venerdì 25 dicembre 2015
Amici di blog
Care amiche e amici di blog, anche se ci incontriamo poco, io penso a voi con affetto e voglio farvi i miei auguri. Ringrazio chi ancora passa a trovarmi, malgrado la mia latitanza.
venerdì 16 ottobre 2015
per me, per Angela, per tutti una poesia di Franco Marcoaldi
Forse non dovrei farlo, ma sfido l'ira dell'editore e riporto quasi tutta una poesia della nuova raccolta di Franco Marcoaldi "Il mondo sia lodato" Einaudi 2015 € 11(caro, purtroppo).
dove stanno acquattati i nostri
morti? in quali angusti anfratti
della mente, in quali sconfinati
spazi aperti? in quali tremolanti
porti? Il loro passo è lento e
fiero - atletico amorevole
severo. Non bussano alla porta
delle case, loro, non vanno mai
di fretta. Di rado compaiono
nei sogni, appena un cenno;
buttano l'amo, avanzano un quesito
...e abbandonano la scena. Nostra
e soltanto nostra resta la pena
per quell'incontro troppo fugace.
Perché lo so,
o venerato Mondo,
che senza il conforto
sagace dei miei morti
mai ti potrei lodare.
per quell'illogica bontà stupida
e cieca, istintiva, ricorrente,
che inonda quanto è vivo
- un cervo agonizzante accudito
da un fratello casuale, il ramo
scorticato che un passante
fascia perché aderisca
meglio al tronco.
Sono quelle schegge di umanità
senza ritorno, piccole crepe
nel grande mare dell'indifferenza,
spicciole figure d'immortalità
figlie di debolezza, granelli
di sabbia che si librano
nel vento a inceppare
il meccanismo feroce
e onnipresente del maligno.
A loro, ai morti,chiedo
di offrirmi qualche appiglio.
Lo chiedo a un padre che ho
frainteso, malgrado fossi figlio
suo in tutto: bocca e naso,
sbalzi d'umore, daimon d'amore,
scatti d'ira, frivola leggerezza
e una gravezza incupita e repentina.
Lui conosceva a menadito
insetti e piante e stelle,
l'avessi temuto un po' di meno
e apprezzato un po' di più
oggi dalla gioia non starei
nella mia pelle, perché è proprio
nei prodigi di natura, a me
per buona parte ignoti,
che intravvedo
la possibilità di colmare
i miei più dolorosi vuoti.
Chiedo tardivo aiuto
a un fratello che ho perso
troppo presto e non ho
amato a sufficienza.
Tra noi, la vicinanza dell'infanzia
si era crepata nell'età oscura
dell'adolescenza - e a lungo
un'ideologica arroganza mi impedì
di accogliere la sua fragilità
sfacciata ed esibita, il gusto
teatrale di volersi conquistare
a tutti i costi un'altra vita.
Lo vedo ancora avvolto
nella sua elegantissima
vestaglia, combattere con ironico
eroismo l'ultima, disperatissima
battaglia.
E mi domando:
che ho fatto io delle basse
scatole di legno utilizzate
da mio padre
per infilzare insetti? del coraggio
sfrontato di un fratello,
catodico ecce homo, che difese
innanzi al mondo i malati
come lui considerati alla stregua
di appestati postmoderni,
di paria, di reietti?
Poco, ne ho fatto. E oggi
mi restano solo delle povere
parole per provare a restaurare
affreschi esperienza stinti ormai
per troppa pioggia e troppo sole.
Eppure continuo a cercare
tra i morti e continuo a chiedere
aiuto ai trascorsi maestri di versi,
ideatori di catene di segni
che battono il tempo
trovando nel ritmo quanto
altri non vede - anche questa
è questione di fede - una fede
che fa sue le parole "non so".
(il canto -il numero XI - ricorda, come il poeta ci dice nella postfazione, Vasijli Grossman, Wislawa Szymborska e Giorgio Caproni, perché ai poeti e alla poesia Marcoaldi chiede aiuto).
Ognuno dei dodici canti è bellissimo, io ho scelto questo perché parla del rapporto con i morti, perché anche io chiedo aiuto ai miei morti e perché ho riconosciuto la mia amica Angela nel passante che fascia il ramo scorticato perché aderisca meglio al tronco, Angela, seminatrice di schegge di bontà senza ritorno.
dove stanno acquattati i nostri
morti? in quali angusti anfratti
della mente, in quali sconfinati
spazi aperti? in quali tremolanti
porti? Il loro passo è lento e
fiero - atletico amorevole
severo. Non bussano alla porta
delle case, loro, non vanno mai
di fretta. Di rado compaiono
nei sogni, appena un cenno;
buttano l'amo, avanzano un quesito
...e abbandonano la scena. Nostra
e soltanto nostra resta la pena
per quell'incontro troppo fugace.
Perché lo so,
o venerato Mondo,
che senza il conforto
sagace dei miei morti
mai ti potrei lodare.
per quell'illogica bontà stupida
e cieca, istintiva, ricorrente,
che inonda quanto è vivo
- un cervo agonizzante accudito
da un fratello casuale, il ramo
scorticato che un passante
fascia perché aderisca
meglio al tronco.
Sono quelle schegge di umanità
senza ritorno, piccole crepe
nel grande mare dell'indifferenza,
spicciole figure d'immortalità
figlie di debolezza, granelli
di sabbia che si librano
nel vento a inceppare
il meccanismo feroce
e onnipresente del maligno.
A loro, ai morti,chiedo
di offrirmi qualche appiglio.
Lo chiedo a un padre che ho
frainteso, malgrado fossi figlio
suo in tutto: bocca e naso,
sbalzi d'umore, daimon d'amore,
scatti d'ira, frivola leggerezza
e una gravezza incupita e repentina.
Lui conosceva a menadito
insetti e piante e stelle,
l'avessi temuto un po' di meno
e apprezzato un po' di più
oggi dalla gioia non starei
nella mia pelle, perché è proprio
nei prodigi di natura, a me
per buona parte ignoti,
che intravvedo
la possibilità di colmare
i miei più dolorosi vuoti.
Chiedo tardivo aiuto
a un fratello che ho perso
troppo presto e non ho
amato a sufficienza.
Tra noi, la vicinanza dell'infanzia
si era crepata nell'età oscura
dell'adolescenza - e a lungo
un'ideologica arroganza mi impedì
di accogliere la sua fragilità
sfacciata ed esibita, il gusto
teatrale di volersi conquistare
a tutti i costi un'altra vita.
Lo vedo ancora avvolto
nella sua elegantissima
vestaglia, combattere con ironico
eroismo l'ultima, disperatissima
battaglia.
E mi domando:
che ho fatto io delle basse
scatole di legno utilizzate
da mio padre
per infilzare insetti? del coraggio
sfrontato di un fratello,
catodico ecce homo, che difese
innanzi al mondo i malati
come lui considerati alla stregua
di appestati postmoderni,
di paria, di reietti?
Poco, ne ho fatto. E oggi
mi restano solo delle povere
parole per provare a restaurare
affreschi esperienza stinti ormai
per troppa pioggia e troppo sole.
Eppure continuo a cercare
tra i morti e continuo a chiedere
aiuto ai trascorsi maestri di versi,
ideatori di catene di segni
che battono il tempo
trovando nel ritmo quanto
altri non vede - anche questa
è questione di fede - una fede
che fa sue le parole "non so".
(il canto -il numero XI - ricorda, come il poeta ci dice nella postfazione, Vasijli Grossman, Wislawa Szymborska e Giorgio Caproni, perché ai poeti e alla poesia Marcoaldi chiede aiuto).
Ognuno dei dodici canti è bellissimo, io ho scelto questo perché parla del rapporto con i morti, perché anche io chiedo aiuto ai miei morti e perché ho riconosciuto la mia amica Angela nel passante che fascia il ramo scorticato perché aderisca meglio al tronco, Angela, seminatrice di schegge di bontà senza ritorno.
giovedì 17 settembre 2015
un libro da amare: L'inondazione di Adriàn Bravi
Con una sconfinata
inondazione il fiume che dà nome al paese di Rio Sauce lo invade e sommerge, e
lo trasforma in una distesa d'acqua da cui emergono solo i tetti delle case.
Gli abitanti raccolgono quello che possono e abbandonano il paese. Solo Ilario Morales,
un settantenne smilzo, che vive da solo dopo la morte della moglie, si rifiuta
di partire e si ritira a vivere nella soffitta della sua casa inondata portando
con sé poche cose e abbandonando al fiume quello che il fiume è venuto a
prendersi. "Così come è venuta, tutta quell'acqua se ne andrà", dice
Morales, e si dispone all'attesa.
Inizia così una
quotidianeità molto concreta e insieme fiabesca: con una piccola barca a
remi Morales si dà all'esplorazione di quel nuovo paesaggio acquatico e
insieme alla rievocazione del passato che vi è rimasto intrappolato
sotto.
Il ritmo con cui Morales
rema, lasciandosi ora scivolare ora dondolare sull'acqua, è anche il ritmo con
cui la scrittura procede. Senza strappi, senza eccessi: Adriàn Bravi racconta
in un modo tranquillo, paziente, mi viene da dire liquido, con una lingua
esatta e insieme musicale.
Ma il ritmo di Morales
-quel remare sulla superficie acquatica mentre il pensiero penetra nella
profondità che vi si nasconde - è contagioso anche per noi che leggiamo.
Sulla sua barca lui dondola su quella linea invisibile e fluttuante che separa
il tempo passato, il tempo dei ricordi, e il presente ormai misterioso in
una doppia indagine affettuosa, e noi stessi rispondiamo a quel doppio
movimento con il nostro personale ricordare mentre cerchiamo di comprendere la
realtà del nostro nuovo presente. Forse questo mi accade perché Morales ed io
siamo coetanei? Io sento che Morales è mio amico: nella fedeltà al luogo dove
si sono formati i nostri ricordi, nell'accettazione dell'onda del tempo che
copre la nostra vita già vissuta, nel coraggio di vivere la solitudine senza
rimostranze, nell'assunzione del ruolo naturale di custode della storia anche
di chi è pronto a dimenticare.
Morales non è rancoroso né
rassegnato: il fiume che invade si accetta, perché il fiume fa il suo mestiere
- e Morales lo accetta - ma è pronto anche a farsi attivo custode e
difensore della storia sua e del suo paese contro un vociferato progetto
speculativo. La comparsa di questa parola che mette in moto l'azione basti a
farci capire che non ci muoviamo solo nel favoloso ma anche nella realtà e
questo è un altro motivo del fascino di questo libro. Vi compaiono storie e
figure ormai divenute leggendarie ma anche personaggi realissimi e attuali. E
un'ironia sottile e cordiale percorre il racconto di vivaci avventure e
imprese. Che cosa manca a questo libro? Niente. Neanche un capovolgimento
finale che per un momento ci sconcerta ma che presto comprendiamo come naturale
conclusione della storia.
Morales ed io siamo
coetanei, come ho detto, ma questo non fa del libro un libro per anziani. È
invece un libro per tutti -io l'ho appena accennato a mio nipote dodicenne e
lui vuole leggerlo perché vi ha intuito subito un elemento di favola mistero e avventura.
La storia che viene
raccontata nel libro prende il via da un fatto vero che Adriàn Bravi non ha
vissuto ma che gli è stato raccontata e mi chiedo se non faccia parte di quelle
memorie del passao di Rio Sauce custodite proprio da Morales.
Adriàn Bravi L'inondazione
Edizioni Nottetempo 2015
mercoledì 5 agosto 2015
Poeti che hanno vinto il Premio Pulitzer/3
#PoetiPulitzer Elizabeth Bishop 1956 Pensa al temporale che nel cielo vaga inquieto come un cane in cerca di un posto per dormire
Elizabeth Bishop 1956 Come le traversine sotto il treno, sotto la mente in fuga ricorrono i sogni.
Poeti che hanno vinto il Premio Pulitzer/2
#PoetiPulitzer W.H.Auden 1948
Fra tutti i mammiferi
soltanto l'uomo ha orecchie
che non tradiscono emozione alcuna.
#PoetiPulitzer W.H.Auden -1948 Se davvero si sentono fratelli gli uomini non cantano all'unisono ma in armonia.
#PoetiPulitzer W.H.Auden -1948 Se davvero si sentono fratelli gli uomini non cantano all'unisono ma in armonia.
Poeti che hanno vinto il premio Pulitzer/1
Poeti che hanno vinto il Premio Pulitzer/1
#PoetiPulitzer Carl Sandburg 1951
Io sono l'erba
domenica 28 giugno 2015
leggera come la pioggia
La pioggia,
perché è nemico comune?
Ma la pioggia non è mio nemico personale.
Ha una voce che è mia
entra in gola esce di gola.
La pioggia significa
anche d'estate
e le significo io
-non mi sceglie come non sceglie nessuno-
ma mi ama il capo dove lo bagna.
Dovrei pesare meno
-essendo leggera come una pioggia-
e mi raccoglierebbe in su
mi porterebbe via.
m.p.
domandare è lecito
Qualcosa dimentico qualcosa ricordo
qualcosa nascondo
molto.
Domandare no, non domando
né tutto né qualcosa.
Non so, questo lo so, e sta bene
è cosa terrena
placida piana pacifica
Domandare sarebbe lecito ma non c'è
nessuno
nell'orbita buia
così cortese da rispondere.
m.p.
sabato 6 giugno 2015
Erotismo non è porcheria (in attesa di un progetto di @TwitSophia)
"Nessuna opera d'arte erotica è una porcheria, quand'è artisticamente rilevante,diventa una porcheria solo tramite l'osservatore, se costui è un porco" Egon Schiele 1986
Dal piccolo libro di Renato Guttuso
Cartoline- Diario per immagini
Edito da Rosellina Archinto
Il libro raccoglie delle cartoline dipinte di Guttuso che raccontano la sua passione erotica e che egli difende da ogni accusa dichiarando che "per me queste cartoline sono un prodotto artistico" e che accompagna con piccole didascalie.
L'incontro
Il piacere
Nell'isola natia, infine
martedì 5 maggio 2015
Leggendo Ode al Monte Soratte di Claudio Damiani- /2
Con Ode al Monte Soratte ho ritrovato intatta e cara la poesia di Damiani e tutte le ragioni per cui la amo.
La prima cosa che mi prende è la musicalità inconfondibile, quel ritmo disteso, tranquillo come un passo che va, calmo e sicuro, senza accelerazioni o brusche svolte. C'è questo passo che ci porta e c'è lo sguardo. Uno sguardo che si posa con la stessa affettuosa attenzione su un largo paesaggio e su una singola foglia, su un sasso e sulle cime di un monte. Nel piccolo c'è il grande, ogni piccola creatura racchiude un senso e racchiude la vita. Credo che l'incanto per me nasca dallo scoprire il favoloso che si nasconde in ogni cosa e nella religiosità -senza dispensare credi- che circonda la natura. Con la natura -una nuvola, un albero, il vento- Damiani parla, con un tu familiare, come tra parenti. Che poi è proprio quello che sono, alberi, nuvole, monti e sassi, nostri parenti. Le poesie parlano, o comunque alludono sempre, al tempo. Al passare, all'andare, al morire, al vivere nel morire. E c'è un modo non amaro ma sereno di accettare questo scorrere, i lontani principi e le fini.Tutte le fini che si rifaranno principio, quando o come non si sa. Molte cose non si sanno. Ma anche questo non sapere fa parte dell'andare, del camminare nella natura, nella vita. Questo mi sembra di leggere nelle poesie di Claudio Damiani e leggerle è un piacere e anche una consolazione.
Qui riporto solo una piccola parte di un dialogo, senza saccheggiare il libro.
(si parla, si poeta, degli alberi)
Francesco a me piace stare vicino a loro. Sentirli
respirare, sentire i loro sussurri, il loro parlottio
continuo e le idee che scorrono nella loro mente. Mi
piace toccare i tronchi e stringerli, o anche appoggiare
la guancia su di loro. O anche stare ferma seduta
accanto a loro, senza fare niente. Mi piace respirare
vicino a loro. Sentire che il tempo che scorre per me, è
lo stesso che scorre per loro.
(I disegni che accompagnano le poesie, di Giuseppe Salvatori, e che sono profili del monte cui è dedicato il libro, hanno qualcosa di misterioso; che l'artista non lo sappia ma mi hanno fatto pensare alle macchie di Rorschach e mi hanno dato parecchio da fare).
La prima cosa che mi prende è la musicalità inconfondibile, quel ritmo disteso, tranquillo come un passo che va, calmo e sicuro, senza accelerazioni o brusche svolte. C'è questo passo che ci porta e c'è lo sguardo. Uno sguardo che si posa con la stessa affettuosa attenzione su un largo paesaggio e su una singola foglia, su un sasso e sulle cime di un monte. Nel piccolo c'è il grande, ogni piccola creatura racchiude un senso e racchiude la vita. Credo che l'incanto per me nasca dallo scoprire il favoloso che si nasconde in ogni cosa e nella religiosità -senza dispensare credi- che circonda la natura. Con la natura -una nuvola, un albero, il vento- Damiani parla, con un tu familiare, come tra parenti. Che poi è proprio quello che sono, alberi, nuvole, monti e sassi, nostri parenti. Le poesie parlano, o comunque alludono sempre, al tempo. Al passare, all'andare, al morire, al vivere nel morire. E c'è un modo non amaro ma sereno di accettare questo scorrere, i lontani principi e le fini.Tutte le fini che si rifaranno principio, quando o come non si sa. Molte cose non si sanno. Ma anche questo non sapere fa parte dell'andare, del camminare nella natura, nella vita. Questo mi sembra di leggere nelle poesie di Claudio Damiani e leggerle è un piacere e anche una consolazione.
Qui riporto solo una piccola parte di un dialogo, senza saccheggiare il libro.
(si parla, si poeta, degli alberi)
Francesco a me piace stare vicino a loro. Sentirli
respirare, sentire i loro sussurri, il loro parlottio
continuo e le idee che scorrono nella loro mente. Mi
piace toccare i tronchi e stringerli, o anche appoggiare
la guancia su di loro. O anche stare ferma seduta
accanto a loro, senza fare niente. Mi piace respirare
vicino a loro. Sentire che il tempo che scorre per me, è
lo stesso che scorre per loro.
(I disegni che accompagnano le poesie, di Giuseppe Salvatori, e che sono profili del monte cui è dedicato il libro, hanno qualcosa di misterioso; che l'artista non lo sappia ma mi hanno fatto pensare alle macchie di Rorschach e mi hanno dato parecchio da fare).
domenica 3 maggio 2015
Leggendo Ode al Monte Soratte di Claudio Damiani /1
Sono una lettrice ingenua.Voglio dire: per leggere ho solo me stessa. Non ho niente cui appoggiarmi. Non gli strumenti della critica letteraria, non teorie interpretative. Ho me stessa e dietro di me tutti i libri letti. Dietro e dentro di me. Il linguaggio con cui esprimo il mio pensiero su un libro non può che essere semplice e quotidiano e riconosco che esso è spesso insufficiente, anzi, inadeguato, rispetto al libro stesso. Se poi si tratta di poesia l'inadeguatezza è ancora più evidente.
Credo che chi ha letto il mio blog nel corso di questi anni sappia bene che nel presentare un libro non mi sono mai avventurata in analisi critiche, ma ho sempre parlato solo del mio rapporto con il libro stesso.
Oggi voglio comunque parlare di un libro di poesia: Ode al Monte Soratte di Claudio Damiani. Editore Fuorilinea. Il libro raccoglie 18 poesie, un dialogo, un racconto e 9 disegni di Giuseppe Salvatori, un artista che non conoscevo.
Quello che nell'indice è chiamato dialogo -e che ha la forma di dialogo tra Francesco e Laura- è ancora una lunga poesia in cui la voce del poeta ha come un'eco che ci rimanda non tanto le sue parole ma i suoi affetti. È una cronaca-ricordo poetica di una salita (la parola ascensione non mi sembra adatta, non so perché) al Monte Soratte, il protagonista della piccola raccolta.
Nel racconto che chiude il libro c'è un incontro tra un pastore di pecore e una insegnante ed è stato come una scossa elettrica alla mia memoria e mi ha riportata a quando ero una giovane insegnante che ogni mattina partiva all'alba per un piccolo paese di quasi montagna nella sua vetturetta e si fermava lungo la strada per respirare quella natura di erba, prati, luce, radi alberi e fiori di prato senza nome. Restavo un po' così, senza né fare né pensare, solo raccolta nella felicità di quella natura
semplice che non aveva nulla di spettacolare.
E ho ricordato un mio incontro, più povero di quello narrato nel libro, ma che ha avuto origine nello stesso modo e credo dallo stesso sentimento.
Quando mi fermavo lungo la strada che portava a Bellegra, restavo spesso a guardare le greggi di pecore al pascolo, perché le pecore mi affascinavano di tenerezza. Un giorno mi inoltrai, ma poco, nel campo. Destai però l'allarme di tre grossi cani pastore, bianchi e veloci che da lontano puntarono dritti su di me attraversando a cavallo di se stessi il campo con intenzioni severe. Il mio amore per i cani è assoluto, ma quei tre grossi animali col pelo bianco luccicante di rugiada mi impaurirono e restai lì incerta e un po' paralizzata. Poi feci l'unica cosa che un istinto un po' animalesco mi suggerì. Mi sedetti in terra aspettandoli. Mi raggiunsero in un attimo e trovatami in quella posizione arresa decisero che non ero una minaccia per le pecore affidate alla loro sorveglianza. E mi annusarono, girandomi strettamente intorno. Così potei parlargli e dichiarargli il mio amore e toccarli anche, mentre con le loro code oscillanti mi dicevano di star tranquilla perché avevano capito chi ero e che potevo restare e anche se, naturalmente, non mi amavano perché ero solo una sconosciuta per loro, pure accettavano il mio amore e mi rassicuravano sul fatto che se ci fossimo conosciuti meglio anche loro avrebbero potuto amarmi. Dopo qualche colpetto col muso e piccole strusciature amichevoli dei fianchi ripartirono al galoppo, senza voltarsi indietro, una veloce elastica nuvola bianca. Mi rimasero le mani inumidite dalle carezze e addosso l'odore di pelo e acqua, terra e erba. Il mio incontro finì così. Nessun ulteriore sviluppo ma quell'incontro ancora mi emoziona e mi commuove. E leggere una situazione in partenza così simile -anche se il racconto del poeta continua con un'altra ricchezza di narrazione e riflessione- è diventato prezioso, quasi fosse scritto proprio per me.
Questa sensazione del resto mi succede sempre con la poesia di Claudio Damiani e suscita in me un sentimento di gratitudine, ma anche di timidezza, come di fronte a un regalo di valore ma immeritato.
Ora mi accorgo di aver parlato di me e non delle poesie raccolte nel libro.
Ma voglio farlo, ci tengo molto a farlo.
Lo farò, con la necessaria cautela, e nel mio solito linguaggio, non preparato, non esperto, molto presto.
Intanto riporto almeno una poesia. (E speriamo che copiarla non sia una scorrettezza).
Quando io mi siedo qui, su questo muretto
lungo il sentiero, non è un punto particolare
non c'è una vista particolare
è un punto qualsiasi, e io mi siedo,
sto un po' fermo e guardo le fronde degli alberi,
ornielli forse, con le foglioline piccole,
che mi stanno davanti, faggi anche, accanto a loro,
e ascolto il loro silenzio, l'oscillare lieve delle foglie,
sento il silenzio del sentiero, della terra,
il muoversi impercettibile di ogni cosa, come un brulichio
o un ronzio che diventa sempre più forte,
come un mare, come una lava che bolle,
e io sono dentro questo cratere di fuoco
perfettamente calmo, come avessi una tuta
magica che mi protegge dal calore,
dal rumore assordante, eppure sento questo silenzio,
il muoversi impercettibile delle foglie,
lo scorrere del tempo come lo scorrere
d'un'acqua, d'un ruscello, d'una fonte
vicina e insieme lontana, che non sai dov'è.
Jean Baptiste Camille Corot Il Monte Soratte-1826
Credo che chi ha letto il mio blog nel corso di questi anni sappia bene che nel presentare un libro non mi sono mai avventurata in analisi critiche, ma ho sempre parlato solo del mio rapporto con il libro stesso.
Oggi voglio comunque parlare di un libro di poesia: Ode al Monte Soratte di Claudio Damiani. Editore Fuorilinea. Il libro raccoglie 18 poesie, un dialogo, un racconto e 9 disegni di Giuseppe Salvatori, un artista che non conoscevo.
Quello che nell'indice è chiamato dialogo -e che ha la forma di dialogo tra Francesco e Laura- è ancora una lunga poesia in cui la voce del poeta ha come un'eco che ci rimanda non tanto le sue parole ma i suoi affetti. È una cronaca-ricordo poetica di una salita (la parola ascensione non mi sembra adatta, non so perché) al Monte Soratte, il protagonista della piccola raccolta.
Nel racconto che chiude il libro c'è un incontro tra un pastore di pecore e una insegnante ed è stato come una scossa elettrica alla mia memoria e mi ha riportata a quando ero una giovane insegnante che ogni mattina partiva all'alba per un piccolo paese di quasi montagna nella sua vetturetta e si fermava lungo la strada per respirare quella natura di erba, prati, luce, radi alberi e fiori di prato senza nome. Restavo un po' così, senza né fare né pensare, solo raccolta nella felicità di quella natura
semplice che non aveva nulla di spettacolare.
E ho ricordato un mio incontro, più povero di quello narrato nel libro, ma che ha avuto origine nello stesso modo e credo dallo stesso sentimento.
Quando mi fermavo lungo la strada che portava a Bellegra, restavo spesso a guardare le greggi di pecore al pascolo, perché le pecore mi affascinavano di tenerezza. Un giorno mi inoltrai, ma poco, nel campo. Destai però l'allarme di tre grossi cani pastore, bianchi e veloci che da lontano puntarono dritti su di me attraversando a cavallo di se stessi il campo con intenzioni severe. Il mio amore per i cani è assoluto, ma quei tre grossi animali col pelo bianco luccicante di rugiada mi impaurirono e restai lì incerta e un po' paralizzata. Poi feci l'unica cosa che un istinto un po' animalesco mi suggerì. Mi sedetti in terra aspettandoli. Mi raggiunsero in un attimo e trovatami in quella posizione arresa decisero che non ero una minaccia per le pecore affidate alla loro sorveglianza. E mi annusarono, girandomi strettamente intorno. Così potei parlargli e dichiarargli il mio amore e toccarli anche, mentre con le loro code oscillanti mi dicevano di star tranquilla perché avevano capito chi ero e che potevo restare e anche se, naturalmente, non mi amavano perché ero solo una sconosciuta per loro, pure accettavano il mio amore e mi rassicuravano sul fatto che se ci fossimo conosciuti meglio anche loro avrebbero potuto amarmi. Dopo qualche colpetto col muso e piccole strusciature amichevoli dei fianchi ripartirono al galoppo, senza voltarsi indietro, una veloce elastica nuvola bianca. Mi rimasero le mani inumidite dalle carezze e addosso l'odore di pelo e acqua, terra e erba. Il mio incontro finì così. Nessun ulteriore sviluppo ma quell'incontro ancora mi emoziona e mi commuove. E leggere una situazione in partenza così simile -anche se il racconto del poeta continua con un'altra ricchezza di narrazione e riflessione- è diventato prezioso, quasi fosse scritto proprio per me.
Questa sensazione del resto mi succede sempre con la poesia di Claudio Damiani e suscita in me un sentimento di gratitudine, ma anche di timidezza, come di fronte a un regalo di valore ma immeritato.
Ora mi accorgo di aver parlato di me e non delle poesie raccolte nel libro.
Ma voglio farlo, ci tengo molto a farlo.
Lo farò, con la necessaria cautela, e nel mio solito linguaggio, non preparato, non esperto, molto presto.
Intanto riporto almeno una poesia. (E speriamo che copiarla non sia una scorrettezza).
Quando io mi siedo qui, su questo muretto
lungo il sentiero, non è un punto particolare
non c'è una vista particolare
è un punto qualsiasi, e io mi siedo,
sto un po' fermo e guardo le fronde degli alberi,
ornielli forse, con le foglioline piccole,
che mi stanno davanti, faggi anche, accanto a loro,
e ascolto il loro silenzio, l'oscillare lieve delle foglie,
sento il silenzio del sentiero, della terra,
il muoversi impercettibile di ogni cosa, come un brulichio
o un ronzio che diventa sempre più forte,
come un mare, come una lava che bolle,
e io sono dentro questo cratere di fuoco
perfettamente calmo, come avessi una tuta
magica che mi protegge dal calore,
dal rumore assordante, eppure sento questo silenzio,
il muoversi impercettibile delle foglie,
lo scorrere del tempo come lo scorrere
d'un'acqua, d'un ruscello, d'una fonte
vicina e insieme lontana, che non sai dov'è.
Jean Baptiste Camille Corot Il Monte Soratte-1826
mercoledì 29 aprile 2015
viva il formato .XML
Sono nata il primo di ottobre del 1943. Ho quindi compiuto settantuno anni di vita e nel prossimo ottobre ne avrò settantadue. La cosa non mi impressiona. Anche se, come accade a tutti, non so come ci sia arrivata così in fretta. Di una sessantina di anni di vita sono più o meno cosciente, gli altri fanno parte di un misterioso trascorrere del tempo di cui io non ho avuto coscienza. Chissà, forse questo tempo che avanza (e mi avanza) è quello in cui dormiamo. Tant'è. Ne ho quasi settantadue e questo è tutto.
Osservo il mondo e la vita, ne ho tutto il tempo essendo fatte le mie giornate sostanzialmente di silenziosa solitaria riflessione. Ogni giorno imparo qualche cosa. Ogni giorno la vita mi impartisce una piccola lezione. Molte conferme, certo, ma anche molte scoperte. Non tutte piacevoli ma, almeno questa, non è una sorpresa.
Sto copiando con molta pazienza, post dopo post, questo blog. Infatti non sono riuscita in nessun modo ad aprire il file con formato XML con cui Blogger mi ha consegnato l'archivio del blog.
Sto seguendo un cammino a ritroso: il 2014, il 13, il 12, l'11, il 10. Sono anni in cui ho scritto poco e la copiatura è proceduta abbastanza rapidamente. Sto ora copiando il 2009.
Per lo più copio senza leggere, ma ogni tanto un titolo o una frase su cui mi cade l'occhio mi colpisce e mi soffermo nella lettura. La cesura tra il 2010 e il 2009 è impressionante. Mi sono imbattuta in una persona di cui avevo vaga memoria. Tocco con mano quello che sento profondamente in me: la perdita di una identità e la ricostruzione, lenta e faticosa, di una nuova. Il formato XML, da me tanto vituperato, mi ha comunque offerto l'opportunità di rivedermi come ero. Forse potrebbe essere interessante anche per voi, amici blogger, dare un'occhiata ai vostri vecchi post.
Per me è un'esperienza un po' interessante e un po', un bel po', conturbante. Ma vado avanti. Cioè, indietro.
Osservo il mondo e la vita, ne ho tutto il tempo essendo fatte le mie giornate sostanzialmente di silenziosa solitaria riflessione. Ogni giorno imparo qualche cosa. Ogni giorno la vita mi impartisce una piccola lezione. Molte conferme, certo, ma anche molte scoperte. Non tutte piacevoli ma, almeno questa, non è una sorpresa.
Sto copiando con molta pazienza, post dopo post, questo blog. Infatti non sono riuscita in nessun modo ad aprire il file con formato XML con cui Blogger mi ha consegnato l'archivio del blog.
Sto seguendo un cammino a ritroso: il 2014, il 13, il 12, l'11, il 10. Sono anni in cui ho scritto poco e la copiatura è proceduta abbastanza rapidamente. Sto ora copiando il 2009.
Per lo più copio senza leggere, ma ogni tanto un titolo o una frase su cui mi cade l'occhio mi colpisce e mi soffermo nella lettura. La cesura tra il 2010 e il 2009 è impressionante. Mi sono imbattuta in una persona di cui avevo vaga memoria. Tocco con mano quello che sento profondamente in me: la perdita di una identità e la ricostruzione, lenta e faticosa, di una nuova. Il formato XML, da me tanto vituperato, mi ha comunque offerto l'opportunità di rivedermi come ero. Forse potrebbe essere interessante anche per voi, amici blogger, dare un'occhiata ai vostri vecchi post.
Per me è un'esperienza un po' interessante e un po', un bel po', conturbante. Ma vado avanti. Cioè, indietro.
lunedì 27 aprile 2015
rileggere Philip Roth
Ho iniziato a rileggere, per la terza volta, i libri di Philip Roth. E come sempre ritrovo quello che lo scrittore stesso ha detto di sé:
"Un assoluto divertimento e una mortale serietà sono i miei più intimi amici".
"Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d'acciaio spesse quindici centimetri, offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l'affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe di avere il cervello di un carro armato... "[la gente] la capisci male prima di incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l'incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell'incontro e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, ai tuoi stessi interlocutori, la faccenda è, veramente una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci.....Rimane il fatto che, in ogni modo, capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male, male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se riuscite…beh, siete fortunati."
"Un assoluto divertimento e una mortale serietà sono i miei più intimi amici".
"Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d'acciaio spesse quindici centimetri, offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l'affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe di avere il cervello di un carro armato... "[la gente] la capisci male prima di incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l'incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell'incontro e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, ai tuoi stessi interlocutori, la faccenda è, veramente una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci.....Rimane il fatto che, in ogni modo, capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male, male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se riuscite…beh, siete fortunati."
domenica 19 aprile 2015
da HELP a AHIMÈ
Le istruzioni di Julo, confermate da Enzo, sono perfette e io vi ringrazio. Tutto ha funzionato, tranne per il fatto che il blog mi viene scaricato in formato XML e solo in formato XML. Un formato che non riesco ad aprire con nessun programma! Ne ho cercati anche in rete ma non hanno funzionato. Il blog resta illeggibile.
Immagino di dovermi rassegnare.
Buona domenica amici
Immagino di dovermi rassegnare.
Buona domenica amici
giovedì 16 aprile 2015
help
Ho visto che si può fare il back up del proprio blog. Da Impostazioni ---> esporta blog. Cosa accade poi? Mi viene scaricato sul computer?
Non è che nell'esportarlo lo cancella temporaneamente e poi bisogna reimportarlo? È questo il mio timore.
Grazie a chi può darmi un consiglio, marina
Non è che nell'esportarlo lo cancella temporaneamente e poi bisogna reimportarlo? È questo il mio timore.
Grazie a chi può darmi un consiglio, marina
martedì 7 aprile 2015
dame la mano y danzaremos-Gabriela Mistral
Grazie al doodle di Google che mi ha ricordato che oggi, nel 1889 nasce la poetessa cilena Lucila Godoy Alcayaga, conosciuta come Gabriela Mistral, premio Nobel nel 1945.
Qui sotto una sua poesia
Qui sotto una sua poesia
Dammi la mano
Dammi la mano e danzeremo
Dammi la mano e mi amerai
come un solo fior saremo
come un solo fiore e niente più.
Lo stesso verso canteremo
allo stesso passo danzerai
Come una spiga onduleremo
come una spiga e niente più.
Ti chiami rosa e io speranza
ma il tuo nome dimenticherai
perchè saremo una danza
sulla collina e niente più.
Dame la mano
Dame la mano y danzaremos;
dame la mano y me amarás.
Como una sola flor seremos,
como una flor, y nada más…
El mismo verso cantaremos,
al mismo paso bailarás.
Como una espiga ondularemos,
como una espiga, y nada más.
Te llamas Rosa y yo Esperanza;
pero tu nombre olvidarás,
porque seremos una danza
en la colina, y nada más.
sabato 14 marzo 2015
guardando il mondo
....
Io non so spiegarmi l'imperturbabilità
di Dio, e non mi spiego di non udire il
suo grave lamento, il suo urlo di collera o
d'amore, e non so vederlo ché sono in cecità
ma vorrei sentirlo almeno piangere come piango io
guardando le facce indolorate,
guardando le
facce con grave malattia terrestre,
io non so invocarlo né bestemmiarlo che
è troppo nella sottrazione e troppo
astratto per i miei chili umani...
Mariangela Gualtieri
Io non so spiegarmi l'imperturbabilità
di Dio, e non mi spiego di non udire il
suo grave lamento, il suo urlo di collera o
d'amore, e non so vederlo ché sono in cecità
ma vorrei sentirlo almeno piangere come piango io
guardando le facce indolorate,
guardando le
facce con grave malattia terrestre,
io non so invocarlo né bestemmiarlo che
è troppo nella sottrazione e troppo
astratto per i miei chili umani...
Mariangela Gualtieri
venerdì 20 febbraio 2015
martedì 10 febbraio 2015
Il tempo che continua a esistere
L'età ci copre come una pioggerella,
interminabile e arido è il tempo,
una penna di sale tocca il tuo volto,
un gocciolio consumò il mio vestito:
Il tempo non distingue tra le mie mani
o un volo d'arance tra le tue,
la vita punge con neve e con zappa:
la vita tua che è la vita mia.
La vita mia che ti detti s'empie di anni,
come il volume di un grappolo.
Ritorneranno le uve alla terra.
E anche laggiù il tempo continua a esistere,
ad attendere, a piovere sulla polvere,
avido di cancellare persino l'assenza.
Pablo Neruda
giovedì 5 febbraio 2015
misantropia
Periodicamente torna la voglia
di cancellare le mie tracce,
di nascondere le facce.
m.p.
m.p.
Nubifragio su Roma
Annegare dal cielo
Invece che dal mare:
ci può stare.
m.p.
mercoledì 28 gennaio 2015
sessanta secondi, un minuto
Non sono i giorni, no. I giorni vanno per conto loro, masticano il tempo, nessuno sa come.
Sono i minuti, i secondi, che bisogna fronteggiare. E a denti stretti costringere il pensiero su una idea, una immagine, un oggetto. Trovarne di piatti, inerti, sterili, senza echi.
Non farsi prendere, bisogna, sfuggire, sottrarsi. Questa battaglia logora.
2007-2009
Due soli anni s'alza l' onda fiduciosa.
Poi una sferzata di vento la polverizza.
m.p.
m.p.
domenica 4 gennaio 2015
dainàs
Ho casualmente scoperto i dainàs, componimenti poetici della tradizione baltica cantati a due, tre voci.
Sono componimenti di tre, quattro versi, molto brevi, che usano l'allitterazione o la rima interna. Nella struttura ricordano gli haiku, anche se sono più liberi.
"Esprimono tutti gli aspetti della vita e della natura.
Parlano di amore, di morte, laghi, boschi, estate, inverno, dolore, piacere." (Jan Brokken)
Ne esistono diverse raccolte e altre ne vengono continuamente pubblicate. Non sono però stati tradotti in italiano.
Mi è venuta voglia di sperimentarmi, così per gioco. E anche perché mi piacciono molto le rime interne.
Come segnali di fumo
s'alzano dal grumo del tempo
e si liberano nel vento
li sento ecco
i ricordi sospirosi
Abbiamo un tetto per il riposo:
è fortunoso, ricorda.
il pane abbiamo e il sale:
è accidentale anche questo.
Il giorno di luce e di festa
con passo solenne
nella sua morsa
tutti conduce
Abbiamo ancora anime care:
ballare possiamo
ma in punta di piedi
m.p.
Non è percepito l'amore:
nella grotta si accuccia avvilito.
La beffa ci becca con aspra bocca
Guarda il tempo accartoccia
anche la roccia e i grattacieli.
Lievi ci sfariniamo.
Sono componimenti di tre, quattro versi, molto brevi, che usano l'allitterazione o la rima interna. Nella struttura ricordano gli haiku, anche se sono più liberi.
"Esprimono tutti gli aspetti della vita e della natura.
Parlano di amore, di morte, laghi, boschi, estate, inverno, dolore, piacere." (Jan Brokken)
Ne esistono diverse raccolte e altre ne vengono continuamente pubblicate. Non sono però stati tradotti in italiano.
Mi è venuta voglia di sperimentarmi, così per gioco. E anche perché mi piacciono molto le rime interne.
Come segnali di fumo
s'alzano dal grumo del tempo
e si liberano nel vento
li sento ecco
i ricordi sospirosi
Abbiamo un tetto per il riposo:
è fortunoso, ricorda.
il pane abbiamo e il sale:
è accidentale anche questo.
Il giorno di luce e di festa
con passo solenne
nella sua morsa
tutti conduce
Abbiamo ancora anime care:
ballare possiamo
ma in punta di piedi
m.p.
Non è percepito l'amore:
nella grotta si accuccia avvilito.
La beffa ci becca con aspra bocca
Guarda il tempo accartoccia
anche la roccia e i grattacieli.
Lievi ci sfariniamo.
giovedì 1 gennaio 2015
Cominciamo l'anno con la poesia
Voglio ricordare due poeti, due donne, che abbiamo salutato nel 2014:
Jacqueline Risset e Maria Luisa Spaziani
Qualche verso di Jacqueline Risset
Ceux qui aiment
ne soignent rien
regardent
écoutent battre le sang
qui vient du fond
coloro che amano
di nulla hanno cura
contemplano
e ascoltano pulsare il sangue
che viene dal fondo
Jacqueline Risset
Maria Luisa Spaziani legge qui due sue poesie
Maria Luisa Spaziani
Jacqueline Risset e Maria Luisa Spaziani
Qualche verso di Jacqueline Risset
Ceux qui aiment
ne soignent rien
regardent
écoutent battre le sang
qui vient du fond
coloro che amano
di nulla hanno cura
contemplano
e ascoltano pulsare il sangue
che viene dal fondo
Jacqueline Risset
Maria Luisa Spaziani legge qui due sue poesie
Maria Luisa Spaziani
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