Non ho niente contro la carità. In quanto sentimento è dolce e affettuoso. Carità viene dal greco charis, attraverso carus è entrata nel latino dove ha dato caritas che, nella sua forma traslata, indica l’affetto che si prova per qualcuno o qualcosa. La famosa carità di patria, che oggi come oggi è merce introvabile, è la caritas patriae di Cicerone, l’amore per la patria. Quindi caritas è approdata nell’italiano. La chiesa cristiana ne ha fatto una delle virtù teologali, con un senso, se ricordo bene, diverso da quello usato nel linguaggio comune. La caritas virtù teologale è l’amore per Dio bene supremo. (Qui ci vorrebbe Julo).
Poi c’è la pratica caritatevole, l’offrire aiuto ai bisognosi. E Caritas è sinonimo di assistenza al prossimo in stato di bisogno. La Caritas è la faccia degna della chiesa cattolica, secondo me.
Quello che ha reso per me poco accetto il concetto di carità è il fatto che essa costituisce spesso una pratica liberatoria, il sostituto più facile della responsabilità. A me piacerebbe un mondo in cui nessuno desse all’altro per carità, perché quell’altro è povero e bisognoso, ma perché gli vuole bene e vuole dargli gioia. E mi piacerebbe che l’altro fosse a sua volta in condizioni, materiali e spirituali, di dare gioia all’altro con il suo dare. Un mondo di uguali, per dirla semplicemente, in cui l’aiuto e il soccorso siano reciproci.
Ma questo mondo al presente non esiste e accedere alla pratica della carità è spesso l’unico modo di portare aiuto. Il sentimento con cui lo facciamo possiamo chiamarlo solidarietà (parola ormai abusata, se non addirittura imbrattata) e possiamo viverlo come responsabilità, ma al gesto che compiamo resta appiccicato un sentore di quella carità che a me non piace. Quella delle patronesse di una volta che benigne dispensavano qualche briciola del loro danaro prenotandosi un posto in prima fila nel loro paradiso.
La carità inoltre può essere anche pratica scaramantica: una tattica perché gli dei non si irritino con noi. Diamo, nel timore che la nostra fortuna ci venga rinfacciata e sfilata di sotto le mani.
Non voglio però disconoscere tutte le persone genuinamente caritatevoli, ricche o povere, credenti o no, che sentono il desiderio oltre che il dovere di aiutare i meno fortunati o, altrimenti detti, i poveri. Persone che lo fanno con slancio e senza nessun fine secondo, né in questo né nell’altro mondo.
La carità inoltre può essere anche pratica scaramantica: una tattica perché gli dei non si irritino con noi. Diamo, nel timore che la nostra fortuna ci venga rinfacciata e sfilata di sotto le mani.
Non voglio però disconoscere tutte le persone genuinamente caritatevoli, ricche o povere, credenti o no, che sentono il desiderio oltre che il dovere di aiutare i meno fortunati o, altrimenti detti, i poveri. Persone che lo fanno con slancio e senza nessun fine secondo, né in questo né nell’altro mondo.
Ognuno di noi conduce le sue pratiche caritatevoli, comunque le viva e comunque le chiami. Io pratico le mie.
Lo faccio con la sensazione di fare semplicemente quello che si deve, contenta di poter essere utile ma nello stesso tempo mortificata per il fatto di non trovare un modo diverso di essere utile. Insomma è un po’ un casino di sentimenti.
Adesso voglio parlarvi di Muhammad. Muhammad ha dieci anni, è nato nel 1998 ed è uno dei 1855 bimbi feriti nella striscia di Gaza. Vive nel campo profughi di Jabaliya. Di lui so poco altro. Il nome del padre e quello del nonno paterno, assieme ad un codice di identificazione personale, attribuitogli dalla Onlus che ci ha messi in contatto, necessario perché i bambini Muhammad feriti sono tanti ed è facile fare confusione.
Di Muhammad ho anche una foto che non pubblicherò.
Di norma alle persone che sostengono a distanza un bambino in stato di bisogno viene inviata una foto del bambino stesso. Queste foto sono sempre strazianti.
Almeno per me. E’ proprio l’idea della foto che mi fa star male. L’idea che quel bambino o quella bambina si sia dovuta far ritrarre, forse addirittura mettere in posa, perché io vedessi che esiste davvero. O perché guardandola mi sentissi più generosa, più incline a non abbandonarla nel tempo. Fotografare questi bambini mi è sempre sembrato un gesto comprensibile ma violento. E’ vero che guardare la bambina o il bambino serve a creare un legame affettivo, ma a me ha sempre dato la sensazione che a quel bambino si chiedesse di vendersi.
La foto di Muhammad da questo punto di vista è parlante. Dice, esattamente, quello che io so da sempre. Che i bambini non vogliono farsi fotografare, che lo sentono come un peso, una cosa da fare affinché una persona estranea e lontana li veda ed abbia la prova che loro esistono e, con questa prova in mano, mandi dei soldi per loro, per mangiare, per curarsi, per studiare.
Nella foto che ho ricevuta ieri, Muhammad è in un ospedale da campo, su un lettino di ferro coperto solo da un telo. Non c’è cuscino. Accanto si vede il sostegno di una flebo. Mahammud è a torso nudo ed è coperto solo parzialmente da un lenzuolo bianco e da una coperta rosa. Entrambi sono scostati dal corpo, in modo da mostrare le numerose ferite. Tiene la testa girata di lato e gli occhi chiusi. Il volto è pieno di schegge di proiettili e così la parte del torace che è esposta.
Malgrado lo sguardo non si veda, la posizione contratta dà un’idea di malavoglia e di rassegnazione insieme. Non voleva essere fotografato Muhammad, lo so per certo. E mi fa star male il pensiero che abbia dovuto subire questa piccola violenza, sottoporsi a questo atto indiscreto e invasivo, perché lo si vedesse con le sue ferite, perché chi ha inviato del denaro, io, che ho inviato del denaro, io ho il diritto di guardarlo.
Vorrei potergli chiedere scusa.
Vorrei aver detto al responsabile della Onlus: Non mandatemi foto. Vi prego. Ho fiducia in voi. So che state usando il mio denaro per un bambino vero. Non voglio che Muhammad debba farsi fotografare per me. Manderò io a lui una mia foto, perché lui veda che io esisto davvero.
Debbo ricordarmelo per il futuro.
Lo faccio con la sensazione di fare semplicemente quello che si deve, contenta di poter essere utile ma nello stesso tempo mortificata per il fatto di non trovare un modo diverso di essere utile. Insomma è un po’ un casino di sentimenti.
Adesso voglio parlarvi di Muhammad. Muhammad ha dieci anni, è nato nel 1998 ed è uno dei 1855 bimbi feriti nella striscia di Gaza. Vive nel campo profughi di Jabaliya. Di lui so poco altro. Il nome del padre e quello del nonno paterno, assieme ad un codice di identificazione personale, attribuitogli dalla Onlus che ci ha messi in contatto, necessario perché i bambini Muhammad feriti sono tanti ed è facile fare confusione.
Di Muhammad ho anche una foto che non pubblicherò.
Di norma alle persone che sostengono a distanza un bambino in stato di bisogno viene inviata una foto del bambino stesso. Queste foto sono sempre strazianti.
Almeno per me. E’ proprio l’idea della foto che mi fa star male. L’idea che quel bambino o quella bambina si sia dovuta far ritrarre, forse addirittura mettere in posa, perché io vedessi che esiste davvero. O perché guardandola mi sentissi più generosa, più incline a non abbandonarla nel tempo. Fotografare questi bambini mi è sempre sembrato un gesto comprensibile ma violento. E’ vero che guardare la bambina o il bambino serve a creare un legame affettivo, ma a me ha sempre dato la sensazione che a quel bambino si chiedesse di vendersi.
La foto di Muhammad da questo punto di vista è parlante. Dice, esattamente, quello che io so da sempre. Che i bambini non vogliono farsi fotografare, che lo sentono come un peso, una cosa da fare affinché una persona estranea e lontana li veda ed abbia la prova che loro esistono e, con questa prova in mano, mandi dei soldi per loro, per mangiare, per curarsi, per studiare.
Nella foto che ho ricevuta ieri, Muhammad è in un ospedale da campo, su un lettino di ferro coperto solo da un telo. Non c’è cuscino. Accanto si vede il sostegno di una flebo. Mahammud è a torso nudo ed è coperto solo parzialmente da un lenzuolo bianco e da una coperta rosa. Entrambi sono scostati dal corpo, in modo da mostrare le numerose ferite. Tiene la testa girata di lato e gli occhi chiusi. Il volto è pieno di schegge di proiettili e così la parte del torace che è esposta.
Malgrado lo sguardo non si veda, la posizione contratta dà un’idea di malavoglia e di rassegnazione insieme. Non voleva essere fotografato Muhammad, lo so per certo. E mi fa star male il pensiero che abbia dovuto subire questa piccola violenza, sottoporsi a questo atto indiscreto e invasivo, perché lo si vedesse con le sue ferite, perché chi ha inviato del denaro, io, che ho inviato del denaro, io ho il diritto di guardarlo.
Vorrei potergli chiedere scusa.
Vorrei aver detto al responsabile della Onlus: Non mandatemi foto. Vi prego. Ho fiducia in voi. So che state usando il mio denaro per un bambino vero. Non voglio che Muhammad debba farsi fotografare per me. Manderò io a lui una mia foto, perché lui veda che io esisto davvero.
Debbo ricordarmelo per il futuro.
Visto che mi chiami in causa, direi che che se dovessi dare un voto sarebbe 6/7. La virtù teologale della Carità è sì amore per Dio bene supremo, ma questa virtù deve incarnarsi in amore concreto, vissuto, sofferto e donato per gli altri. Per non parlare poi di chi la 'esercita' per guadagnarsi il paradiso. In questo caso è puro egoismo, cioè esattamente il contrario della Carità. È prendersi in giro, ma soprattutto prendere in giro quel Dio che si dice di amare.
RispondiEliminaMa venendo al tuo post, lo sottoscrivo al 101%. Tutto. Molto bella la tua distinzione tra Carità e carità (non trovo altro modo per indicare questa differenza fondamentale da te ben spiegata).
Grazie.
Pace e benedizione
Julo d.
Grazie, Julo, di avermi chiarito meglio il concetto di carità come virtù. Così è molto più bella e completa.
RispondiEliminae buona giornata a te, marina
Loro non sanno della tua sensibilità,di quanto non ami le ostentazioni
RispondiEliminaLoro sanno che la maggior parte di chi fa carità,anche con le migliori intenzioni,ama mostrare le prove e mette le fotografie del suo protetto nell'antina a vetri del salotto.
Cristiana
Questo post ti rende molto onore, anche se non è, senza dubbio alcuno il motivo, per cui hai scritto,anzi...
RispondiEliminaNel mio piccolo, ho qualche dubbio sul sostegno a distanza,perché diventa un fatto personale; preferisco fare delle donazioni a metà con Emergency e Medici senza frontiere, poi lascio a loro la totale discrezionalità di gestire le mie briciole, mi piacerebbe poter versare il mio otto per mille allo stato e che il "mio Stato", anziché regalarli al Vaticano quei soldi, gestisse direttamente il fondo con programmi trasparenti e documentatissimi in grado di risolvere in maniera definitiva i problemi di qualche angolo di mondo. So che questa è pura utopia, userebbero quei soldi per foraggiare qualche decina di migliaia di portaborse e poi la passerella mediatica delle inaugurazioni, dove il politico preminente del momento diverrebbe il santo dei poveri.
Scusa la divagazione, ma mi sono fatto trasportare da un problema che sento tantissimo.
Sileno
La società non esiste se non come somma dei comportamenti dei singoli. Non dobbiamo farci espropriare della coscienza dei nostri limiti perchè è la sola che ci permette di agire concretamente, modificare la realtà e non deprimerci completamente. Ti ricordo che a inizio anno hai condiviso l'impegno a lottare sempre e comunque e siamo solo a febbraio...
RispondiEliminaIn realtà per Muhammad quello che importa sono i tuoi soldi e la tua Carità.
Tu ti fai tanti scrupoli per una foto, ma sono scrupoli tuoi, lui ha ben altre gatte da pelare 24 ore su 24. E' che vedere, guardare la sofferenza soprattutto dei bambini, ti fa venire voglia di esplodere.
Giorgio, addolorato come te.
A proposito di carità come dare due soldi ai mendicanti, oppure andare una volta l'anno a servire nelle mense dei poveri la trovo di una superficialità disarmante, e anche molto ipocrita. Meglio l'adozione a distanza come fai te che a quanto apre funziona veramente oppure( se si ha ovviamente tempo) far parte attiva di qualche gruppo di volontariato.
RispondiEliminaC'era il bangladese Prenio nobel Muhammad Yunusmio che ha fondato la Banca etica, lui è meglio conosciuto come il banchiere dei poveri e detestava dare l'elemosina ai mendicanti perchè sapeva benissimo che era una maniera per deresponsabilizzarci...
ps scusami ma poi mi dilungo troppo e mi perdo...
Io infatti odio questo termine e preferisco il termine solidarietà. Ma carità, per favore, proprio no!
RispondiEliminanon aggiungo nulla qui a quanto ho scritto sul post immediatamente precedente anche perché ho commentato lì dopo aver letto anche questo post-post
RispondiEliminaciao, baby
Non amo la carità (anche se la faccio); credo nella solidarietà (e provo a compierla).
RispondiEliminaPer me è questa la differenza tra carità e Carità.
Non darti pena per le foto fatte ai tanti Muhammad.
Non credo che a loro importi molto essere fotografati o meno. La paura e la rassegnazione che si legge nei loro occhi non aumenta certo per il click di una macchina fotografica.
Sarebbe bello che non ci servissero le loro foto per sentirci solidali, ma se esse servono ben vengano.
In questi tempi in cui le coscienze sono spente, per molti ci vogliono "effetti speciali" affinchè si risveglino...
Io sono stata in Brasile in un posto dove lavorano con la gente e si sostengono con l'aiuto che viene dall'estero. Lavorano insieme alla gente del posto per aiutare i ragazzi nella scuola e poi creano cooperative per aiutarli a lavorare e sosteneri in modo autonomo.
RispondiEliminaBene, il respsonabile di questo lavoro mi ha proprio parlato di questo: la gente vuole vedere la fotografia, per mandare soldi. Ma quando si sono accorti che questo creava danni nei ragazzi che fotografavano, non l'hnno più fatto.
Hanno cambiato messaggio. Prima la chiamavano "adozione a distanza" che è un falso: nessuno diventa figlio di nessuno... è assurdo credere quaìsi di essere genitori perchè mando dei soldi ed è sminuente per chi è adottato sul serio che non capisce più chi è.
L'hanno chiamata solidaietà e hanno spiegato il loro lavoro. Gli aiuti sono arrivati lo stesso. E con questo tipo di aiuto, è cresciuta anche la coscienza di chi lo dava...
Quindi condivido tutto di quello che hai scritto. Giulia
Ti capisco perfettamente. Anche dei bambini che tutelo con la Reach Italia mandano una foto dove tengono in mano un cartello con un numero di riferimenti. Inquietante.
RispondiEliminaPer fortuna, a parte la poverta' non sono nelle condizioni del piccolo della striscia di Gaza.
Anche a me imbarazza questo ruolo.
Vedi purtroppo la tua sensibilità non é da tutti ecco purtroppo il perché di quella foto.
RispondiEliminaHa ragione Franca a volte alcuni necessitano di effetti speciali.
Tu non sei tra quelli.
Un abbraccio
Daniele