Il dolente ha così tanti ricordi da cui
ripararsi.
Attraversa le ore della
giornata con cautela e circospezione, tutta concentrata sui gesti minuti da
compiere, sulle piccole incombenze, trama e ordito ormai della sua vita: comprare
il latte, cambiare l’acqua nella ciotola della gatta, passare in farmacia,
lavare due stoviglie.
Si lascia assorbire da quelle
occupazioni per difendersi da un vento tormentoso che spinge verso di lei
brandelli di ricordo come nuvole sfrangiate. Ogni tanto alza una mano davanti a sé nel gesto di chi tenta di ripararsi
gli occhi da una polvere alzatasi d’improvviso da terra per un colpo d’aria o
da un moscerino fastidioso. È un gesto fugace che le sfugge, incontrollato, quasi
impercettibile per chi le sta vicino, così piccolo e rapido è.
Con quel fragile schermo tenta
di ripararsi dal vento della memoria, continuamente risorgente, di tenerlo
lontano da sé, di conservare vuoto e nero lo schermo della sua mente, nero come
il monitor di un computer, bianco come lo schermo di un cinema.
Talvolta un ricordo spezza ogni
difesa e la raggiunge fino al centro del petto. Sono flash che le provocano una fitta e insieme una
stretta che quasi le arresta il
respiro e non può che arrendersi a quella forza prepotente e implorante insieme.
E mentre viene avvolta nella nube ulcerante del ricordo, abbassa lo sguardo
sull’orologio per controllare la durata di quella folata che la strazia,
attendendo che quel tempo del ricordo passi, quel tempo inevitabile che si è
rivelato più forte di lei, di ogni sua circospezione, di ogni suo trucco. Quel
controllare il tempo è come il contare di una partoriente, tra una contrazione
e l’altra, contiene rassegnazione, la rassegnazione di chi non può difendersi
da un assalto, e resta lì ad aspettare che la violenza le passi sopra. Si
concentra sulla lancetta dell’orologio contando mentalmente i secondi. In quei
secondi, in quei minuti lo squarcio sul passato si prende tutto il suo corpo,
la stringe soffocandolo in ogni sua parte: il dolente si ferma in mezzo alla strada, si
ferma qualunque cosa stia facendo, trattiene il fiato e col fiato il dolore, mentre le lacrime
non si lasciano trattenere.
Poi torna a respirare e dal
polso lo sguardo le scivola sulla mano, sulla pelle sottile e disegnata di
rughe, sulle nocche visibili, la sua mano di vecchia. Ho vissuto troppa vita,
pensa e troppa vita fa troppi ricordi.
Gli ultimi 3 post sono INEZIE ESSENZIALI, ne hanno il profumo inconfodibile, un tramite tra il passato e questo tempo che non si decide a darci tregua. Un profumo che ho amato dal primo istante. Troppa vita... o non abbastanza?
RispondiEliminahai usato parole,espressioni ed immagini così nette e precise...alcune mi abitano ma che non avrei mai saputo renderle. Non così,non con questa puntigliosa attenzione. Se ne intuisce il tempo trascorso perché questi dettagli arrivassero ad esserti così chiari.
RispondiEliminaSempre più amo la tua scrittura. Un caro saluto
Angela
E' una sensazione che comincio a conoscere bene anch'io. La ruggine si accumula e non c'è olio che possa favorire la rimessa in moto della macchina. Anche se avessimo trovato l'olio, non avremmo più benzina e forse non sapremmo neppure più dove esattamente andare.
RispondiEliminaMa se pensiamo che è proprio il ricordo l'olio e la benzina di cui abbiamo bisogno e che la meta è la chiave di cui parla Borges, una chiave per aprire una porta misteriosa. Quella è la nostra méta...
la chiave…la porta misteriosa…tutto questo sa di fine È quella la nostra meta
RispondiEliminagrazie di leggermi Gugliemo
grazie Angela e grazie Enzo. con affetto, marina
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