Eppure per molto tempo -anni recenti- ho pensato che finalmente avevo imparato tutto, sapevo tutto, avevo compreso tutto.
Sarei presto uscita di scena sapendo.
La confusione estrema, lo choc della incomprensione più totale, non era durata più di un momento.
Questo lo sapevo solo io, ma di quello che sapevano o credevano di sapere gli altri non mi importava niente, né di quello che pensavano, né se mi pensavano, né se parlavano di me, se mi osservavano, se avevano o non avevano opinioni su di me. Né quali.
In effetti potrei dire che in blocco del mondo e dei suoi abitanti non mi curavo più, non mi interessavano.
Navigavo sulla mia nuova consapevolezza che non aveva nessun bisogno di conferme.
Sapevo da dove e perché eravamo venuti e sapevo dove saremmo andati.
Dal nulla, verso il nulla, senza un perché. Ecco là, tutte le domande classiche avevano avuto risposta. E questo dava un senso di tranquillità.
Nessuno si azzardi a suggerirmi la parola accettazione!
Tra le cose che sapevo c'era innanzitutto il fatto -così banale in fondo!- che non si trattava di accettare. Accettare implica la libertà di non accettare. Ma io sapevo, sapevo, che questa libertà non l'avevamo, non l'avevo, non l'aveva né mai l'avrebbe avuta nessuno.
Se avevo avuto dei dubbi, ecco che non ne avevo più, se mi ero interrogata e avevo interrogato, ecco che non ne sentivo più il bisogno.
E il senso? Il senso di cui ero sempre andata a caccia? Il senso che mi preoccupavo di cercare, annodando fili, cercando riscontri, somiglianze, analogie, ripetizioni e i piccoli scopi raggiunti e gli altri scostatisi dalla meta? Del senso delle vite e della mia vita non mi curavo più. La consideravo una ricerca più che insensata trascurabile. Diciamolo pure, tutte le storie che da sempre avevano fatto i filosofi, quel loro arrovellarsi sul senso ultimo della vita, erano state superflue, eccedenti rispetto al vivere, inessenziali, ecco! Quante energie sprecate! Quanti talenti, quanta genialità usata male!
Presunzione, direte voi. Ovviamente! Se qualcuno crede di sapere ormai tutto non può che sentirsi al di sopra del volgo, e presuntuosamente guardarlo dall'alto. Non guardarlo, anzi.
E dunque, a che pro cercare maestri se io stessa avrei potuto -posto che mi fosse interessato- essere maestra per gli altri?
Ma ora.
Ora no.
Ora ho un altro bisogno. O meglio sono tornata a un altro bisogno.
Il bisogno di chiedere, interrogare, cercare, porre domande.
Ridatemi i filosofi, i poeti, i grandi scrittori; ridatemi la frase colta al volo in una conversazione tra amiche o sulla bocca di un giornalaio, nella esclamazione di una vecchia che fatica a salire sul marciapiede, nel giardiniere il cui ginocchio cede nello scendere le scale, nella ragazza che sul podio delle Olimpiadi esulta. La frase, la piccola frase, quella in cui è raccolto tutto, ma proprio tutto perché
"[importante è] il dettaglio, l'immensità del dettaglio, la forza del dettaglio, il peso del dettaglio, la ricca sconfinatezza del dettaglio." Questo me lo aveva insegnato tanto tempo fa Philip Roth.
Il piccolo gesto, l'alzata di spalle, la pacca sulle spalle e la piccola frase.
Drizzo di nuovo le orecchie al mondo. Resto in disparte -se appartenessi a una nobile casata in disparte potrebb'essere la mia divisa- ma osservo e leggo e ascolto e prendo tutto quello che mi capita di osservare e ci penso su.
Sono tornata allo stato di ignoranza, di oscurità in cui tutti ci muoviamo. Quello stato che Einstein ha chiamato "il mistero della vita senziente" e se lo diceva Einstein possiamo dirlo tutti.
E con Christa Wolf torno a dire:
Prima di addormentarmi penso che di giornate come questa è fatta la vita. Punti che alla fine, se abbiamo avuto fortuna, sono congiunti da una linea.Ma penso anche che possono disgregarsi in un accumulo insensato di tempo passato, e che solo un costante, fermo sforzo dà senso alle unità di tempo di cui viviamo...
Busto di Socrate-Epoca romana- Museo del Louvre