Capitolo quattro
A quel tempo Qualcuno desiderava essere dissezionata
Aveva una diagnosi. Scritta e sottoscritta. Aveva il Professore e tre psico-sedute a
settimana. Aveva una terapia farmacologica da seguire. Tutto certo, tutto
chiaro, indubitabile. Eppure Q. non veniva considerata malata.
Il Professore, lo straordinario
psichiatra che l'aveva in cura (e che forse, benché ormai scomparso, a
tutt’oggi l’ha in cura) apparteneva, come ebbe a scrivere, “al novero di coloro
che non considerano le esperienze umane come riducibili a parametri
misurabili." E, a proposito del male che a quel tempo affliggeva Q.,
dichiarava che "l'esperienza soggettiva, intimamente vissuta, della
depressione, è quella che meno sembra prestarsi a venir analizzata dall'esterno."
Su queste due affermazioni Q. era ed è disposta a giurare. (E con quanta
gratitudine per il Professore che le
testimoniava in ogni suo agire!)
Ciò nonostante a quel tempo,
Q. anelava proprio a parametri misurabili e a vedere analizzata, dall'esterno e
dall'interno, dall’alto e dal basso e diagonalmente, l’esperienza della
depressione, alla ricerca della sua veridicità e della sua origine.
Veridicità & origine erano per lei come
una volpe cui Q. conduceva la sua
personale caccia, una volpe scaltra che la guardava un attimo di sopra la
spalla, e poi partiva con la sua corsa radente verso la cespugliosa brughiera e
vi spariva lasciando di sé solo la scia della coda. Ma Q. non poteva dichiarare
chiusa la caccia, e sempre più ansante e sempre più beffata, inseguiva la volpe, perché quella volpe nascondeva nel suo piccolo cuore
pulsante la risposta a domande per lei vitali.
Il Professore aveva un bel
ripetere a Q. che la sua depressione era solo uno dei possibili “slittamenti”
della mente, le cui origini, benché imperfettamente note, escludevano ogni sua
colpa. Q. sapeva che “il nostro cervello è imperfetto” e la vita ben più che
imperfetta e che se queste due imperfezioni s’incontrano in un unico essere
umano, allora costui può trovarsi a
vivere uno “stato alterato della mente”. E questo stato non è immaginario e non
è simulabile. –M’intende?-Non-è-si-mu-la-bi-le. Q. sapeva di non essere una
simulatrice, ma chi lo credeva davvero insieme a lei?
Quando nello spazio della sua vita cominciarono a suonare le prime note del galop, come da subito Q. chiamò la sua
malattia —quel ballo travolgente ed impetuoso con cui si chiudevano le grandi
feste ottocentesche, e che trascinava le dame e i gentiluomini in un turbinio
di volteggi, stordendoli, risucchiandoli e riducendoli a un niente strapazzato;
tanto che sembrava che a ballare sotto i lampadari scintillanti fossero solo
gli abiti vuoti —le grandi corolle
multicolori delle signore e gli impeccabili completi scuri dei
gentiluomini — quando dunque l'orchestra invisibile che suona la musica per noi
e per le nostre vite, suonò quelle prime note, e lei dovette ballare il ballo
della depressione, subito Q. comprese di essere stata beffata perché colpita
dal più invisibile e incomunicabile dei mali.
Questo, subito sperimentò Q.: che la sua malattia a quel tempo non era né misurabile né accertabile con nessuna delle
tecniche impiegate dalla diagnostica medica per le altre malattie. E questo ne
faceva appunto “solo” un’esperienza umana e di lei faceva una clandestina nel
vasto, doloroso mondo della malattia, un po’ abusiva, un po’ sedicente, insomma
spesso e volentieri una malata immaginaria.
Quindi Q. si guardò intorno in cerca del Certificatore che la sottraesse al suo destino di Millantatrice.
Cercò ma non trovò.
Il suo male si sottraeva ad ogni inconfutabile accertamento.
Infatti: non era controllabile attraverso
analisi del sangue o dell' urina o della saliva né di alcun altro umore o
secreto del suo corpo; non poteva essere evidenziato da nessun “segnalatore”,
da un “marker” specifico; non c’era “grafia”, radio o eco che fosse, capace di
darne una immagine reale, né esisteva tecnica di “imaging”, TAC, RNM,
che ne potesse disegnare una virtuale; nessuna “scopia” lo
poteva raggiungere; le più sofisticate e audaci introspezioni effettuate con le
sonde più moderne e sensibili non potevano andarlo a cercare in nessun recesso
del suo corpo; non c’era esame bioptico che, sottrattale una piccola parte di sé,
una cellula o un grumo di cellule- tessuto muscolare, osseo, epatico o
cerebrale- potesse sottoporlo a esame istologico ed estrarne una prova. Almeno
non con Q. in vita.
(A quel tempo Q. non poteva prevedere che molto tempo dopo, la caccia
alla volpe sarebbe stata riaperta non
da lei ma per lei da intrepidi cavalieri
che accesi di curiosità scientifica, sarebbero balzati in sella, pantaloni chiari,
stivali neri e plaforn-così, fin nei minimi particolari, apparivano nella
fantasia di Q.- per impegnarsi in
studi accaniti e laboriosi, dedicandosi a ricerche differenziate ma tutte
convergenti a consegnarle, un giorno, la coda fulva della volpe: genetisti, biologi, statistici, bio-informatici e
specialisti di psichiatria molecolare, che ancora oggi lei immagina, chi in
giacca di velluto blu notte, chi in giacca verde o nera, sotto il candido
camice del ricercatore.
Né Q. sapeva che un giorno la fMRI (Functional
Magnetic Resonance Imaging) sarebbe stata in grado di visualizzare l’attività
di quel cervello che allora Q. percepiva con orrore dentro il suo cranio.
Addirittura l’impegno
interdisciplinare sarebbe riuscito a riconoscere in una serie di varianti del
DNA alcuni fattori
eziopatogenetici di diverse patologie: Alzheimer, schizofrenia, autismo mentre
si avviava a identificare quelle coinvolte nella depressione.
Ancora oggi la ricerca non è pronta a
consegnarle intera la coda fulva della volpe,
ma gli eleganti cavalieri con i
loro frustini hanno falciato i cespugli della brughiera e con impetuoso galoppo
avanzano e conquistano terreno.)
Ma a quel tempo Q. per tutti,
o quasi, era un Argante, un malato immaginario. Eppure la malattia c'era, Q. la
conteneva e quella teneva Q. Ma che cosa fosse quella malattia e che cosa Q.
fosse diventata per suo effetto non era possibile dirlo e come una detenuta in
attesa di giudizio, lei viveva nella mortificazione il suo “dolore non
descrivibile, il suo vuoto oscuro e maligno, la sua dimensione inquietante e
però forse universale della nostra mente”.
Peccato che “non descrivibile” più
“universale” fosse uguale, per molti, a zero fratto zero.
E dunque, benché malata, Q. doveva sforzarsi di vivere da sana. E,
poiché tutto quello che le accadeva accadeva dentro di sé, gli altri non lo
vedevano, gli altri non lo credevano; ognuno anzi si sentiva in diritto o in
dovere di porgere a Q. consigli, raccomandazioni, incitamenti, sollecitazioni.
O, pur tacendo, di giudicarla. Del resto si sa che ancora oggi la malattia del
"vuoto oscuro e maligno", secondo molti sani inconsapevoli si cura
con uno scatto della volontà, un soprassalto di impegno, uno sforzo di
applicazione.
Presto
Q., che aveva sempre creduto nella parola, ne venne tradita: la sua condizione,
oltreché essere accolta con sospetto e scetticismo, metteva prepotentemente in
luce l'impotenza del suo linguaggio ogni volta che Q. tentava di descrivere il
suo male. Sicché lei, così orgogliosa del suo vocabolario, dovette scoprire che
semplicemente non esistevano parole per parlare del suo galop. Che si trattava di un male gelatinoso che sfuggiva da tutte
le parti, che si spostava velocissimo, prendendosi gioco di lei, quando la sua
eloquenza cercava di inchiodarlo ad una definizione. Ecco perché Q. ebbe a fare
ricorso ad un suo personalissimo lessico, libero e fantasioso, come sapeva
essere fantasiosa la sua malattia.
La lingua, nata per metterla in comunicazione con il mondo, la lingua
cui da sempre era devota, la sua lingua, tutt' a un tratto la tradì e divenne
fattore di restringimento dentro di sé, di solitudine, di singolarità estrema.
Presto dunque abbandonò ogni speranza di riuscire a trasmettere almeno l'eco
della sua sofferenza e si chiuse nel silenzio.
Comprese che quella malattia
era un locale insonorizzato, dove nessuno poteva entrare e dal quale non
giungeva all'esterno il più piccolo suono ed era insieme un viaggio nel quale
si viaggiava da soli portando da sé i propri bagagli.
Fu
la consapevolezza di questa incomunicabilità, imputabile insieme alla sordità
altrui e alla sua improvvisa afasia, che la spinse a sognare l'ottenimento di
una patente, ispirata da Rosario Chiarchiaro che nella famosa novella di
Pirandello agognava la patente da jettatore.
Anche lei voleva la sua di
patente: un documento inoppugnabile, decorato di timbri, pieno di numeri,
simboli e grafici e di ogni possibile unità di misura, da portare sempre con sé
ed esibire trionfalmente quando le fosse stata rivolta la fatidica esortazione:
reagisci.
Una
delle sue fantasie ricorrenti metteva in scena un Grande Anatomopatologo che facesse di lei la sua cavia preferita e
presala con sé nel suo laboratorio, la sezionasse accuratamente, separasse
organo da organo, tessuto da tessuto e fibra da fibra e, frugando nel suo
corpo, arrivasse al centro del suo dolore e platealmente, inoppugnabilmente
mostrasse agli scettici e ai sospettosi il pugno di cellule responsabili del
suo male. Anche post mortem, va da sé. Solo così, pensava Q., le sarebbe stato
restituito il suo onore e non sarebbe più stata sospettata di "viltà
morale".
Ma a quel tempo Q. viveva in
un paese in cui, dagli studi della televisione di stato, chiunque poteva
invitarla ad affidare la sua vita e la sua salute mentale, alla riflessione
filosofica, alla meditazione, allo yoga, alle pratiche New Age, e poteva venirle consigliata una
alimentazione vegetariana o una basata su “cibi allegri” o su aringhe, alici,
salmone-ma non affumicato- e semi di lino; o una cura a base di aromi,
sollecitandola a diffondere nell’ambiente o a portare sempre con sé un
fazzoletto impregnato di oli essenziali: sandalo, melissa, ylang-ylang e
gelsomino o il meno noto ma più efficace olio di olibano, un raro arbusto
proveniente dalla Somalia.
E attrici e
conduttrici televisive potevano suggerirle fiori specifici per la depressione,
in particolar modo gentian, wilde rose e, per un effetto immediato, rescue
remedy, una miscela di cinque fiori per situazioni di emergenza, in cui
occorresse fronteggiare esperienze particolarmente stressanti. -Chissà se le
sue esperienze rientravano tra quelle particolarmente stressanti, si chiedeva
blandamente Q.- E potevano additarle, come rimedi efficaci, lo sport,
preferibilmente la corsa o almeno lunghe passeggiate. Insomma, la parola d’ordine
era riassumibile, come si sentì dire da una famosa cantante, così:
”rendere
più colorata e lucente” la sua vita. Solo l’ascolto della musica delle sfere
celesti le venne risparmiata.
Nel frattempo, dalle pagine di un quotidiano, un autorevole professore di filosofia
poteva definirla "drogata che cerca nelle farmacie la risposta al dolore
della vita, che dovrebbe interpretare invece di voler dimenticare". Per
carità, non c'era colpa di cui a quel tempo Q. non fosse pronta a dichiararsi
portatrice.
Quando di sé si pensa che si è l'ultimo degli esseri arbitrariamente
consumanti ossigeno su questa terra e che il proprio valore, relativo ed
assoluto, si aggira talmente in basso che esce da qualunque scala, non c'è
accusa che, rivoltaci, non siamo pronti a far nostra. Vile? Perché no? Ma anche
accidiosa e codarda e mentitrice e indegna e naturalmente abietta. Venghino,
signori, venghino: qui vi mostreremo il più perfetto e completo esempio di
neghittosità, il più luminoso campione di ignavia. E Q., che sempre e comunque
sospettava di sé, non si indignava, né si sentiva offesa. Può infatti qualcuno
che si sente nessuno indignarsi se viene tacciata di viltà?
Ma poiché per inghiottire le sue "droghe" da farmacia Q.
doveva ogni volta fare appello a tutta la sua residua forza di volontà e quasi
costringersi ad aprire la bocca,
trovava stranamente fuorviante quella descrizione di se stessa come anelante
all'impasticcamento. E tendeva a pensare —sperare— che il grave giudizio morale
che il circostante mondo le rivolgeva di essere incapace di reagire, di
superare, di riprendersi, di battersi, eccetera eccetera eccetera, potesse
essere alleggerito e forse addirittura ritirato di fronte al referto in duplice
copia di un esame autoptico, corredato di foto di vetrini in vario colore
—magenta scuro per la cistifellea, verde nilo per i reni e rosso fegato per il
fegato. Ma soprattutto di un bel blu oltremare per il cervello.
Questo era il desiderio, no anzi, il bisogno
che la tormentava ed era per questo che
A quel tempo,
Qualcuno desiderava essere dissezionata.
(continua/10)
Grazie, Marina.
RispondiEliminaCristiana
Grazie a tre, Cristiana! Davvero.
EliminaAl galop avrei preferito la più ruspante tarante, ma è questione di gusti. il galup è qualcosa di codificato, la tarante sfugge. L'uso di farmaci è accennato, forse è capitolo seguente. La sofferenza psichica nel tempo basagliano del "liberi tutti" è spesso "trattata" con pasticche che "tolgono" il dolore. E' l'esperienza di molti. E poi naturalmente , per chi è povero di "risorse interiori" non umane che la marginalità che è diventato il grande "manicomio" con sbarre invisibili.
RispondiEliminaBuon lavoro , Marina
Ciao Guglielmo, non so perché mi venne in mente galop. Effettivamente la taranta è più sfuggente.
RispondiEliminaCirca i farmaci che, per inciso, mi hanno salvata la vita, ne ho parlato nella puntata 9. Ma alla fine del mio lavoro torneranno fatalmente.
grazie di leggermi, marina
Ciao Marina, questo capitolo è davvero bello. E bellissima la metafora della volpe con la sua coda fulva!
RispondiEliminaUn abbraccio da biba