Quando si entra in quella fase della vita che non chiamerò né terza né quarta né ordinerò in base a nessun ordinale (giacché la vita è un continuum le cui eventuali scansioni sono squisitamente individuali e niente hanno a che fare con i decenni); quando si entra in quella fase in cui non si sale ma, nel corpo almeno, ci si sente in discesa, la nostra idea del tempo cambia radicalmente.
Non parlo qui dell'idea del Tempo, della riflessione cioè su concetti filosofici ed esistenziali di portata insieme sottile e pesante che pure occupa gran parte della nostra mente, ma della considerazione in cui teniamo il nostro piccolo tempo quotidiano, del modo in cui ne usiamo, del senso che ore, minuti e secondi acquistano per noi.
Quella considerazione diventa affatto nuova e porta con sé grosse trasformazioni.
La nuova valutazione che facciamo del tempo entra nelle nostre azioni quotidiane, si fa gesti, atti, decisioni minute. Spesso in aperta contraddizione le une con le altre.
Potrei darne moltissimi esempi (e certo mi capiterà di darne) per ora ne segnalo solo uno che attiene agli scambi verbali che ho con gli altri.
Il nuovo senso del tempo che cogliamo alla mia età ci rende più franchi. O almeno tale mi ha resa. Non certo per effetto di un miglioramento morale che non riscontro in me, ma per effetto di una nuova impazienza che si è insinuata in me fibra per fibra. Questa nuova franchezza sfiora la brutalità e, in ogni caso, mostra il piglio infastidito dell'impazienza.
(La pazienza, del resto, non è mai stata una mia virtù e ho sempre dovuto compiere grossi sforzi per servirmi della capacità di attesa rispetto alle maturazioni altrui. E rispetto alle mie stesse. E per accogliere i comportamenti degli altri con senno e senza tempestare.
In qualche modo, sia pure con grande, grandissima fatica, nel corso della mia vita io sono riuscita a dispensare intorno a me quel tanto di pazienza senza la quale la maggior parte dei rapporti umani stridono pericolosamente. E talvolta irrimediabilmente si incrinano.)
Ma la mia attuale impazienza relativa alle conversazioni non è di quelle che si addomestichino. Essa nasce dalla nuova considerazione che do al tempo. E da una nuova scelta radicale. Molto sinteticamente questa è riassumibile così: non ho tempo da perdere in diplomatici accomodamenti del mio parlare.
Questo imprime alle mie conversazioni una franchezza del tutto nuovo. Una franchezza cioè nuda, scarna e priva di ammorbidenti e ammortizzatori. Questo, ripeto, per effetto di una scelta, lucida e convinta.
Non sono cioè diventata più impaziente e quindi più franca perché non riesco più a tenere a freno la mia innata impazienza, ma perché non voglio.
La diplomazia, che mai è stato un mio punto forte, non si addice alla mia età. Questo ho deciso. Non voglio impiegare il mio tempo in schermaglie, in giri di parole, nella ricerca dell'espressione meno urticante, di quella più gentile, nell'attesa che la prolissità altrui si dipani e venga al dunque.
Così taglio i ragionamenti altrui anticipandoli decisamente, replico preventivamente a lunghe considerazioni che percepisco come del tutto inutili, tronco complicate e minuziose argomentazioni, rispondo in due parole a esposizioni complesse che, a mio parere, si sarebbero potute esprimere in una sola frase.
Ho sempre trovato i miei simili eccessivamente prolissi, lo confesso; ho sempre pensato che la maggior parte delle persone ama indulgere in lunghe spiegazioni inutili, e ritornarci e svolgerle e riavvolgerle e trattarle come il famoso tema in classe in cui la traccia ci forniva un assunto e noi dovevamo ripeterlo, con altre parole, per tre facciate di foglio protocollo; esercizio noioso e che non mi sembra abbia dato buoni frutti. Infatti i miei connazionali brillano per retorica ma difettano di rigore consequenziale. In linea generale, naturalmente.
Ebbene, se fino ad oggi, pazientemente (cioè con apparente pazienza ma interno fremito di impazienza) attendevo che il mio interlocutore portasse avanti il suo discorso con tutte le sue proposizioni implicite ben incapsulate una dentro l'altra, come le matrioske russe, e le sue appendici ed i suoi commi e sottocommi, adesso, zac, gli taglio la parola in bocca, enuncio io in una sola frase il pensiero che sta appena abbozzando e detto fatto gli do la mia risposta, replica o considerazione del caso.
Il poveretto resta lì con il suo discorso in sospeso come una pipì cui non si sia potuto dar sfogo e di certo è per metà disorientato e per metà offeso.
Beh, vi dirò, me ne infischio.
Non ho più tempo per questo continuo menar il cane per l'aia, i secondi del mio tempo sono preziosi. Tre secondi qui, otto secondi lì, altri quattro persi con questo e nove persi con quello, alla fine della giornata mi porterebbero via uno o persino due minuti o forse addirittura cinque!
E che sarà mai! direbbe un giovane. Beh, vi posso garantire che cinque minuti hanno, alla mia età, un grandissimo valore. Cinque minuti tolti a me stessa, allo sfogliare un libro, al pasticciare con delle lane, ad affacciarmi alla finestra, sono un furto che non intendo sopportare.
E poi, come il citatissimo Wittgenstein ha definitivamente scritto: tutto quello che si può dire si può dire chiaramente.
Dunque io sforbicio le ramificazioni del discorso altrui, quegli avviluppamenti di oscurità in cui spesso amano gingillarsi. E lo faccio senza rimorsi.
Ognuno si tenga per avvertito.
(La manifesta ripetitività di concetti di questo mio discorso è intenzionale e usata come esempio del mio assunto).