A quel tempo toccare i libri era uno degli espedienti cui Q. ricorreva anche
più volte al giorno, per garantirsi circa l'effettiva esistenza di una realtà
non nemica al di fuori di se stessa e del suo tormento, come un naufrago che
trova la forza di continuare a nuotare perché sulla superficie liscia del mare intravede lontano profilarsi una terra, promessa di un'altra realtà oltre
quella liquida, sfuggente e senza contorni in cui il suo corpo si agita
debolmente. A quel tempo il legame
che sempre aveva unito Q. ai libri si trasformò definitivamente e prese un senso del tutto speciale che non avrebbe più perso. I libri non solo divennero i soli
messaggeri del mondo, gli inviati speciali della realtà ma anche la stesura autentica della sua storia. Lei era quei libri, quei libri avevano penetrato il suo spirito sedimentandole dentro, erano stati i catalizzatori delle sue trasformazioni mentali, delle sue facoltà intellettive, l'enzima del suo divenire nel tempo: l'avevano fatta ed erano lei.
Solo
dopo questa lunga seduta braille in
caccia del suo spirito, in cui al tatto era affidato il compito di trasmettere al suo cervello i suoi stessi pensieri, quelli che l'avevano nutrita per anni, Q. si alzava in piedi.
Nell'alzarsi al fenomeno del masso se
ne aggiungeva un altro, legato al battito cardiaco, che aveva nome frenata con accelerazione. Q. esperiva cioè il
contemporaneo instaurarsi nel suo corpo di un doppio e contraddittorio ritmo:
un'accelerazione quasi canina del suo respiro e una decelerazione quasi agonica
del suo battito cardiaco. Pur in mancanza di specifiche nozioni di fisiologia
umana Q. sospettava che i due fenomeni fossero fisicamente incompatibili
ma poiché essi invece si verificavano simultaneamente in lei, era costretta a
questa presa d'atto: le leggi fisiche erano o erano divenute inaffidabili. Anziché eterne e immutabili erano invece capricciose e si permettevano varianti
e inversioni. Almeno in lei. In particolare, di ognuno dei lentissimi
battiti del suo cuore, così distanti l'uno dall'altro, Q. non sapeva dire se gliene sarebbe seguito un
secondo e poi un terzo ed anzi ogni
nuovo battito si faceva sentire solo
quando Q. si era ormai convinta che quello precedente fosse stato anche l'ultimo. L'esperienza era terrorizzante perché, se Q. desiderava
costantemente il non-essere, viveva però nel terrore del morire, di dover cioè
affrontare in stato di coscienza quel momento di catastrofe
aristotelica. Poiché Q. era entrata in quel tempo portata dal dolore di un lutto, il dolore era il suo
familiare compagno. Ma lei non impegnava la più piccola quantità di energia a
sperare che quel dolore passasse, giacché le sembrava che non solo lei stessa,
ma l'intero universo non fosse fatto d'altro che di quel dolore; e le pareva
che la terra, il bel globo colorato, fosse tutta circondata da un'aura, una
densità gassosa fatta di dolore, tutto il dolore emanato dagli esseri viventi, le donne e gli uomini di ogni
continente e di ogni latitudine; e al suo sguardo tutti gli altri animali e i mari e i monti e
i boschi e i fiumi ed ogni zolla di terra, emanavano quello stesso dolore e
quel dolore, sotto forma di vapori pallidi, si alzava dalla terra e si
allargava nell'universo e, Q. non ne dubitava, lo avrebbe col tempo
colmato tutto; trovava perciò semplicemente inutile sperare nella cessazione
del suo personale dolore e molto più logico ed efficace sottrarsi a
quell'universo doloroso. Il non-essere definitivo e liberatorio cui puntava non
era però collocato nel tempo, ma quasi a-temporale, un passaggio di stato
istantaneo e senza coscienza, e le sue preferenze andavano decisamente ad un non-risveglio. Questo significava che
ogni sera, quando mandava giù l'ultima pillola della giornata, salutava
speranzosa se stessa e il mondo, e insieme alla pasticca inghiottiva il
presente, il passato ed ogni futuro.
Questa
aspirazione al non-risveglio non era però il segno di un senechiano coraggio.
Al contrario incombeva su di lei costantemente il terrore della catastrofe aristotelica, come dentro di
sé Q. chiamava il morire grazie a una lontana e confusa reminiscenza liceale; la catastrofe aristotelica aveva anche
una sua voce minacciosa, un grido di avvicinamento che rimbombava sempre
all'interno dei due metri quadri in cui si inscriveva il suo corpo; sembrava
l'ultima sillaba di un grido di aiuto, una o prolungata all'infinito ed era il rumore di fondo delle sue giornate.
Q. lo portava a spasso con sé e, ovunque andasse, tutta l'aria
immediatamente intorno a lei vibrava del riverbero sonoro di quella personale
sirena d'allarme. La città in cui Q. viveva non conosceva la nebbia, ma
l’aria in cui lei si muoveva era come velata e caliginosa, e tutti i suoni che
la percorrevano erano smorzati, soffici, come imbozzoliti dentro quella densità
grigiastra. L'unico suono chiaro e abbacinante era quel grido di avvertimento,
tutto privato, che annunciava l'arrivo della catastrofe aristotelica. Ma la catastrofe
aristotelica non si verificava mai, limitandosi a farsi annunciare.
Sempre
a proposito di rumori si verificava un altro fenomeno curioso. Una delle leggi
fisiche su cui un tempo si poteva contare diceva che i suoni
approssimativamente di stessa intensità risultano al nostro orecchio più o meno
forti a seconda della distanza della fonte sonora dall'orecchio stesso. Fonte
lontana suono più flebile, fonte vicina suono più forte.
Nella realtà di Q. a quel tempo accadeva che il buongiorno
squillante lanciatole dal condomino incrociato sulle scale suonasse al suo
orecchio flebile e lontano, quasi inudibile, tanto che spesso la sua risposta
arrivava quando già il condomino in questione era scomparso due piani più
sotto; mentre il lontano garrito
di una rondine altissima nel cielo poteva striderle alle orecchie e farla
sussultare di allarme come se la rondine fosse prigioniera nella sua stanza e
sbattesse da un muro all'altro gridando impazzita.
Questo era forse effetto
del fatto che alla sua coscienza pervenivano vividi solo i messaggi
potenzialmente disastrosi, mentre tutto il resto della realtà, i suoi aspetti
piatti opachi, quotidiani e pacifici, erano come privi di corpo e di evidenza, lontani e
impercepiti.
Quanto alla sua di voce,
Q. aveva perso del tutto la possibilità di modularne la potenza.
Qualsiasi fosse l'intenzione comunicativa con cui apriva la gola e lasciava
uscire la voce questa risultava spenta, opaca, o almeno così le sembrava tanto che nel dubbio di riuscire ad esprimersi di maniera udibile, aveva
ridotto al minimo le emissioni di suono.
Tranne in casi di
necessità e nelle comunicazioni di servizio, Q. rivolgeva la parola solo
ai familiari sentendosi quasi sorpresa quando ne riceveva risposte coerenti.
Se Q. a mala pena
udiva la sua voce era anche perché era occupata in calcoli complicatissimi. Di
fatto, per non restare priva di fiato, nel pronunciare una frase doveva ogni volta cogliere il momento giusto tra l'una e l'altra delle sue
velocissime inspirazioni, avendo però contemporaneamente cura di emettere le parole
immediatamente dopo, anzi a ridosso di un battito del cuore, onde evitare che la frase fosse
troncata a metà dal cedere del medesimo. Si trattava insomma di aspettare la
configurazione astrale in cui una inspirazione coincidesse con un battito
cardiaco e lì, proprio lì, inserire la sua dichiarazione. L'operazione di
barcamenarsi tra l' accelerazione canina
del respiro e la decelerazione agonica del battito
cardiaco, non era semplice ed anche per questo Q. aveva ridotto
all'essenziale ogni sua comunicazione verbale. A dire il vero c'era anche
un'altra ragione: la disturbava cioè il pensiero che, morendo appunto subito dopo aver pronunciato una di quelle inevitabili frasi di servizio cui non si poteva
sottrarre, la memoria di sé restasse legata a queste sue ultime parole: tre
rosette, grazie. O addirittura: una confezione di supposte di glicerina, per
favore.
Va bene morire, ma cadere
esanime davanti al banco di un farmacista subito dopo aver chiesto un
facilitatore intestinale era troppo imbarazzante. Del resto la costipazione
intestinale compariva tra gli effetti indesiderati di pressoché tutti i farmaci
che aveva via via provati. Sicché la probabilità statistica era contro di lei e il suo ultimo lascito all'umanità. (6/continua)
Mi piace soprattutto questa vena ironica che ogni tanto affiora... da coltivare con pazienza e cura...
RispondiEliminacerco di coltivarla. potrei farlo meglio, ma che tu la colga mi incoraggia
Eliminagrazie di leggermi, marina
Ti seguo, eccome se ti seguo, ma, proprio per questo,non sempre mi riesce di scrivere.
RispondiEliminaOggi mi hai strappato un sorriso che poi si è trasformato in una risata di cuore veramente liberatoria, per me, in una giornata pesantissima da iniziare e da gestire in cui il respiro manca appena gli occhi si aprono.
Come ai vecchi tempi.
Conosco tutto, l'ho vissuto da ragazza, poi da adulta con meno virulenza e poi ancora oggi in questa nuova fase della mia vita
Conosco tutto eppure sono lì davanti a tutto quello che passa sul mio corpo che ancora fatico a riportarmi a terra, alla ' normalità' , quasi strattonandomi con forza, all'inizio, e poi cercando di riprendermi per mano con premura e amore,atteggiamento che nei miei confronti è molto complesso e difficile.
Sto imparando a poco a poco...il cammino continua.
C'è da dire che almeno non mi annoio!
A presto
cara Adele, anche io sorrido nel ricordare e la tua risata mi ha fatto felice. Questo vivere e poi tornare a vivere queste esperienze lo conosco. Oggi ho meno forza di una volta perché la mia età mi ha fiaccata, ma sto qui e il solo fatto di essere tornata a scrivere è un passo enorme per me. Anche per questo chiunque mi legga mi fa un regalo
RispondiEliminati ringrazio, marina
Devo iniziare dal primo post...vado...
RispondiEliminaMarina sei nata per scrivere e scrivi inevitabilmente di te e del riflesso che la tua esistenza proietta sul palcoscenico. Io leggo una grande e complessa componente autobiografica in questo libro, Tanto più forte e radicata quanto più tenuta quasi in disparte o proiettata in un'esperienza generazionale. Ma tu sei viva dentro ogni frase, ogni gesto narrato e lasciato intravedere, sei persona e sei stanca, piena di irriducibili controversie, eterni dilemmi, tenerissime e segrete coincidenze. Questo il mio giudizio fino a questo punto: ti ritengo un patrimonio per chi legge. Grazie
RispondiEliminaCiao Enzo, ti ringrazio tanto per le tue parole. Naturalmente io sto là dentro. Tu però sei troppo generoso con me, ti fa velo la vecchia amicizia :-)
RispondiEliminamarina
"...mentre Q., perplessa, osservava il mondo seduta sulla sua malattia, il terzo occhio, l'occhio dell'Altra, osservava lei che, seduta perplessa sulla sua malattia,..." - una perplessità forse può bastare, visto il carico di lavoro psichico che già deve sopportare la povera Q.!
RispondiEliminaL'Altra mi ha ricordato la proposta che a volte faceva Jung ai suoi pazienti, di parlarsi nei momenti difficili. Solo che per Q. il momento difficile rischia di sovrapporsi alla vita tutta, come se avesse bisogno di avere sempre qualcuno che la accompagni nell'andare, e le parli - un bisogno normale nei bambini di quarantotto anni.
Caro Romeo, era un vero effetto abile, fastidioso, diciamo così :-)
RispondiEliminaIl parlarsi fu adottato da Q. molti anni dopo, ma era molto diverso: era una scelta e non un'imposizione della sua mente.Diventò un grande aiuto.
grazie per le tue osservazioni, mi interessano molto.