Capitolo due
A quel tempo Qualcuno sperimentava la sospensione
delle leggi fisiche.
Quando apriva gli occhi al
mattino, risalendo da un sonno bianco e burroso targato Tavor Expidet mg. 2,
l'unico sonno che allora le fosse concesso, dopo i lunghi e confusi minuti necessari
alla sua mente per riaccorgersi di sé, Q. trovava ad accoglierla il suo
corpo, disposto, alternativamente, in una delle seguenti posizioni: o supino, composto
come una salma, le gambe distese e
accostate, le mani posate sullo sterno; o rannicchiato come un feto, i pugni chiusi stretti tra il
petto e le ginocchia, come se avesse occupato la notte a morire o a
prepararsi a nascere. Ma poiché invece tornava a svegliarsi doveva constatare
ogni volta di non essere morta. E poiché si svegliava nella stessa disposizione
di spirito con cui si era addormentata la sera innanzi, era costretta a
riconoscere di non essere neanche rinata.
Più raramente il suo corpo
si faceva trovare nella posizione della Santa Cecilia del Maderno: abbandonato
sul fianco destro, le braccia
allungate in avanti, i polsi accostati (benché non legati), le mani dischiuse.
La testa invece era volta all' indietro con una torsione innaturale.
Poggiava sulla fronte e affondava nel cuscino. Era, quella, la posizione del martire. Fatta di rassegnazione e
abbandono ma anche di desiderio di non vedere i colpi.
Qualunque
posizione le presentasse il suo corpo, salma,
feto o martire, Q. la manteneva a lungo perché dal cervello, dopo
quello flebile di aprire gli occhi, non giungeva altro comando; e anche quando
il cervello iniziava ad inviare i primi deboli segnali, il capo e gli arti sembravano
incapaci di recepirli, sordi più che riluttanti. In qualche punto del suo
essere c'era una dispersione di volontà che smorzava ogni impulso, un buco nero
in cui si perdeva qualunque segnale. Succede talvolta tra una presa di corrente
ed una lampada: esplorata con l'apposito cacciavite cercafase, la presa risulta
fornita di elettricità ma la lampada benché collegata non si accende. A Q. accadeva lo stesso: non si accendeva. In quei lunghi minuti di blocco
si verificava il fenomeno della gemmazione
semantica: isolati vocaboli si formavano nella sua mente, staccati l'uno
dall'altro da pause regolari di qualche secondo ognuna. Erano scritti in un bel
corsivo netto, nel classico Times corpo 22, in tutte minuscole. Q. li vedeva
avanzare come se si staccasero dalla pagina di un dizionario e le venissero
incontro. L'effetto era quello dei bersagli dei poligoni di tiro che, una volta
colpiti, scivolano lungo un filo verso il tiratore perché verifichi l'esattezza
della sua mira. Solo che Q. non era il tiratore ma il bersaglio. Le parole
che le si presentavano alla mente erano quotidiane, banali e non le sembravano
particolarmente significative o emblematiche né nella loro sequenza sembrava
nascondersi qualche messaggio speciale.
Q. le osservava avanzare
senza grande interesse proprio come dal finestrino di un aereo guardiamo
passare filacci di nubi, scherzi di vapori addensatisi senza senso né coerenza, e avrebbe voluto lasciarle passare così, e vederle dissolversi senza echi.
Doveva invece sforzarsi di
memorizzarle perché più tardi il
Professore avrebbe voluto conoscerle. Quello sforzo di attenzione e di
memoria era il suo primo atto di volontà e insieme il primo dei compiti minuti
ma spossanti in cui le ore della sua giornata si sarebbero divise.
La
gemmazione semantica era sempre
preceduta dal verdetto. Questo si
presentava come un sussulto improvviso costituito dal lampeggiamento di una
frase di tre sole parole proprio dietro gli occhi chiusi: sono ancora qui. La constatazione era deludente e penosa e le si
posava sul petto come un grave, che Q. chiamava il masso e che da quel momento non l'avrebbe più lasciata per tutto
il giorno rendendo la sua respirazione faticosa e rotta: piccoli respiri
tronchi si susseguivano velocemente senza mai arrivare a riempirle d'aria i
polmoni e lasciandola perennemente affamata di ossigeno, in un'apnea angosciante
benché non sottomarina. Dopo essere dunque passata attraverso il verdetto e la gemmazione semantica
Q. prendeva ad agire, trascinata dalla ineluttabilità del suo essere
ancora al mondo. Lo faceva con cura meticolosa, ordinando gesto dopo gesto. Il
più complicato degli atti con cui iniziava la sua nuova giornata di
involontaria rediviva consisteva nell'alzarsi dal letto.
Qualcuno
suddivideva questa semplice operazione in una serie di passaggi, ognuno dei
quali veniva, per così dire, imposto dal suo cervello ad un corpo un po'
stolido e un po' recalcitrante. Innanzitutto Q. si sollevava e
si appoggiava con tutta la schiena alla testata del letto, le gambe allungate davanti sé
e restava così, in una versione domestica di Farinata degli Uberti a osservare
la stanza. C'era da compiere un'operazione immaginativa e filosofica che
consisteva nel ricostruire la realtà a partire dal comò che la guardava dalla parete di fronte al letto. Era il comò infatti a costituire il perno, l'asse portante intorno cui il globo terrestre si sarebbe ricomposto
e avrebbe ripreso a ruotare. Nella realtà, cacciatasi in qualche non luogo
durante la notte, sarebbe stata riammessa la stanza e quindi la casa e la
palazzina che la ospitava e la via in cui si trovava e poi il quartiere e la
città e così via, con un movimento di allontanamento inclusivo, una carrellata
all'indietro che finalmente avrebbe risistemato Q. in un punto della
terra ruotante in un punto dello spazio stellare.
Oggi Q. descriverebbe quell'allontanamento inclusivo come una semplice ricerca su Google Maps, in cui partendo, ad esempio, dal Kilimangiaro e arretrando per clic successivi, nella mappa comparisse l'area del Kilimangiaro National Park, quindi la Tanzania e quindi il Kenia, e poi l'Africa subequatoriale e, di rinculo in rinculo, l'Africa tutta e i due oceani che la fiancheggiano e i due continenti al di là degli oceani: il Pianeta Terra, insomma.
Per Q. al centro di questa mappa in ricostruzione non c'erano le nevi del Kilimangiaro, ma lui, il comò.
Q. ne percorreva le linee,
osservava l'allineamento dei cassetti, contava le maniglie brunite, sei,
passava in rassegna gli oggetti che vi erano posati sopra — la piccola radio, la scatola di legno
con orecchini, anelli e collane, l'orologio sveglia dono di nozze,
la borsa e una sciarpa— poi ne riepilogava mentalmente, cassetto per
cassetto, il contenuto.
Questo
lavoro minuzioso serviva sì a dare il tempo al corpo di riattivare i meccanismi
motori, ma aveva uno scopo più sottile ed essenziale per Q.
A quel tempo, infatti, gli oggetti quotidiani, i più banali e familiari,
costituivano per lei una basilare fonte di informazione. Ripetersi che nel
secondo cassetto mutande, sottovesti, reggiseni e calze avevano ordinatamente giaciuto durante la notte mentre lei stessa giaceva e che nel terzo la
attendevano fedelmente magliette, camicette, sciarpe colorate e maglioncini di cotone, era come un
riepilogo della realtà. Significava ricostruire dal nulla una geometria
che aveva nome mondo e che possedeva un ordine e un senso. Esistevano cose.
Ognuna con un nome ed una funzione; esse avevano un loro posto. Dunque un posto
esisteva. Si trattava solo di convincersene. E la camicetta ordinatamente
ripiegata nel terzo cassetto, con la sua etichetta -made in Italy, pura seta,
lavare a mano in acqua fredda-, compiva il lavoro fondamentale di testimone di
un posto di nome Italy, in cui camicette in pura seta venivano prodotte in vasti laboratori da uomini e donne che erano usciti da case, e avevano percorso strade su automobili o pullman o treni che avevano incrociato altre automobili, pullman e treni con su altri uomini e altre donne diretti verso altri laboratori o fabbriche o scuole, uffici, che avevano luogo in paesi e città. Tutto questo esisteva. Il ragionamento con cui Q. si convinceva di questo ordine di cose si snodava lento e volenteroso e lei disegnava mentalmente tutti i pezzi di
realtà che la camicetta portava con sé in un elenco mentale ordinato: donne e
uomini, macchine, strade, case, fabbriche, scuole, uffici, paesi, città; e
questo spazio che si delineava dalla camicetta
pura-seta-lavare-a-mano-in-acqua-fredda si allargava pian piano e prendeva nome
mondo e più esattamente e filosoficamente realtà.
Se
questo compito di novella creazione del mondo era affidato al secondo e terzo
cassetto il primo era deputato a compiere un atto più difficile e delicato:
informarla su se stessa, fornirle una parvenza di identità. Sul primo cassetto perciò il
suo pensiero si posava per ultimo, perché
era da quello che sarebbe giunta la spinta decisiva a vivere il nuovo
giorno. Tutti quegli oggetti minuti, foto, lettere, orologi, occhiali nei loro
foderi, la scatola con le spille, i guanti, i foulard, il libretto di assegni,
il passaporto — soprattutto il passaporto, con la sua foto, la sua data di
nascita, il suo nome, quel nome che era il suo perché il Prefetto ci aveva
giurato sopra — oggetti che indubitabilmente appartenevano a lei, erano fatti a
sua misura, la descrivevano, le attribuivano caratteristiche corporee — taglia
44, guanti numero sette, tre diottrie di miopia all'occhio destro, cinque al
sinistro —le parlavano con la loro voce tranquilla e inequivoca e certificavano
che lei era una persona. Indossava occhiali, scriveva lettere, scattava foto,
annodava foulard intorno al collo e firmava assegni. Ritrovato dunque il mondo e una identità civile, c'era ora da compiere una
terza operazione: insufflare in quel corpo contenitore, taglia 44, che si era
appena stabilito essere il suo, anche uno spirito o un'anima, un'essenza mentale
che si configurasse come un io.
A
questo scopo Q. si tratteneva per un po' seduta sul letto, volta verso la
libreria che lo fiancheggiava, ad osservare con attenzione speranzosa i suoi
libri. E li passava in rassegna dal basso in alto, fin dove la vista le
consentiva di leggerne titolo e autore. E si allungava anche a toccarli,
indugiando nel contatto, cercando in quelle superfici cartacee, così note e
familiari, la se stessa che se ne era nutrita, un appiglio qualsiasi che risvegliasse dentro di sé un barlume della sua
natura spirituale, che le dicesse chi lei fosse stata e chi forse poteva
tornare ad essere se solo avesse trovato la forza di alzarsi in piedi.
(5/Continua)
Scrivere è senza dubbio la tua vocazione.
RispondiEliminaCristiana con un abbraccio.
Cara Marina passo per un caro saluto
RispondiEliminaMaurizio