sabato 4 agosto 2007

per zarà

Ho ricevuto questa mattina un e-mail di Nazanin, una giovane donna iraniana, di cui seguo il blog.
Ha sollevato tanti ricordi del mio periodo teheranì, ma ho capito che non posso lasciarli emergere senza prima parlare di Zarà e della sua famiglia. Perché sono stati anche la mia famiglia. Di tutti loro, che ho lasciato all’alba della rivoluzione komeinista, non ho più saputo niente. Niente più di Zarà, di suo marito Mohammed, dei figli Parviz, Zoré, e Alì. Niente della giovane nipote di Zarà, Kopra. Quando sono partita era impossibile immaginare quello che poi successe.
Pensavamo che Zarà e la sua famiglia sarebbero restati nella grande casa di Farmanieh e lì avrebbero accolto una nuova famiglia di europei o americani. Tutto poi fu sconvolto. Ad un livello imprevedibile. Nonostante questo io mi rimprovero lo stesso, perché prima di partire non presi nota dell’indirizzo del piccolo appartamento che con grandi sacrifici Zarà e Mohammed stavano comprando e in cui programmavano di trasferirsi una volta smesso di lavorare.
Lasciai l’incarico a mio marito che si tratteneva a Teheràn ancora due mesi. Per varie ragioni quell'incarico non fu eseguito.
Le ragioni erano buone. Ciò nonostante non perdonerò mai né lui né me stessa per la perdita di contatti con Zarà e la sua famiglia.

Non so fare la storia della rivoluzione komeinista, molti storici e giornalisti l’hanno raccontata, letti da me con vera bolumìa. Fra questi lo ha fatto straordinariamente bene Ryszard Kapuscinski, il grande giornalista polacco recentemente scomparso e su cui in questi giorni in Polonia scaricano abbondante fango.
Quanto a me, in quei giorni a Teheràn, seppi di Qom, naturalmente: la folla che dimostrava in difesa di Komeini, perché gli fosse concesso dallo Shah il ritorno dall’esilio, e la polizia che ferocemente la mitragliò. Decine e decine le vittime.
Con i morti di Qom iniziò un periodo di commemorazioni e morti, morti e commemorazioni. Il lutto sciita prevede una cerimonia di cordoglio a 40 giorni dalla morte del defunto, ma queste commemorazioni divennero delle vere e proprie manifestazioni di protesta contro il regime e ogni volta la polizià sparò e uccise. La seconda volta a Tabriz. Poi anche i morti di Tabriz furono commemorati e questa volta la polizia dello Sha sparò e uccise a Isfahan, e per i morti di Isfahan si commemorò e si uccise a Mashad e poi a Teheràn e ancora e ancora. Iniziò così.
Io partii mentre si commemorava e si uccideva, prima che la situazione precipitasse definitivamente..

Partii e lasciai Zarà. Una delle donne più intelligenti, energiche, ottimiste, coraggiose che io abbia mai conosciuto. Zarà aveva la mia età, era piccola, scura, con abbaglianti denti bianchi e padroneggiava la realtà come il capitano di un vascello. Veniva da un piccolo villaggio dell’est del paese. Accogliendomi mi disse subito che saremmo diventate amiche. Cercando sul vocabolario anglo-iraniano la parola che pronunciava mi sentii scettica. Mi chiesi come avrei fatto a diventare amica di una donna con cui potevo comunicare solo attraverso il vocabolario di una lingua diversa dalla mia. Ma Zarà mi insegnò il farsi. Quello della strada. Non quello che nelle cene con i colleghi iraniani di mio marito sentivo parlare dalle loro mogli, anzi in quelle cene spesso vedevo espressioni di sorpresa o di perplessità alle mie parole. Ma il mio farsi era quello parlato dai quattro milioni di persone che giravano incessantemente per la grande città caotica e mi assimilò presto ad una donna del posto. Più di una volta, viaggiando nei quattro angoli dell’immenso paese, mi fu chiesto se ero di Teheràn e persino a Heràt e a Kabùl mi riconoscevano come teheranì. Di questo vado molto orgogliosa. Perché questo è una specie di miracolo. Io non sono portata affatto per le lingue. Tutte quelle che ho studiato o che ho dovuto imparare le parlo con lo stesso accento: quello di Roma. Ma il farsi no. Nel farsi sono entrata come in un maglione comodo e il farsi è entrato in me come una musica già sentita. Il farsi è una lingua bellissima. Non solo ricca e sofisticatamente articolata ma di una grande musicalità. E’ una lingua così antica! Gli Arabi sono riusciti ad imporle i caratteri, più un certo numero di parole, soprattutto nella versione scritta, ma non di più. Zarà mi insegnò ogni altra cosa che serviva per vivere a Teheràn, compresa la forza. Perché pur nella posizione di privilegio in cui noi vivevamo, vivere a Teheràn non era facile. Mi insegnò anche a cucinare i piatti di una cucina ingiustamente ignorata dai grandi chef del resto del mondo: fantasiosa, varia, sana e bellissima per gli occhi. E piena di sapori arditi e profumi intensi. Mi insegnò piccoli ed efficacissimi rimedi per una infinità di malesseri o indisposizioni, mi insegnò a comprare al bazar senza offendere i commercianti con una sbrigativa compravendita, mi insegnò a valutare criticamente i tappeti...Mi insegnò la pazienza, ma anche la decisione, mi insegnò anche un fatalismo non veramente passivo, fatto di una forma consapevole dei limiti della nostra natura.
Zarà era straordinariamente aperta a tutto, non si scandalizzava di niente. Niente di me la indignò mai, eppure eravamo così diverse. Zarà avrebbe potuto essere tutto nella vita, avrebbe potuto insegnare filosofia o governare quel paese, avrebbe potuto esercitare l’avvocatura o diventare couturier... Invece viveva in una piccola casa di due locali nel retro del giardino della grande villa a Farmanieh e lavorava come cameriera per le famiglie di stranieri che si succedevano nella casa. Portava ampi pantaloni stretti alla caviglia e i capelli raccolti in una coda, delle ciabattine rosa in plastica anche sulla neve e indossava il chador solo quando usciva. Ne teneva i lembi tra i denti quando aveva le mani impegnate. Continuerò per sempre a vederla mentre si tira verso il volto il chador che le scivola indietro e intanto sorride. Zarà oggi dovrebbe avere ancora la mia età, sarebbe ragionevole che fosse ancora viva. Io voglio credere alla ragionevolezza della vita. E Mohammed? Quell’uomo così mite, così orgoglioso del suo vestito giacca e cravatta, sarà partito tra i primi per la guerra contro l’Iraq. E poi sarà toccato a Parviz. Parviz era un bambino di otto anni bellissimo, un volto perfetto, luminoso, degli occhi raggianti, un corpo agile, sempre in movimento. E poi c’era Zoré, appena un anno più di mia figlia, che con lei giocava a cucinare, e preparavano per me e Zarà pietanze di terra che ci servivano, facendoci accosciare sui tappeti, insieme al tè... E Kopra, a quattordici anni considerata una donna, e per la quale si cercava un possibile marito, Kopra se ne moriva dalla voglia di giocare con loro...
E poi Alì, il piccolo, morbido, tenero Alì. La sua bocca umida, le manine che si agitavano, i minuscoli piedi sempre nudi, le lunghe ciglia nere, Alì così robusto, così affamato, così perfetto. In quel paese dove lo Shah si comprava le più sofisticate, potenti e costose armi, americane ma anche italiane, la salute era garantita solo dalla selezione naturale e dalla sorte.
I bambini di Zarà erano splendidi e sani. Che ne sarà stato di loro? Anche Alì, ormai dodicenne, avrà fatto in tempo a partire con i piccoli martiri nell’ultimo anno di guerra?

Sono molte le cose che posso dirmi a consolazione. C’è molta filosofia che in situazioni come queste è pronta per soccorrerci. Posso appellarmi a Seneca, posso ricordarmi le sue consolationes, posso aprire libri e percorrerne le pagine fino a trovare le parole perfette per me, dove si dica tutto del destino umano, e della ineluttabilità della guerra e della nostra natura e dove si indichi la via dell’umiltà e della accettazione. Anche Zarà mi avrebbe saputo indicare i passi da leggere, lei nel suo libro come altri nel loro. Ma io non voglio leggere niente, io non voglio sapere niente della natura umana né del nostro destino di povere creature, io me ne frego delle parole dei filosofi, io vorrei solo poter sentire la voce di Zarà.
No, anche questo forse è superfluo: io vorrei solo che Zarà potesse ancora far sentire la sua voce.

2 commenti:

  1. Dovevi essere molto brava con il farsi per essere addirittura riconosciuta come Teheranì, complimenti.
    Io tenni alcuni contatti per 2 anni, poi entrai nel turbine dell'attività di consulenza e piano piano laciai perdere. Erano gli anni in cui lavoravo molto intensamente.
    Però il danno maggiore lo fece un allagamento, nella mia casa di Milano: persi tutto, foto ed indirizzi inclusi (che non avevo trascritto sul PC, mannaggia!!)

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  2. Sì misteriosamente il farsi mi usciva dalla bocca spontaneamente. Ne studiai anche la struttura su due ottime grammatiche, inglese una e francese l'altra. ma non fu questo a farmi familiarizzare con la lingua. Fu Zarà e una specie di affinanza mai compresa.

    Dev'essere stato un dramma perdere tutti i tuoi riferimenti.
    Io di cartaceo ho poco, ho un fondo iconoclasta.
    ma mi porto dentro aprecchie tonnellate di ricordi.

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