sono gli unici laureati in medicina e specializzati nella diagnosi e cura dei disturbi psichici. Neanche il neurologo ha specifiche conoscenze in disturbi psichici, occupandosi del sistema nervoso e delle sue malattie, come lesioni, traumi meccanici, infezioni, emorragie ecc. Di problemi di sofferenza mentale si occupa solo marginalmente.

Nel nostro paese da 25 anni gli affetti da depressione vengono tenuti lontani da terapie efficaci. Una generale ideologia ostile alla biologia e alla medicina moderna e in generale al metodo sperimentale, nonché la tradizionale mancanza di cultura scientifica- lascito della filosofia idealista-hanno determinato nel nostro paese una situazione di inappropriato approccio alla depressione, come del resto ad altri disturbi psichici.
Inoltre negli anni '70 si è diffusa l’idea che il disagio psichico abbia cause ambientali e psicologico-esistenziali se non direttamente sociali e si è assistito ad una veloce e superficiale popolarizzazione delle idee della psicoanalisi.
È solo da pochi anni che la situazione va migliorando.

Vorrei qui segnalare delle fonti di studio per la depressione e la sua terapia.
Come bibliografia mi limito a segnalare:
-C. Hammen “Depression” Hove Psychology Press 1997
-S. Borentan “La depression” Paris Osman Eyrolles Multimédia 2001
-S. Zoli “E liberaci dal male oscuro” Milano TEA 1998
Non sono i più recenti, ma hanno la dote della chiarezza

Per una dimensione interpretativa, di impostazione filosofico-letteraria: E. Borgna “Malinconia” Milano Feltrinelli 2001
Per una prospettiva più sociologica: A. Ehrenberg “La fatica di essere sé stessi- Depressione e società” Torino Einaudi 1999

Alcuni siti: http://www.depressionalliance.org

www.psycom.net/depression.central.html

http://depression-screening.org

giovedì 27 dicembre 2007

Depressione/nove/in società "il depresso" sta scomodo

Oltre alle discipline scientifiche-di cui ci occuperemo separatamente e diffusamente-tutte le discipline umane hanno cercato di spiegare il misterioso problema sociale della depressione: vi si sono applicati sociologi, psicologi, psicanalisti, economisti, statistici.
E sono proprio le cifre a definirlo come problema sociale. Cifre impressionanti.
Non le citerò per esteso, ma il rapporto Global Burden of Disease dell’ O.M.S.(Organizzazione Mondiale della Sanità) indica che la depressione, quarto problema di salute nel 1990, sarà il problema numero uno nel 2020, vale a dire che assorbirà il 6% del peso totale delle spese nel settore sanitario.
La posta culturale in gioco nel confronto tra le discipline umane e quelle scientifiche, è molto alta, poiché da essa dipende l'idea stessa di essere umano, in pratica tutta l’antropologia. Le domande cui si tenta da parte di queste discipline di dare risposta, sono: L’uomo è forse una macchina il cui comportamento è comandato esclusivamente dalle reazioni psicochimiche? Oppure è un animale sociale che dipende innanzitutto dall’organizzazione globale della società? O ancora: è forse una unità psicologica, governata da forze psichiche individuali sia a livello conscio che inconscio? E, se sì, qual è la natura di queste forze psichiche?

Queste domande trovano risposte diverse tra gli esperti delle varie discipline, ma a parte la consatatazione che la società moderna, caratterizzata da libertà, narcisismo, permessività e consumismo resta ansiogena, non si sono raggiunte altre certezze.
In ogni caso la società contemporanea non contribuisce ad alleggerire la condizione di vita della persona affetta da depressione.
L’atmosfera edonistica e narcisistica predominante, che erge a valore supremo la realizzazione di sé e la ricerca, se non della felicità, almeno del piacere immediato è radicalmente ostile a qualunque forma di tristezza, patologica o meno che sia.
La depressione è inoltre stigmatizzata in diversi modi, alla stregua di un AIDS spirituale. I colloqui per le assunzioni sono spesso mirati a rilevare i minimi segni di tristezza. La gioia di vivere e l’entusiasmo sembrano far parte delle competenze professionali. Inoltre il costo sociale della depressione (assenze dal lavoro, bassa produttività, cure continue) viene additato come peso della persona depressa sulla società. In più gli si fa carico della influenza nefasta che questi soggetti eserciterebbero sull’entourage sia familiare che professionale.
La persona affetta da depressione è una persona incompresa. Il linguaggio svela chiaramente il disvalore attribuito a questa patologia e a chi ne soffre. Il malato viene indicato sbrigativamente come “il depresso”. Nel linguaggio colloquiale capita di sentir dire: quello è un depresso, come facendo riferimento ad una sub-categoria umana. Ancora troppo spesso la società considera la depressione come una mancanza di volontà, un lasciarsi andare colpevole, un abbandono delle responsabilità. Si muovono le accuse di egocentrismo e incapacità di adattarsi alla realtà. Questa colpevolizzazione è un peso supplementare che la persona affetta da depressione deve sopportare.
La società dei vincenti è impietosa nei confronti dei loser. Contemporaneamente si passa sotto silenzio un fatto che continua ad essere vero dagli albori della civiltà della parola. E cioè che “Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall’inferno”. Lo affermava Antonin Artaud.

Antonin Artaud

Forse in questo atteggiamento della società c’è anche il riflesso di un timore. Il timore che “il depresso” possa avere ragione a proposito del mondo e della vita. Il sospetto che sia portatore di maggiore lucidità lo rende inviso, come una moderna Cassandra.
La nostra società non ha bisogno di dubbi o verità spiacevoli ma di efficienza.
È per questo che, al di là della estrema volgarizzazione, in decine di talk-show, della condizione esistenziale della persona depressa e di tutti gli ipocriti discorsi di accoglienza, le persone affette da depressione vengono stigmatizzate. In tutti i mezzi di informazione si sente continuamente definire “depressa” una persona che ha compiuto un omicidio in uno stato alterato.
Ed è anche a causa del timore che si passa a definire “depresso” chiunque denunci il male di vivere come condizione esistenziale dell’uomo. Categorizzare tutti e subito come “difettosi” significa rassicurarsi nelle proprie certezze. Le stesse che il malinconico definirebbe illusioni.
Nell’additare il dovere della superficialità e della felicità la società moderna contribuisce a generare stati di profonda insoddisfazione e depressione in senso lato in chi non riesce, anche per cause indipendenti dalla sua volontà e dal suo impegno, a raggiungere quegli ideali.
Noi non sapremo mai se i grandi malinconici e gli accidiosi dei secoli passati mancassero di serotonina come i depressi clinici dei nostri giorni, ma è evidente che in società che valorizzavano il sacrificio personale, l’austerità, la modestia e l’accettazione della propria realtà, solo i casi più gravi di malinconia attiravano davvero l’attenzione, mentre per gli altri l’inserimento nella società era possibile con sufficiente dignità.
La nostra società, al contrario, contribuisce a mettere “i depressi” come pure i malinconici, in non bella evidenza, li smaschera come disfattisti, li addita come elemento di disturbo nell’atmosfera di gioia convenzionale e superficiale.
Sono accomunati in questo anche ai semplici pessimisti, perché i pessimisti possono essere agenti disgregatori del morale generale.
Il pessimista guarda in faccia la realtà, ma la descrizione che ne fa è spaventosa e inaccettabile per il senso comune.
Eppure l’unico cammino possibile per l’uomo è quello sulla via della consapevolezza di sé, cammino che l’uomo ha percorso, faticosamente, nei millenni della sua storia e che la scienza stessa farebbe bene a non considerare compiuto.
Questa consapevolezza, frutto dell’esercizio della sua ragione, è quello che rende l’animale uomo così speciale tra gli altri animali.
Se il mal di vivere è il prezzo che l’uomo paga a questa sua speciale condizione io penso che valga la pena pagarlo. La dignità dell’uomo non consistendo nella felicità, cui pure ha ogni diritto di aspirare, ma nel pensiero e nella coscienza.

mercoledì 26 dicembre 2007

puntando al 7 di Gennaio

Credo che, oltre a ragioni generali e molto diffuse, e ad altre molto personali e intime, il mio fastidio profondo per le feste natalizie ed il loro portato tradizionale, abbia a che fare proprio con il concetto di “rito”. Pur avendone studiato la natura, l’importanza e il significato, mi ha sempre suscitato un senso di insofferenza. Che permane. Non so bene perché.

Già da bambina e poi da adolescente l’idea di un rito mi infastidiva. Ogni tipo di rito.
Può apparire incongruente con questo argomento, ma non mi è mai piaciuto giocare alle signore. Non volevo diventare una signora. Volevo diventare: a otto anni una ballerina sulle punte, a dieci "la -scrittrice -che -avrebbe -rifiutato -il -premio -Nobel -per –la- letteratura", a quattordici missionaria laica in Africa, infine giornalista.
Ma mai una signora. Non volevo sposarmi. Non mi ero mai immaginata in abito bianco e velo. Neanche nell’adolescenza. La cerimonia matrimoniale sapeva per me di stucchevole. Nei miei innamoramenti scavalcavo la scena della cerimonia e mi proiettavo nel caldo di un abbraccio. Le cerimonie mi hanno sempre suscitato ripugnanza, al pari dei riti. Ho dovuto vivere quarantott’anni per riuscire finalmente a capire, nel dolore, il senso dei riti. Ma anche la loro inefficacia.
Intenta a scavalcare formalità e convenzioni: così immaginavo me e la mia vita.
Ho scavalcato lo scavalcabile. Il resto me lo sono trascinato appresso, come succede agli atleti della corsa a ostacoli, quando sbagliano la misura del passo, o la velocità in prossimità dell’ostacolo e questo si abbatte e loro con esso. Non mi sono abbattuta sull’ostacolo, ma me lo sono caricato addosso. Ma mi sono sempre battuta. Mai deposte le armi. G.J. ripeteva “Il suo Io è forte. Molto forte.” In qualche modo lo avevo sempre saputo, ma lo riappresi grazie a lui. Con questo Io forte me ne sono andata nel mondo. Se non che, questo mondo non era fatto per me. O io per lui, come preferisce dire mio marito. D’altra parte non credo in nessun altro mondo che questo. In questo mi sono mossa come ho potuto, come ho saputo. Ma il senso della mia diversità, mi camminava accanto. Sempre. Mai trovati i miei simili. Mai.
Troppo sognatrice per i cinici. Troppo disincantata per gli idealisti. Troppo forte per le vittime. Troppo debole per i combattenti. Troppo orgogliosa per gli ambiziosi. Troppo collaborativa per i competitivi. Troppo sincera per gli ipocriti. Troppo timorosa per i provocatori. Sempre troppo qualche cosa o troppo poco qualche cosa d’altro. Troppo legalitaria per i rivoluzionari. Troppo rivoluzionaria per i riformisti.
Troppo pacifica per i battaglieri.Troppo ribelle per gli acquiescenti.
Il mio bisogno di appartenenza sbatteva continuamente il muso contro il senso forte di me e con la mia impossibilità di essere qualche cosa di diverso da me.
Stavo male ovunque e con chiunque. Non avevo un ambiente. Ero io sola il mio ambiente. Leggevo troppa poesia per i politicizzati. Facevo troppa politica per gli studiosi. Mi piaceva troppo lo sport per gli intellettuali. E troppo fare la sfoglia sia per gli intellettuali che per gli sportivi.
Troppo libera per i conformisti. Troppo rigorosa per i dissacratori. Troppo colta per i semplici. Troppo poco per gli eruditi. Troppo. Troppo poco. Ho osservato la gente intorno a me in tutta la mia vita. Da adolescente, mischiata tra i giovani della mia età, mimetizzata al meglio, li osservavo e mi chiedevo se anche loro nascondessero un segreto. Eppure, da fuori, ero come tutti loro. Allora avevo bisogno di sentirmi integrata in qualche famiglia di simili. Poi imparai che la famiglia dei miei simili non esisteva e che tutto quello che potevo sperare era trovare la famiglia di simili di un pezzo di me. Procedetti così. Condividendo piccole parti di me ora con questi, ora con quelli. Ora una parte ora un’altra. Sempre con una grossa parte di me tenuta fuori. Eppure ho sempre pensato a me come ad una persona fortunata. Strano a pensarci, perché se ci ragiono sopra, lucidamente, capisco di non esserlo stata.
Ma mi sentivo fortunata perché avevo me. E mi piacevo. E non volevo cambiarmi. Per niente e per nessuno. E, piegandomi finché ho potuto, proprio come il vimini, il salix viminalis, sono restata me stessa. Piegarmi per non spezzarmi, tanto per dire. E piegarsi è un esercizio prezioso. Attenzione al senso di onnipotenza. Al delirio di onnipotenza che può portarci a dire: nel mondo da sola e gli altri si fottano. Soprattutto se si ha un così grande bisogno di amore. Non ho mai voluto rinunciare ad un solo affetto. Il realismo non ha mai fatto difetto alla sognatrice. La sognatrice ha tenuto sempre i piedi ben fermi sulla terra e mentre i suoi pensieri vagavano tra astri improbabili, la testa era ben ferma sulle spalle. Questo è più o meno il mio ritratto. Nel bene. Adesso aggiungete i difetti. Scegliete voi. Li ho tutti. Attribuitemene a piene mani. Non sbaglierete. Ne avevo molti. Non ne ho di meno. Se mai di più. Sono cambiati nel corso della vita. Si lavora su di sé, ma il massimo che si può ottenere è accettare che si è così come si è. Grande traguardo. Sapere che ad una piccola vittoria lì, corrisponde una piccola sconfitta là. Basta saperlo. Vedere il mondo come lo vedeva Tacito e provare a viverci secondo la lezione di Seneca. Tacito aveva ragione naturalmente, ma Seneca anche aveva ragione. Noi umani siamo davvero capaci del peggio e il mondo sembra fatto apposta perché il nostro peggio trionfi. Ma noi umani possiamo guardare il mondo in faccia e darci una disciplina per non aggiungere il nostro peggio a quello altrui. Per rispettare la parte migliore di noi. E quella migliore degli altri. Mi è capitato di chiedermi: che cosa scriveresti come epigrafe sulla tua tomba? “Ho fatto del mio meglio”. Non originale, ma vero.

Ha tutto questo qualcosa a che fare con il disturbo che le feste natalizie mi arrecano? Io credo di sì. Il tentativo di restare in equilibrio tra la mia soggettività così spiccatamente individualista e un bisogno forte di appartenenza e di affetti, in occasione di manifestazioni ritualisticamente scandite, si fa più evidente. Mi si impone cioè un supplemento di fatica e impegno. Oltre alla sensazione di vivere una imposizione se non addirittura una violenza. Per questo la mia meta è il 7 di Gennaio.

martedì 25 dicembre 2007

la vigilia di Natale secondo il Belli

Ustacchio, la víggija de Natale
Te mmettete de guardia sur portone
De quarche mmonzignore o cardinale,
E vederai entrà sta prícissione.

Mo entra una cassetta de torrone,
Mo entra un barilozzo de caviale,
Mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone,
E mmo er fiasco de vino padronale.

Poi entra er gallinaccio, poi l'abbacchio,
L'oliva dolce, er pesce de Fojjano,
L'ojjio, er tonno, l'anguila de Comacchio.

Insomma, inzino a nnotte, a mmano ammano,
Te llì tt'accorgerai, padron Ustacchio,
Cuant'è ddivoto er popolo romano.

lunedì 24 dicembre 2007

breviario laico





AD ALCUNI PIACE LA POESIA

Ad alcuni-cioè non a tutti.
E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza.
Senza contare le scuole, dov'è un obbligo,
e i poeti stessi,
ce ne saranno forse due su mille.

Piace-
ma piace anche la pasta in brodo,
piacciono i complimenti e il colore azzurro,
piace una vecchia sciarpa,
piace averla vinta,
piace accarezzare un cane.

La poesia-
ma cos'è mai la poesia?
Più d'una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
come all'àncora d' un corrimano.

Wislawa Szymborska
da "La fine e l'inizio"
Adelphi

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Qualcuno mi ha detto
che certo le mie poesie
non cambieranno il mondo.

Io rispondo che certo sì
le mie poesie
non cambieranno il mondo.

Patrizia Cavalli
"Poesie"
Einaudi

domenica 23 dicembre 2007

e adesso sorridiamo

pensiero notturno

Farsi carico dei propri talenti, non importa se molti o pochi, con pari dignità rispetto a chiunque altro.
(Paolo Barnard)

Ho amici talentuosi, senza nemmeno coscienza dei propri talenti. Che, quando gli si ricordano, li schivano sorridendone. Forse increduli, forse semplicemente sentendosi troppo stanchi per assumerne il peso e la responsabilità.
Mi somigliano. Ed io voglio loro bene anche per la semplicità con cui portano in giro i loro talenti, le loro intelligenze, i doni del loro cuore.
Ma mi fanno anche incazzare.
Ci pensavo stanotte, e ho deciso di dar loro una strigliata.
Quindi cari emmeti e bip: mi aspetto da parte vostra un riconoscimento pieno e pubblico della vostra eccezionalità. E' ora che facciate outing della vostra intelligenza e della somma dei vostri saperi!
Ché non posso passare le notti a masticare amaro per voi!

Comunque, i miei amici a parte, questo discorso del farsi carico dei propri talenti, riguarda tutti gli insicuri ed i timidi ed i sommessi del mondo. I talenti che ognuno di noi ha, meritano rispetto. Sono doni che la natura ci ha fatto. Il solo modo di ringraziarla consiste nel non nasconderli. Senza ostentazione ma con assertività.
Lo dico a voi, lo dico a me. In questa cacofonia di gente priva di ogni talento se non quello della presunzione e della volgarità, le voci che davvero meritano di essere ascoltate, hanno il dovere di farsi sentire. Dixi.

sabato 22 dicembre 2007

Handel - Messiah - Hallelujah

Energetico, no?

solstizio d'inverno a Teheràn

Questa mattina sono passata sul blog della mia amica blogger iraniana, Nazanin, e ho trovato un bellissimo regalo. Il racconto delle feste iraniane per il solstizio di dicembre.

Eccolo qui.

"21 dicembre, la notte piu’ lunga dell’anno
Ieri sera gli iraniani in tutto il mondo hanno celebrato la festa di Yalda. Un’antica festa che coincide con la notte più lunga dell’anno e con l’anniversario della nascita della Dea d’amore nella mitologia persiana, Mitra. La notte di Yalda segna la fine dell’autunno e l’inizio del freddo inverno ed è vissuta da tutte le famiglie iraniane anche fuori del Paese. Dopo il tramonto le famiglie si radunano dai nonni o dagli amici per stare insieme e mangiare leccornie e tipi di frutta rimasti dell’estate e dell’autunno. Nei vecchi tempi i nonni raccontavano storie e si giocava i giochi tradizionali. Ogni frutta messa sul tavolo pieno di leccornie, simboleggia una cosa. Il melo grano il ciclo della vita. Il cocomero, la mela, l’uva, i meloni dolci ed il cachi sono altre frutte speciali servite in questa notte e tutti sono simboli di freschezza, di calore, di amore, di bontà e di felicità.
Gli antichi persiani credevano che con l’arrivo del sole si combatteva il diavolo, e così si allungavano le giornate. Si usa anche fare desideri attraverso le poesie di Hafez ( Il grande Poeta Dell’Iran).
Il 21 dicembre, il Solstizio d’inverno durante il quale si ha la notte più lunga dell’anno, combacia con il primo giorno del mese “Dey”, il decimo mese del calendario persiano e con l’inizio dell’inverno. La parola Yalda nella lingua Assiro-Babilonesi significa “natività”, era una festa che veniva celebrata sia dalla religione Zoroastrina che da quelle Ebraica e Cristiana. Nel credo dei Persiani durante la veglia notturna si tengono accese delle lanterne, per aiutare simbolicamente la vittoria della luce sulle tenebre. Il giorno e la notte e il bene e il male, chiamati dagli Zoroastriani Ahuramazda e Ahriman simbolo della lotta perenne contro le ingiustizie degli uomini sono un’eredità di questo passato. I Persiani, prima ancora della diffusione della religione Zoroastriana, credevano nell’esistenza del Dio Sole la cui religione, il Mitraismo, narra che fu proprio nella notte più lunga dell’anno che nacque Mitra o Mehr: il Dio del Sole e dell’Amore invincibile, giusto e illuminato, protettore di luce e amicizia. Il Mitraismo era al tempo culto diffuso tra i popoli della terra; per questo possiamo cogliere i segni lasciati in eredità da questa religione anche ai giorni nostri. Ne sono esempi eclatanti la scelta del 21 dicembre per la festa di Shab-e Yalda per i Persiani, o quella del 25 dicembre (anticamente ultimo giorno di festa per la nascita di Mitra) come data della nascita di Gesù per i Cristiani. E infatti dal quarto secolo che il 25 dicembre viene festeggiato il Natale da parte dei Cristiani, eccezione fatta per gli Armeni che festeggiano il 6 gennaio."


Bellissima Festa, vero?
Tutti i popoli e tutti i tempi vivono negli stessi desideri e negli stessi bisogni.

Per me è stato un rifiorire di ricordi.
Eccone alcuni del Natale 1977







diurna mercedula

Interim, quoniam diurnam tibi mercedulam debeo, quid me hodie delectaverit dicam.
...ab Ecatone versura facienda est...
Ait Ecaton: tibi monstrabo amatorium sine medicamento, sine herba, sine ullius venificae carmine: si vis amari, ama.
(Seneca, Lettere a Lucilio).
Ebbene, poiché (vi) debbo il mio tributo quotidiano, (vi) dirò che cosa ho apprezzato oggi. E' ad Ecatone che devo pagare il mio debito.
Egli dice: "Ti rivelerò un filtro amoroso, senza unguenti, senza erbe, senza formule magiche: se vuoi essere amato, ama."


Sventatamente per tutta la vita ho seguito il precetto di Ecatone. Ho raccolto qualche frutto, ma meno di quanti ne meritassi. O, più verosimilmente, di quanti me ne abbisognassero. Ma poiché la mia fede nell'amare resta intatta in me,la ricetta di Ecatone continua a vibrarmi dentro.

Questa mattina ho provato a somministrarla ad una donna amareggiata e scontenta di sé. Una donna che ha atteso per molti anni-come mi ha detto- che il suo amare si volgesse in essere amata. Una donna che considera ormai esaurito il suo tentativo e la cui fiducia si è volta in sarcasmo.
Di Ecatone e della sua ricetta non vuol sentir parlare. Sta smantellando il rapporto di un'intera vita. Pur incontrandoci quasi quotidianamente nessuna confidenza ci lega e il nostro rapporto è sempre stato di semplice conoscenza. Qualche cosa è successo questa mattina, una particolare disposizione a comunicare, in me o in lei o in entrambe e ci siamo trovate a scambiarci confidenze pesanti e significative.
Confesso che la più riservata sono sempre stata io, ingannata forse da un suo atteggiamento che io definisco "scivoloso" e che consiste nell'assumere modi seduttivi con qualunque maschio presente. Non esclusi i mariti altrui, alla presenza delle loro mogli. Le ho fatto torto. Non che non sia effettivamente "scivolosa", lo è, ma comincio ad intuire che è solo il suo modo per recuperare, sia pure a spese di altre donne, quello che le manca dal rapporto più importante della sua vita. Lo ha confessato, indirettamente, lei stessa: "Perché sai, io sembro, sembro-e ha lasciato nel vago il suo sembrare-ma le corna le ho solo portate". Ho sentito il bisogno di scusarmi per averla tenuta a distanza. L'ho fatto a modo mio: Sai, quando m'incontri e ti saluto sbrigativamente-le ho detto- non ce l'ho con te. Forse mi sento insicura di fronte al tuo modo di porti, così più femminile del mio". "Ah, ha detto lei, sono contenta che tu me lo abbia detto. Ma in fondo lo sapevo". Ci siamo salutate, contente. Lei si è diretta a passo lento verso il parco. Stavo entrando nel portone, poi ci ho ripensato e l'ho rincorsa."Senti-le ho detto già ridendo-ma tu ce li vedi due uomini a dirsi cose così, di punto in bianco, dopo essersi salutati col buongiorno e buonasera per vent'anni?". "Figurati!" e rideva anche lei. Ho voluto chiudere il nostro incontro con la ricetta di Ecatone. Perché sono testarda, perché sono ottimista, perché dell'amore sono sempre stata molto più innamorata che degli amati."Beh, la prossima volta andrà meglio", le ho detto. E ci credo. Malgrado tutto. Per un piccolo momento sono riuscita a farlo credere anche a lei, che ha ripreso la sua passeggiata con passo più sicuro.

venerdì 21 dicembre 2007

puntualmente

Che per un punto Martin perse la cappa, lo sanno tutti. Anzi, ci è stato ripetuto così tante volte che, per molti di noi, la punteggiatura è diventata un’ossessione. Insomma, la cappa, non vogliamo proprio perderla. Voi come la immaginate la cappa di Martino? In panno marrone, a ruota? Io no, io la immagino in velluto di seta viola, foderata di raso verde. Capirete bene come, pur non nutrendo ambizioni di carriera monastica, una cappa così io non abbia nessuna intenzione di perderla. Non per questo mi faccio ossessionare dalla punteggiatura. E tutti i miei testi, questo non escluso (e intenzionalmente) ne fanno fede. Anzi, per dirla tutta, la punteggiatura è l'elemento che manipolo più volentieri.
Oltre agli ossessionati dal dilemma ‘punto o punto e virgola?’, ci sono però soggetti completamente diversi; persone che, per reazione esasperata, divengono addirittura sciatti, e cancellano un uso anche minimamente logico della punteggiatura dalla propria vita di scriventi. Sono due estremi da evitare. Rispetto alla punteggiatura bisogna adottare un atteggiamento rispettoso ma non servile, attento ma non prono. Non sono io sola a dirlo, ma il fior fiore dei nostri linguisti. Concordi nel loro disaccordo, anzi concordi a causa del loro disaccordo, sul fatto che una normativa STRINGENTE dei segni di interpunzione non è data in natura. Dove la natura è la lingua.
Infatti ”tra le varie norme che regolano la lingua scritta, quelle relative alla punteggiatura sono le meno codificate”.
L’italiano è una lingua moderatamente dotata di segni interpuntivi. Che svolgono la funzione segmentatrice (la più importante), la funzione sintattica (segnalando la gerarchia tra proposizioni o elementi di una proposizione), la funzione emotivo-intonativa (il punto interrogativo e l’esclamativo) e la funzione metalinguistica, di commento.
In linea di massima a meno di essere spaventosamente distratti, la funzione segmentatrice (quella che tradì il povero Martino) non ci crea problemi e ci trova tutti concordi. Sappiamo benissimo che “I tifosi che erano arrivati in ritardo restarono fuori dallo stadio” è una cosa, mentre “I tifosi, che erano arrivati in ritardo, restarono fuori dallo stadio”, è un’altra. Come pure che “ I ragazzi uscirono di corsa; urlando il bidello li rincorse” è una cosa e “I ragazzi uscirono di corsa urlando; il bidello li rincorse” è un’altra. Sappiamo quello che vogliamo scrivere e dividiamo opportunamente il testo.
Quanto alla funzione emotivo-intonativa mi rifiuto di considerarla un problema per chicchessia sano di mente mentre quella metalinguistica mi riservo di trattarla in altra occasione, perché mi ispira una speciale simpatia.
La funzione che fa male è quella sintattica. Lì ci si accapiglia, lì ci si scontra. E non si dovrebbe. Infatti, come dice il Professor Luca Serianni-Ordinario di Storia della lingua italiana alla Sapienza di Roma e membro dell’Accademia della Crusca, nonché linguista splendido (questa onoreficenza gliel’ho attribuita io)- “le indicazione sull’uso dei segni di interpunzione valgono solo in linea di massima e consentono varie escursioni a seconda delle intenzioni espressive dello scrivente”.
Per i maldestri, i troppo disinvolti o i piattamente rozzi, sottolineo che, sia pure in linea di massima, le indicazioni comunque valgono. E aggiungo, per amore di chiarezza, che solo la dignità letteraria e artistica del testo autorizza spericolate inversioni di uso. Mentre una moderata disinvoltura fa parte, o dovrebbe far parte, dello stile personale di ognuno di noi.
Terminata la pedestre lezioncina mi tuffo subito nel più profondo mistero della lingua italiana: l’uso del punto e virgola. Sul punto e virgola si interrogano fior di scrittori, esitano insegnanti illustri, scienziati esimi, giornalisti affermati e premi Nobel.
Il punto e virgola secondo me esiste per ricordare all’uomo la sua fallibilità, la sua finitezza e la sua imperfezione. Serve a imparare la modestia e a sottomettersi alla prima ed unica legge della lingua italiana che recita: vengo dal latino e vado dove mi pare.
Il punto e virgola è un dono di Aldo Manuzio il quale lo inventò, letteralmente, nel 1501 utilizzandolo in una edizione del Petrarca. L’ammirazione e la gratitudine che porto ad Aldo Manuzio, tipografo magico, non mi impedisce di rivolgermi alcune semplici domande: Perché lo fece? Era un sadico? Un indeciso? Un maniaco-ossessivo? Un esteta? Un burlone?
Sembra di no. Sembra che effettivamente del punto e virgola ci fosse bisogno.
Ma, anche qui, cum grano salis. E’ sempre Serianni a dire che “il suo uso è legato talvolta alle abitudini dei singoli scriventi”. In generale, si trova nei seguenti casi:

-per separare due proposizioni, coordinate tra di loro, molto complesse. Serve a mettere ordine, ad alleggerire, a tirare il fiato.( Non chiediamo di chiudere la bocca a vescovi e cardinali ogni volta che non parlino di virtù teologali; né di vietar loro l’opera di magistero sui LORO fedeli; né di chiudere l’intero corpo ecclesistico in un grande luna park delle fedi.)

-per separare l’enumerazione non di semplici vocaboli, ma di unità più complesse.
(Per noi il motto cavouriano “Libera Chiesa in Libero Stato” comporta l’assoluta libertà di predicazione per ogni religione; l’autonomia totale della politica dalle pressioni della gerarchia vaticana; la più ferma dissuasione di ogni tentativo di ingerenza; la cessazione di atti di omaggio pubblici da parte delle autorità dello Stato.)

-al posto della virgola, se questa può creare confusione. (Un fruscio; la sottoveste scivolò a terra). Questo esempio l’ho inserito per analogia con le virtù dei cardinali.

Cos’altro aggiungere? Forse che il punto e virgola, contrariamente a quello che comunemente si pensa, non è in alternativa al punto fermo ma alla virgola. Questo è il trucco da ricordarsi. Il punto e virgola è una virgola un po’ insistita. Va pensato come se si chiamasse “virgola-punto”.
Chiedersi: Che ci metto qui? Una virgola? Basterà? O è meglio una virgola rinforzata? Se la risposta è sì, un bel punto e virgola e via.

giovedì 20 dicembre 2007

ancora morte alla ThyssenKrupp

Il Presidente degli industriali bresciani, Franco Tamburini, a proposito delle morti sul lavoro in Italia parla di “strumentalizzazione e di attacco forte e mirato diretto contro il mondo delle imprese”.

Questi operai che si danno fuoco e poi muoiono sono dei veri provocatori!

Ci si augura che il mondo delle imprese sappia rispondere all’ennesima provocazione: la morte, avvenuta ieri, di Rosario Rodinò, la sesta vittima dell’incendio alla ThyssenKrupp, anni 22, deceduto dopo tredici giorni di agonia.

consigli per gli acquisti

Anche io voglio darvi un suggerimento per i regali di Natale.
Vi propongo l'acquisto di un oggetto che ormai è diventato indispensabile. Trattasi di un misuratore molto speciale.
Ne ebbe l'intuizione molti anni fa' Antonio Bucchi. Ne sottovalutai l'importanza. Faccio ammenda così.




Ieri sono stata al cimitero di Tarquinia e ho constatato che qualcuno aveva rubato i vasi per i fiori sulla tomba dei miei genitori. Cioè qualcuno ha tolto i fiori- che una gentilissima fioraia depone regolarmente- ha preso i due vasetti e ha rimesso i fiori al loro posto lasciandoli ad appassire senz'acqua. Se ne sarà servito per la tomba di qualche familiare. Il titolare della ditta di pompe funebri, cui ho ordinato altri due vasetti, mi ha detto che è ormai pratica quotidiana. Ai morti si ruba di tutto.I fiori, le piante, le spazzole e gli stracci che stanno lì nascosti dietro la tomba per poterla pulire quando le si fa visita, i vasi, come nel mio caso e persino i rosari che qualcuno lascia appesi alle croci. "Un giorno di questi si porteranno via pure il morto" mi ha detto sconsolato.La fioraia, dal canto suo, mi ha raccontato che da una delle tombe da lei accudita hanno asportato la data, o meglio le cifre in metallo incollate sul marmo. "Si vede che gli serviva un 3 e un 7" ha commentato sinceramente avvilita. Piccolo esempio di degrado.
Ogni giorno ne incontro uno. Questo è particolarmente triste. Non per me in quanto figlia dei due morti derubati, ma per me in quanto essere umano. Pensare che si sia perso questo segno di civiltà che è il rispetto dei morti mi addolora. E il "non rispettano i vivi, figuriamoci i morti", come ha commentato un signore presente, è proprio l'opposto del mio pensiero. Possiamo forse permetterci di non rispettare i vivi. Fa parte della lotta quotidiana tra gli animali-uomini, ma non possiamo permetterci di non rispettare i morti, perché questo significa perdere la coscienza del nostro comune destino, perdere la capacità di "pensarci" umani per restare, animalmente,nudi.

mercoledì 19 dicembre 2007

a disposizione

Daniele Verzetti, il nostro rockpoeta, ci segnala una iniziativa di Cristina di Omnia Munda Mundis cui voglio aderire anche io.
Riguarda uno dei più orribili reati: l'abuso sui minori.
A questi indirizzi troverete un lavoro di informazione fatto molto bene.
QUI: http://psiche-soma.blogspot.com/2007/11/abusi-sessuali-sui-minori-cosa-i.html

E SOPRATTUTTO QUI: http://psiche-soma.blogspot.com/2007/12/iniziativa-blogger-contro-gli-abusi.html
Grazie a Cristina per il suo lavoro e a Daniele per la segnalazione.
Il mio blog è una minuscola cassa di risonanza, ma lo metto volentieri a disposizione.

Depressione/otto/noia, nausea & company: il XX secolo è depresso

Entriamo nel XX secolo. Il secolo scorso.E già questo è un pensiero che non mette allegria.
Vi entriamo con la terribile immagine de L’ urlo di Munch.




Nascere tra il 1900 e il 1910 significa aver conosciuto un susseguirsi terribile di
catastrofi, morti e distruzioni, come in nessun altro secolo. Anche se l’attuale moda culturale sostiene che in fondo, tutto sommato, a ben riflettere, sì insomma, la storia del ‘900 non è poi stata una tragedia diversa da tante altre, in tanti altri secoli. Dimenticando forse-colpevolmente-che da quei secoli lontani cui si fa riferimento, la nostra civiltà aveva nel frattempo fatto degli importanti passi
avanti e la colpa di un uomo del Seicento non può pesare quanto quella di un uomo del ‘900.
Alla luce di quello che gli uomini del XX secolo hanno vissuto, chi può meravigliarsi
se la cultura di questo secolo è stata così massicciamente pessimista?
Un atteggiamento contrario sarebbe stato semplicemente aberrante. Nel suo significato letterario.

Gli artisti come sempre mostrano la parte più dolorosa della realtà. I primi sono gli espressionisti che tracciano i tratti salienti di quest’epoca folle: James Ensor, Otto Dix, Georg Grosz.

Georg Grosz
Poi i surrealisti aprono una finestra sull’assurdo e sul nulla e si rivoltano contro il tempo. Dalì, Tanguy e Delvaux. Malevitch esprime il nihilismo. Picasso l’orrore. Kandinsky “il bianco del vuoto e il nero senza avvenire e senza speranza” come lui stesso definisce i suoi colori.
E Tinguely costruisce macchine che si autodistruggono.

Quanto alla letteratura, è preda di un pessimismo senza precedenti. È impossibile fare un elenco delle opere riguardanti il mal di vivere.

Robert Musil

Kafka si tormenta descrivendo la solitudine, l’assurdo, l’angoscia, Karl Kraus denuncia il “progresso febbrile della stupidità umana”, Robert Musil vede nella storia dell’Europa “il cammino dalla speranza alla disperazione”. Oswald Spengler profetizza Il Declino dell’Occidente. “Arriva l’epoca, no è già arrivata, in cui non c’è più posto per le anime tenere ed i labili ideali”.

Karl Kraus
Valery, una delle menti più lucide del secolo, addita a tutti noi, senza nessuna indulgenza “l’impotenza della conoscenza nel salvare qualunque cosa.... L’abisso della storia è abbastanza grande per tutti. Una civiltà è fragile come una vita” E “l’universo è un difetto nella purezza del non-essere.” Jean Cocteau scrive “La difficolta dell’essere”, per Samuel Beckett “stiamo tutti espiando il peccato di essere nati”e per Raymond Queneau la scopa e il pendolo sono i due oggetti più rappresentativi dell’esistenza. La scopa simbolo di un’azione ripetitiva e inutile, il pendolo, da contemplare per ammazzare il tempo.
Prima di uccidersi Henry de Montherlant(1972) fa dire ad un suo personaggio: Non amo il futuro..la vostra malattia è la speranza”
Eugene Ionesco mette in scena l’assurdo e l’incomunicabilità e per Scott Fitzgerald “beninteso qualunque vita è un processo di demolizione”

Samuel Beckett
A chi rivolgersi nel secolo per tirarsi un po’ su?
Non a Paul Celan che si toglie la vita nel 1970, dopo averci lasciato la"Fuga della morte". Dove la morte non fugge, e quel fuga è inteso musicalmente come un ritorno costante a un tema.
La noia si impone come leit motiv del secolo. Beckett la rappresenta in coloro
che “non hanno né il coraggio di finire né la forza di continuare”
E’ noia anche con Francoise Sagan, “Bonjour tristesse”, con Moravia, naturalmente, La noia e Gli indifferenti. Anche “Il tempo perduto” di Proust, è un tempo cui bisogna ridare continuamente la carica e lui, il grande Marcel, intanto vive serrato nei suoi malesseri.
Dalla noia alla nausea non vi è che un passo. Non sono che le due espressioni letterarie dello stesso mal di vivere moderno
Sartre nel 1983 scrive “La nausea” e la definisce come “il prendere coscienza dell’esistenza e dell’ assenza di ragione dell’esistere”. L’eroe sartriano ripete: “la nausea è questa accecante evidenza!”
E Albert Camus con il suo sguardo disincantato assiste all’ assurdità del mondo: “Se nulla ha senso, e nulla ne ha, tutto è possibile, ma niente è importante”.

Così gli artisti. E i filosofi?
I filosofi suonano una serie di variazioni sullo stesso tema: il mal di vivere. Husserl sottolinea che la cultura occidentale ha costruito un sapere che contiene in se stesso la propria forza di autodistruzione e, attenzione, ciò non è avvenuto per caso.

Wittgenstein
Wittgenstein descrive il mondo come una collezione di fatti indipendenti e la logica è solo formalismo, mentre “credere a una connessione causale è pura superstizione”.
Tutte le verità, tutte le teorie sono solo tautologie incapaci di spiegare il mondo e il senso della vita. La sola forma di saggezza è il silenzio “Se non si sa ciò di cui si parla è meglio tacere”.
Emil Cioran, lui, scrive una serie di opere i cui soli titoli bastano ad abbattere al suolo qualunque ottimista: "Il funesto demiurgo", “Al culmine della disperazione” 1933, “Sommario di decomposizione” 1949, e, nonostante “La tentazione di esistere” del 1956, torna a L’inconveniente di essere nati” 1973.


Emil Cioran

Nel XX secolo il suicidio fa strage tra gli intellettuali.
Si uccidono, con i sistemi più vari e spesso dolorosi, Majakovskij, Virginia Woolf, Stefan Zweig, Pierre Drieu de la Rochelle, Klaus Mann, Cesare Pavese, Stig Dagerman, Sylvia Plath, Henry de Montarlant, Romain Gary, Yukio Mishima, Arthur Koestler, Primo Levi, Bruno Bettelheim, Gilles Delouze. Ho scelto i primi che mi sono venuti in mente, l’elenco sarebbe lungo e poco allegro.

Yukio Mishima

Quanto al mondo dello spettacolo, della politica, dell’arte, anch’essi offrono generosamente le loro vittime al suicidio: Marilyn Monroe, Jean Seberg, Dalida, Nino Ferrer, Marcus Rothko, Bernard Buffet, Pierre Bérégovoy, Yves Saint Laurent...



Permettetemi di terminare la carrellata di foto con l'indimenticabile grazia di Marilyn Monroe.
Quando il suicidio non è diretto, esplicito, i comportamenti autodistruttivi conducono allo stesso risultato. Il mondo del rock contribuisce generosamente.


E le scienze della psiche che hanno da dire?
La psicanalisi è figlia ma anche madre del mal di vivere. Come un gatto che si morde la coda. La psicanalisi nasce dall’osservazione dei disturbi psichici profondi, parte da finalità terapeutiche per arrivare ad una constatazione: il mal di vivere e la malinconia fanno parte integrante dello psichismo “normale”. Intanto la psicanalisi contribuisce a diffondere il mal di vivere (che Freud mi perdoni e anche Musatti) nella misura in cui dimostra fino a che punto il nostro comportamento dipenda dalle forze oscure e incontrollabili dell’inconscio.
Questa nuova “scienza” può guarire da alcune forme di angoscia, ma non può dare un senso alla vita, né una ragione per vivere. Essa lascia un vuoto. Chi o che cosa lo colmerà?

Anche la sociologia dice la sua sul male di vivere del ‘900 e il quadro che nel 1897 Durkheim aveva avanzato della società sua contemporanea è in gran parte confermato anche al termine di questo secolo.

Intanto la società risponde alla tanto sciorinata noia degli artisti decretando la mobilitazione generale: cento canali televisivi vegliano su di noi 24 ore su 24, cinema, video, viaggi, mostre, locali, festival, vacanze animate, club, sport,centri commerciali, spettacoli, giochi, cellulari, internet.... Meglio fare di tutto che non fare niente. L’importante è combattere la noia dello stare in propria compagnia, soli con noi stessi. Questa è la risposta dell’ uomo comune alla noia metafisica dell’artista, ma l’una e l’altra si rispondono.

La più diffusa delle analisi confronta il secolo presente con il passato e constata che alcune epoche sono più favorevoli di altre all’integrazione sociale del malinconico. Nei periodi di stabilità e di immobilismo sociale, in cui ognuno ha un suo posto nella società e non si pensa di cambiare il proprio destino, il malinconico, che è un indeciso, un inattivo, un incerto, passa inosservato: si crederà cosi che il mal di vivere sia meno diffuso. In realtà in una società che ha già pronto tutto il pacchetto per ogni individuo, semplicemente il malinconico non ha scelte con cui confrontarsi.
Ma nei periodi segnati da sconvolgimenti e instabilità, in cui lo spirito di iniziativa, il dinamismo, l’attività, i movimenti collettivi, la comunicazione, sono percepiti come fattori positivi, il malinconico diviene un emarginato. Egli si sente fuori luogo in un mondo che lo considera un malato, un depresso clinico, sia che lo sia davvero, sia che sia solo un malinconico osservatore della realtà.

Accade allora che i pessimisti e i depressi che vivevano al riparo dell’oscurità nella società tradizionale, sono ora sotto i riflettori spietati degli attivisti della società consumistica. Essa li rifiuta come paria dell’edonismo contemporaneo e simultaneamente, li produce additandogli la felicità come dovere e l'infelicità come fallimento. Produce depressi e li esclude, li esclude e li produce. In un circolo infernale.

Ciliegina sulla torta si avvicina l'alba del nuovo secolo.Un po’ dovunque risorgono i vecchi millenarismi e mentre si discute se si stia entrando nel 2000 o nel 2001 (nel secolo dei relativismi anche la matematica è un’opinione) il mal di vivere, trionfalmente, s’è mangiato il XX secolo.


Fussli: Il silenzio

martedì 18 dicembre 2007

poesia al sugo

Apro la scatola di pomodori / e conto le sillabe per un archilochèo
passo al setaccio / e mi rendo conto che il conto non torna
uno schizzo rosso mi macchia sul davanti / e tento un metro diverso
verso olio e sale / e cambio soggetto e tema
metto su fuoco basso / e cadenzo un nuovo ritmo dentro di me
rimescolo / e decido per il verso libero
rimescolo / e provo una rima
rimescolo / e la scarto
assaggio / e saggio un’assonanza
aggiungo un po’ di sale / e provo una metafora
spengo il gas, il sugo è pronto / la poesia no.

lunedì 17 dicembre 2007

a memoria/alla memoria

Comincio ad avere difficoltà a ricordare i nomi. Anche quelli di persone stranote.
Qualche volta mi avvilisce, altre volte ne rido.
Questi cinque vorrei ricordarmeli. Sono i nomi dei cinque operai morti nell'incendio alla ThyssenKrupp.

Bruno Santino
Rocco Marzo
Angelo Laurino
Roberto Scola
Antonio Schiavone

Mi sono ricordata di essere andata a Bologna nel 1968 (millenovecentosessantotto) ad un convegno sulla sicurezza sul lavoro.
Forse-forse-la situazione è migliorata. Ma è ancora intollerabile.


Goya Il muratore ferito

che si aprano i Saturnalia

Sono arrivati i Saturnalia. Anche se li chiamiamo Natale e Capodanno.

I Romani, popolo pragmatico, se ne infischiarono di costruire cosmogonie o genealogie di divinità: la vicenda della nascita del mondo non meritò la loro attenzione. Il mondo c’era, no? Tanto valeva occuparsene. E poi a speculare ci avevano già pensato i Greci ed egregiamente. A che pro rifare daccapo tutto il lavoro?
Ciò non significa affatto che i Romani fossero un popolo poco religioso: già agli albori della civiltà romana i “numina” erano ovunque. Né significa che mancasse totalmente un’attività mitopoietica, come gli studi più recenti dimostrano ampiamente.
Quanto alla vulgata secondo cui i Romani non credessero ai loro Dei, è una questione mal posta. La religione romana, come del resto la greca, non è una religione “unica” e come tale non possiede verità di fede, ma solo una pluralità di credenze, il cui rispetto non è in rapporto con una vita futura ma solo condizione indispensabile per la conservazione e la crescita "della comunità nell’esistenza presente”.(Denis Feeney)
La comunità nell’esistenza presente: è detto bene, vero?
Comunque in ogni casa albergavano i Lares familiares, omaggiati di frutti e libagioni, i Penati ricevevano le loro offerte di sale e di farro e i Mani vino, miele, latte e fiori.
A tutto il resto pensava la religione pubblica, scandendo l’anno con feste e cerimonie.

December era il mese sacro a Saturno, il mese del compimento di tutte le cose, espressione della fine del ciclo annuale. Il Sole giunge nel punto più angusto della parabola discendente, dando l’impressione di voler scomparire del tutto. Ma l’oscurità della prima quindicina del mese tende verso il ciclo Saturnale, che ricorda una mitica età dell’oro in cui si viveva in pace e in abbondanza.
Il Solis dies segna l’inizio dei festeggiamenti.
Quest’anno, MMDCCLX ab Urbe condita, il Solis Dies è stato ieri, il 16 gennaio.


Ed ecco le disposizioni per i riti pubblici.
Oggi, XVI giorno delle Kalende, I giorno dei Saturnali, si compia il sacrificio del Porcus. Sia grande opulenza.

Al III giorno si propizi Ops, che protegge l’abbondanza delle messi.
Si intensifichi l’esuberanza e la vitalità.

Al V giorno si onori Cerere.

Il VI giorno sia dedicato al gioco, ai dadi, alla Fortuna.

Il VII giorno sia giorno di purificazione e silenzio. E'il giorno del solstizio di inverno.

L’VIII giorno (25 Dicembre) DIES NATALIS SOLIS INVICTI si sacrifichi pubblicamente al Dio.
Si compiano giochi in suo nome. Si illumini l'albero e si inneggi ad Apollo. Ci si vesta di candido, si offrano libagioni e doni dorati.

Queste le cerimonie pubbliche. Nel privato ci si scambiavano doni modesti, ceri o statuette di argilla o di pasta dette “sigilla”, si invitavano ospiti ai quali si facevano trovare doni da portar via, “apophoreta”, si componevano epigrammi per accompagnare i doni, nelle strade piccoli banchi offrivano agli acquirenti doni già preparati. Incontrandosi ci si porgevano auguri.

Non so, c’è qualche cosa che mi suona familiare.

domenica 16 dicembre 2007

d'amore e d'altre cose con Wislawa Szymborska

Accanto a un bicchiere di vino
Con uno sguardo mi ha resa più bella,
e io questa bellezza l'ho fatta mia.
Felice, ho inghiottito una stella.

Ho lasciato che mi immaginasse
a somiglianza del mio riflesso
nei suoi occhi. Io ballo, io ballo
nel battito di ali improvvise.

Il tavolo è tavolo, il vino è vino
nel bicchiere che è un bicchiere
e sta lì dritto sul tavolo.
Io invece sono immaginaria,
incredibilmente immaginaria,
immaginaria fino al midollo.

Gli parlo di tutto ciò che vuole:
delle formiche morenti d'amore
sotto la costellazione del soffione.
Gli giuro che una rosa bianca,
se viene spruzzata di vino, canta.

Mi metto a ridere, inclino il capo
con prudenza, come per controllare
un'invenzione. E ballo, ballo
nella pelle stupita, nell'abbraccio
che mi crea.

Eva dalla costola, Venere dall'onda,
Minerva dalla testa di Giove
erano più reali.
Quando lui non mi guarda,
cerco la mia immagine
sul muro. E vedo solo
un chiodo, senza il quadro.
da "Sale"


Al mio cuore, di domenica
Ti ringrazio, cuore mio:
non ciondoli, ti dai da fare
senza lusinghe, senza premio,
per innata diligenza.

Hai settanta meriti al minuto.
Ogni tua sistole
è come spingere una barca
in mare aperto
per un viaggio intorno al mondo.

Ti ringrazio, cuore mio:
volta per volta
mi estrai dal tutto,
separata anche nel sonno.

Badi che sognando non trapassi in quel volo,
nel volo
per cui non occorrono le ali.

Ti ringrazio, cuore mio:
mi sono svegliata di nuovo
e benché sia domenica,
giorno di riposo,
sotto le costole
continua il solito viavai prefestivo.
da "Uno spasso"


Vestiario
Ti togli, ci togliamo, vi togliete
cappotti, giacche, gilè, camicette
di lana, cotone, misto di lana,
gonne, calzoni, calze, biancheria,
posando, appendendo, gettando su
schienali di sedie, ante di paraventi;
per adesso, dice il medico, nulla di serio,
si rivesta, riposi, faccia un viaggio,
prenda nel caso, dopo pranzo, la sera,
ritorni fra tre, sei mesi, un anno;
vedi, e tu pensavi, e noi temevamo,
e voi supponevate, e lui sospettava;
è già ora di allacciare con mani ancora tremanti
stringhe, automatici, cerniere, fibbie,
cinture, bottoni, cravatte, colletti,
e da maniche, borsette, tasche tirar fuori
-sgualcita, a pois, a righe, a fiori, a scacchi-
la sciarpa
riutilizzabile per protratta scadenza.
da "Gente sul ponte"

sabato 15 dicembre 2007

il Tempo secondo Yourcenar

"Quando si parla dell'amore per il passato, bisogna fare attenzione: si tratta dell'amore per la vita; la vita è molto più al passato che al presente. Il presente è un momento sempre breve,anche quando la sua pienezza lo fa sembrare eterno.
Quando si ama la vita, si ama il passato perché esso è il presente qual è sopravvissuto nella memoria umana. Il che non vuol dire che il passato sia un'età d'oro: esattamente come il presente, è al tempo stesso atroce, splendido, o brutale, o semplicemente qualunque."
(Ad occhi aperti)



"Io ho cinquantanove anni.Per quanto mi riguarda, il periodo migliore della vita saranno forse i prossimi vent'anni(se li potrò vivere), e cioè quando, essendomi alleggerita di molte cose e avendo imparato a conoscerne alcune, potrò cominciare a utilizzare l'esperienza passata e forse, in certi campi, a spingermi più lontano o più in profondità di prima."
(Lettere ai contemporanei)


Ogni volta che leggo questa donna io resto strabiliata di fronte alla nostra affinità di pensiero.
Naturalmente lei è La Yourcenar e io sono solo marina, ma Lei conosce me e io credo di capire Lei.

venerdì 14 dicembre 2007

incombendo il Natale...

Ricetta della Minestrina di Nain

Arrivando al tramonto in un caravanserraglio approssimativamente trasformato in locanda, dopo trecento chilometri di deserto su una strada dritta-e sottile- come una spada, uscendo da una tempesta di vento che vi ha quasi uccisi, troverete questa minestrina non solo appropriata ma squisita. È indicata in tutte le situazioni di stress estremo.

Acqua salata sul fuoco, scottarvi appena una pastina, condire con succo di lime, rosso di uovo e, in mancanza di panir-il formaggio fresco iraniano- abbondante parmigiano.
Versarla su del pane raffermo per ottenere una zuppa.



Qualcuno storcerà il naso: ma che rob’è? È quello che ho detto, una semplice minestrina. Ma è leggera, delicata, profumata. E nutriente insieme.
Dopo la minestrina di Nain, il mondo e le sue beghe scompaiono in una lontananza rassicurante. Il nostro stomaco è a posto. Ha ricevuto la sua attenzione e la sua cura.
Quella notte io dormii uno dei sonni migliori della mia vita. Dimenticai la fatica di quella tappa pesante e la paura di avanzare nel vorticare della sabbia, in un nulla che mulinava e mugghiava, mentre la polvere entrava nel naso e si metteva in gola. Soprattutto scacciai dalla mia mente il momento orribile in cui i fari trasformarono in muro impenetrabile l’impalpabile polvere rossastra e ci ritrovammo di colpo muso a muso con una grossa berlina che ci veniva incontro, in corsa folle, dalla direzione opposta; lo scarto all’ultimo secondo che ci buttò fuori della pista e lo sforzo affannoso per rientrare sulla carreggiata, mentre intorno tutto vorticava, fischiava, ruggiva, nella notte del deserto.
Una tempesta di sabbia è molto peggio della nebbia. Ha lo stesso effetto di disorientamento e accecamento, ma è accompagnata da un concerto pauroso di suoni minacciosi ed ha un corpo palpabile.
Quando infine arrivammo a Nain, lasciandoci alle spalle la tempesta e il fantasma di un incidente mortale schivato per un’inezia, non trovai la forza di ordinare niente e al cameriere del caravanserraglio che mi chiedeva che cosa volessi, risposi solo con un muto sguardo. Lui scelse oculatamente per me, mio marito e mia figlia, la minestrina di Nain, più un conforto che una pietanza.
In suo ricordo, quando chiediamo al cibo, non di saziarci, né di stuzzicarci, né di sbalordirci, ma semplicemente di ristabilire in noi una sensazione di “a posto” leggero, in famiglia facciamo ricorso alla “Minestrina di Nain”.
Certo, per noi ha un sapore speciale, ma sono sicura che piacerà anche a voi. Quello che bisogna imparare non è l’esecuzione del piatto, così modesta, ma la scelta del momento giusto.
Di ritorno dagli acquisti di Natale potrebbe essere uno di quei momenti.

giovedì 13 dicembre 2007

c'era una volta...

Ieri pomeriggio ho lavorato ad un grande album fotografico che sto preparando per mio nipote Tommaso. Per quando saprà leggere. È in pratica un albero genealogico che, a partire dalla sua mamma e dal suo papà, risale indietro nel tempo. Per ognuno degli antenati di Tommaso metto una foto e una breve scheda descrittiva.
Sto ricostruendo per lui la storia della sua famiglia. In un certo senso gli sto presentando tutti i suoi avi. Vorrei che non andasse perduto il ricordo delle persone le cui vite hanno dato vita alla sua.
Ho raccolto foto, storie e ricordi dei miei famigliari, e ho messo insieme tutte le notizie che ho potuto. Una cugina mi ha aiutato in questo. Mi accorgo però che ci sono domande alle quali ormai nessuno più può rispondere, poiché i nostri genitori sono morti.
Questa ricostruzione di un albero genealogico è un’operazione insieme malinconica e divertente. Andando indietro nel tempo, le note diventano sempre più corte, le vite si racchiudono in poche frasi. I dati anagrafici, qualche ricordo, una pennellata, un’immagine. Mi sembra di assistere a quell’effetto cinematografico, di cui ignoro il nome, per cui le immagini si allontanano rapidamente divenendo sempre più piccole.
Ma ogni tanto, una storia ascoltata chissà quante volte in famiglia, mi torna in mente e ancora mi viene da ridere. Mio nonno Giulio, famoso per le sue sfuriate, che frulla via il minestrone che mia nonna Agnese si ostinava a servirgli troppo caldo e subito dopo si inginocchia a pulire e si scusa con la moglie (che adorava): “Agnesì abbi pazienza, ti chiedo scusa, abbi pazienza”. E Agnesina, mite ma testarda, che, prima di servirgli una nuova scodella di minestrone, lo riscalda ancora! L’intraprendenza della mia bisnonna Martina, di favolosa bellezza, figlia di un mugnaio, che fa innamorare il gentiluomo di origine spagnola che poi la sposerà, spolverandolo di farina.
Storie su storie.
Confesso che ho la brutta abitudine di fare regali a Tommasino. Mia figlia mi rimprovera per questo. Ma a mia scusante voglio dire che Tommaso ha un modo irresistibile di chiedermi un regalo, senza chiedermelo. In un certo senso si offre di farmene lui uno. Ha capito che il mio piacere di regalargli qualche cosa è grande almeno quanto il suo di riceverla. Così, mi interpella gentilmente: "E’ questo nonna il pupazzo che mi vuoi regalare?" Pupazzo di cui fino ad un secondo prima ignoravo l’esistenza e che mai mi ero sognata di regalargli. Ma da quel momento il mio desiderio di regalargli quel pupazzo si fa impellente. Comunque, pur essendo forse troppo prodiga, so che il regalo che sto preparando per lui è molto più bello di tutti i pupazzi che gli ho comprato (e che continuerò a comprargli!). Sono sicura che verrà un giorno in cui lo apprezzerà fino in fondo.
Ho scoperto che riesco a risalire fino ai genitori dei miei trisavoli (come si chiamano? Semplicemente avi?). E se avessi sufficiente fiato narrativo, e una capacità di ricercatrice che mi manca del tutto, avrei solo l’imbarazzo della scelta. Tra queste figure del passato ci sono infatti vite che varrebbe davvero la pena raccontare.
Musicisti, ferrovieri, marinai, pedagogiste, stornellatori, ostetriche, donne di mondo, banchieri, pittrici, mugnaie, colti, incolti, poveri, ricchi, anarchici e comunisti,(più una delegata del fascio a Tripoli, ma, come si dice in ogni famiglia, NON DALLA MIA PARTE). Tutta una schiera di figure, divenute tutte favolose. E le foto, andando indietro nel tempo sono sempre più straordinarie, ho addirittura un dagherrotipo!
Intendiamoci, per fare un lavoro di questo genere, ci vuole la giornata adatta. Non tutti i giorni vanno bene per tuffare le mani nella storia. Così il lavoro va avanti da mesi e altri ne richiederà.
Però secondo me è un esercizio bellissimo e mi permetto di consigliarlo a tutti.
Sono sicura che in ogni famiglia ci sono vite favolose da raccontare. Fermo restando che ogni vita, la più oscura e modesta, la più piatta e banale, contiene un nucleo di verità umana che merita un racconto. Naturalmente, più la vita è banale, più grande dev’essere l’arte di chi la racconta.

politica oggi

La politica italiana pre-vista da Giacomo Leopardi in “Zibaldone di pensieri”

"Oggi la gara di onore è più fra coloro che compongono una stessa armata che fra le armate nemiche: anticamente per lo contrario. Oggi per conseguenza il soldato invidia e quindi odia il suo compagno più che il nemico: anticamente per lo contrario. Oggi egli si duol più di un vantaggio riportato da un suo emulo sopra il nemico che de’ vantaggi del nemico...Anticamente tutto era egoismo nazionale oggi tutto è egoismo individuale."

mercoledì 12 dicembre 2007

post al volo

Voglia solo dare il mio "Bentornato" a Baluginando e invitarvi ad un brindisi alla sua salute. E anche a quella di tutti noi, perché no?
I blogger con un penchant per l'alcool non ne approfittino, please! Non sono nemmeno le 9 del mattino!

ciaociao

post it

Credo di avervi già detto che ho l’abitudine di porre ogni nuovo anno sotto la speciale protezione e guida di una massima, scelta tra le tante che donne e uomini saggi ci hanno offerto. Scelgo il mio motto per l’anno che viene e nel corso dei mesi tento di assimilare la sua lezione, di farla mia, di interiorizzarla. La massima diventa una specie di talismano, mi accompagna con un mormorìo costante. Interviene ogni tanto a raddrizzare la mia direzione, a riportarmi su una strada che l’irriflessione potrebbe rendere pericolosa o anche solo amara per me. Invece di leggere un oroscopo che mi dica come sarà il nuovo anno, mi tengo ben chiara in mente una esortazione che mi aiuti a viverlo.

È nell'ultimo mese dell’anno che scelgo quello che sarà il mio motto per l’anno che sta per venire. Sono gli umori, le considerazioni, le riflessioni dicembrine che mi segnalano l’ammonimento di cui ho bisogno in questo preciso momento della mia vita.
Scelgo così il pensiero che mi dedico, la massima che scolpisco per me e che traccio sulla mia nuova agenda ed ovunque io la possa quotidianamente vedere.
Qualche volta una lettura provvidenzialmente effettuata proprio sul finire di dicembre mi offre l’illuminazione di cui ho bisogno. Altre volte rimugino confusamente pensieri che di botto si chiariscono e, con l’idea ben chiara in mente, vado a ritrovare nelle mie carte quella massima divenuta subitaneamente la mia massima del momento.

Quest’anno è andata così.
Leggevo -Approfitto per aprire una parentesi. Io odio quelli che dicono “rileggevo”, snob che vogliono dimostrare di aver già tutto letto, di essere i primi, i primissimi della classe. Mentitori, inoltre, perché secondo me non “rileggiamo” mai. Ogni rilettura di un testo essendo una lettura “nuova”- dicevo dunque, leggevo Seneca, “Lettere a Lucilio” e sono caduta su questo piccolo paragrafo:
Quaeris quid profecerim? amicus esse mihi.Mi chiedi quali progressi io abbia fatto? ho imparato ad essermi amico.
Di botto mi è stato chiaro: in quest’ anno che viene io voglio imparare ad essere mia amica. Il mio motto sarà dunque “Amica esse mihi”.
Senza però dimenticare, ma anzi sempre tenendo a mente che, per essere mia amica, c’è qualche altra cosa che devo preliminarmente fare. Ed è sempre Seneca, sempre nelle Lettere a Lucilio a dirmelo “Ita fac: vindica te tibi". Questo "Vindica te tibi" mi ha già fatto compagnia in anni passati. Ma è un precetto piuttosto ardua da seguire e non sarà male "ripassarlo" un po'.

Ecco questa sarà la mia massima per l’anno 2008.
Rivendicare me stessa per me ed essermi amica.
Speriamo di farcela.