mercoledì 27 novembre 2013

DEP & DAP LEXICON INDICE

Per chi non si lascia scoraggiare inserisco un indice del lavoro: capitoli già inseriti (con i corrispondenti post) e capitoli ancora da inserire. (Sugli ultimi debbo ancora lavorare molto, ma il mio lavoro è meno lungo di quanto possa apparire, ve lo giuro!).

CAPITOLO UNO

A quel tempo Qualcuno pensava di non essere nessuno, anzi pensava di non essere niente 
Post 1- 10 ottobre 2013 
Post 2- 13 ottobre 2013
Post 3- 20 ottobre 2013
Post 4- 29 ottobre 2013


CAPITOLO DUE

A quel tempo Qualcuno sperimentava la sospensione delle leggi fisiche
Post 5-   5 novembre 2013
Post 6-   9 novembre 2013
Post 7- 18 novembre 2013
Post 8- 24 novembre 2013

INDICE: 27 novembre 2013


CAPITOLO TRE
A quel tempo Qualcuno frequentava molti luminari e sbigottiva
Post 9 - 2 dicembre 2013

CAPITOLO QUATTRO
A quel tempo Qualcuno desiderava essere dissezionata
Post 10-10 dicembre 2013


CAPITOLO CINQUE
A quel tempo Qualcuno poteva essere abitata
Post 12-25 dicembre


CAPITOLO SEI
A quel tempo Qualcuno fece ricorso a Gorgia
Post 11- 16 dicembre


CAPITOLO SETTE
A quel tempo Qualcuno pensava che quel tempo non sarebbe mai finito finché se ne  trovò a Ridosso
Post 12 -2 gennaio 2014

CAPITOLO OTTO
A-ridosso-di-quel tempo Q. scoprì la funzione, o finzione terapeutica del tennis. A tennis infatti Qualcuno non giocava.



CAPITOLO NOVE

A ridosso-di-quel tempo Qualcuno metteva alla prova se stessa e la machina scaenica  


CAPITOLO DIECI
A-ridosso-di-quel-tempo Qualcuno fu quotata in Borsa, mangiò molto pescato e tornò a leggere e a scrivere


CAPITOLO UNDICI
A quel tempo Qualcuno scivolò fuori da quel tempo


CAPITOLO DODICI
Quello che Qualcuno ha imparato da quel tempo

CAPITOLO 13
In quale tempo vive oggi Qualcuno


domenica 24 novembre 2013

DEP & DAP LEXICON /8

Ciò che Q. a quel tempo aveva perso era la spontaneità, la naturalezza con cui tutti viviamo la nostra vita. L'ovvietà del vivere, l'immediatezza irriflessa con cui animalmente viviamo senza "sentirci" continuamente vivere. Q. era sempre stata compiaciuta della sua capacità di autocoscienza, ed anzi, in anni lontani, l'aveva puntigliosamente coltivata ed esercitata nei gruppi di donne che frequentava allora; ora dovette però apprendere fino a che punto questa facoltà, se usata senza parsimonia, possa rivelarsi impegnativa, faticosa e logorante.
Ma soprattutto imparò che essa può trasformarsi da esercizio volontario in ossessione inarrestabile, può sfuggire al nostro controllo ed insediarsi dentro di noi come padrona esigente e non tacitabile.
Benché a quel tempo Q. considerasse l'ipotesi di una guarigione come avrebbe considerato quella di giocare a palla con la luna, tuttavia, in un angolo aggrovigliato del suo animo, si nascondeva il pensiero che un principo di guarigione non potesse essere annunciato che da una diminuita attenzione a se stessa, da un ripristinarsi in lei di stati di inconsapevolezza, di semplice vita animale e che questo istante avrebbe coinciso con l'accecamento trionfale del terzo occhio. E naturalmente con il definitivo, assoluto silenzio della colonna sonora. Insomma con la scomparsa de l'Altra, la dannata radiocronista.
         A quel tempo Q. non poteva più fidarsi di nessuno dei suoi sensi. Non solo l'udito la ingannava, e la vista le proponeva il bemolle e l’ all black -per non parlare di quell'ossessivo terzo occhio che la guardava continuamente da fuori- ma anche il tatto le faceva difetto, mancando spesso di inviarle i segnali appropriati, sicché, a quel tempo, era tutto un lasciar cadere oggetti dalle mani, o un ferirsi, o uno scottarsi o semplicemente un frugare nella borsa senza distinguere prontamente al tatto il portafoglio, grosso e pesante, dalla patente. Le mani annaspavano ed esitavano, un po' cieche, un po' sorde, un po' inerti.
Quanto al gusto esso era in letargo: a quel tempo Q. mangiava solo ovatta o carta assorbente, o almeno così credeva.
L'olfatto poi viveva una sua vita separata e schizofrenica. Le portava da luoghi  lontani e invisibili odori che si presentavano forti, penetranti, allarmanti e si rifiutava di riconoscere quello del sugo che, a due passi da lei, si attaccava al fondo della pentola. O glieli confondeva, spostandoli di sede: odore di basilico dalla cassetta della posta, armadi all’odore di peperoni e camicette odorose di gomma bruciata.
         Q. aveva però un altro senso straordinariamente attivo ed affilato, di cui era debitrice alla sola malattia. Era la capacità propriocettiva, quella speciale sensibilità per cui percepiamo il nostro corpo nello spazio e nei movimenti. Questo senso si era almente affinato che aveva preso ad interessarsi anche dell’interno del suo corpo. 
Q. sospettava che i suoi sensori fossero migrati in massa dai suoi arti, avessero abbandonato tendini, muscoli e articolazioni, dove normalmente trovano posto, per tuffarsi nella profondità del suo corpo ed insediarsi in ognuno dei suoi organi interni, ovvero che di sensori gliene fossero spuntati altri, molti altri, dislocandosi a guardia di polmoni, fegato, esofago, reni, cuore, stomaco, intestino-tenue e crasso- eccetera.
Era l'unica spiegazione possibile per quello che le capitava talvolta: "sentire" con precisione assoluta il proprio cuore o il proprio fegato. Non semplicemente avvertire il battito del cuore ma percepirne il volume e la consistenza; non sentire una fitta al fegato, ma distinguerne la massa precisa e calda dentro di sé; non riconoscere le pareti dello stomaco perché vi avvertisse un bruciore, ma, in assenza di qualsiasi dolore, percepirne il tessuto dilatabile, sentirlo così come sentiva il colon, i suoi metri che si snodavano dentro di lei. Q. si disse che Edgard Allan Poe aveva ragione e che “tolto tutto l’impossibile, quello che rimane, anche se improbabile, è la verità” e senza neanche più la forza di indignarsi, rubricò questo insolito fenomeno sotto la voce Evidenziatore. Era tutto il suo corpo, organo per organo, che si faceva sentire da lei, come per farsi passare in rassegna, come per ricordarle che era fatto così e così e così.
Il che era sorprendente giacché Q., come la maggior parte di noi, aveva sempre avuto un'idea approssimativa della sua anatomia, e a parte quelli più comuni, collocava i suoi organi un po' alla rinfusa dentro il suo corpo contenitore. E lo era doppiamente perché quello stesso corpo che si faceva sentire con quasi tattile precisione, organo per organo, continuava ad apparirle estraneo e come staccato da sé, irreale e inconsistente, semplice sede accessoria di innumerevoli e curiosi fenomeni.
         Di questa improvvisa e minuziosa conoscenza della sua anatomia, ottenuta attraverso questa singolare propriocezione, Q. aveva il più grande terrore perché poteva estendersi anche al cervello. Dubito che qualcuno abbia voglia di "sentire" fisicamente il proprio cervello, di percepirne la materia, intendo, di sentirlo compiere piccoli movimenti spugnosi. Per dirla nel più esatto dei modi di "sentire che si stiracchia". Diciamocelo francamente, non è esperienza da augurare. Ma a Q. capitava di farne la prova. Non spesso, no, non più di un paio di volte al mese, ma, una volta fatta, questa esperienza è indimenticabile, lascia un segno di terrore e ribrezzo che non si riparerà più.
Tanto che rievocarla, sia pure a distanza di molto tempo, non è esercizio cui intendo indulgere ancora. Il lettore dovrà fidarsi della mia parola o affidarsi alla sua immaginazione. Sia inteso che, se dotato di forte immaginazione, lo farà a suo rischio e pericolo.
         Chi scrive si rende perfettamente conto di quanto poco credibile possa apparire la sua affermazione circa la capacità di Q. di "sentire" fisicamente il suo cervello. Eppure è semplicemente vero. Né Q. è  l'unico essere umano al mondo ad averlo esperito. Infatti, molto tempo dopo quel tempo, Q. lesse un giorno il testo di un serissimo psicologo americano, anche lui un DEP & DAP, cin cui si riferiva la stessa esperienza. Quel giorno Q. pianse, pianse a singhiozzi spezzati, con violenza dirotta, pianse di sollievo pensando per la prima volta dopo anni ed anni di non essere un monstrum unicum.
                Piangeva anche quella famosa mattina in cui l'abbiamo lasciata, quando, dopo aver detto addio al suo soccorritore, era uscita dal parco ed era restata sola. La scaturigine infatti aveva ripreso vigore. Per il resto la machina scaenica fece una scelta minimalista: naturalmente non dette il segnale di basta né al rumore di fondo né al masso né, tanto meno, al paso doble ma ritirò il frullatore di organi  e si accontentò di farlo accompagnare solo dal bemolle.
Ma il bemolle era fenomeno tollerabile; curioso ma tollerabile. Consisteva in uno sbiadimento lento e costante, appena un semitono sotto, dei colori delle cose e della loro stessa consistenza. Una specie di foschia impallidente si posava sul mondo intorno a lei e Q. guardava così alle strade, ai palazzi, alle auto e alle persone come attraverso un filtro opaco o uno di quei vetri sabbiati che si montano nelle finestre dei bagni. Vi si ricorre per non esser visti dai dirimpettai nelle proprie pratiche intime e la speranza di una possibile reciprocità rendeva a Q. meno molesto camminare in quella rarefazione velata, perché si diceva che forse, così come lei vedeva gli altri confusi e sfumati anche gli altri vedevano lei come una figura confusa e sfumata. Che era poi esattamente come lei stessa si sentiva. Uscita dal parco, quella mattina Q. camminò molto, perché voleva ritardare il momento in cui avrebbe ritrovati sparsi sul letto quei fogli beffardi dai quali era fuggita.
         Quando rientrò in casa andò nella sua stanza con una grossa busta di plastica, vi infilò tutte le carte sparse sul suo letto e le nascose nel fondo dell'armadio della stanza del Coniuge Malaccorto. Chiuse accuratamente l'armadio e anche la porta della stanza. Non voleva che la più piccola eco di quel carteggio la raggiungesse. Soprattutto non voleva che la tana, il suo ultimo rifugio, la sua ultima spiaggia, fosse in alcun modo sconvolta da quella presenza minacciosa. E spalancò le persiane sull'est e sul sud perché il sole depurasse il suo mondo.
         Pranzò con una grande tazza di caffelatte freddo in cui immerse uno dopo l'altro una confezione intera di biscotti, dal solito sapore di carta assorbente, poi prese la sua medicina, chiuse le persiane sull'est e sul sud, si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi. Si sentiva molto stanca ed era affetta dal precipito. A rigore anche il precipito può rientrare nel novero dei fenomeni sovvertitori delle legge fisiche. Consisteva infatti in un continuo inarrestabile cadere anche attraverso la superfice che la sosteneva, come se la gravità esercitata dalla massa terrestre sul suo corpo fosse capace di attrarlo anche attraverso altri corpi. Precipitò tutto il pomeriggio attraverso il letto, solo aprendo ogni tanto gli occhi per constatare che il bemolle aleggiava ancora nell'aria intorno a sé. La città in cui Q. viveva non conosce la nebbia, ma l’aria era velata, grave, caliginosa, forse per il caldo, forse per l’umidità salita dal fiume. I suoni che entravano dalla finestra erano smorzati, soffici, come imbozzoliti dentro quella densità grigiastra. Anche i pensieri erano imbozzoliti in una pesantezza oscura.
Il sole assediava le persiane della camera ma era polveroso e opaco e l'aria era pesante di caldo e di silenzio. Lei continuava a chiedersi perché il Coniuge  Inflessibile l'avesse punita così e il suo tribunale interno continuava a risponderle che lo aveva meritato, senza peraltro allegare le motivazioni della sentenza. Nel frattempo le arrivava all'orecchio l’eco della gratuita ma curiosa seduta di psicoterapia svoltasi nel parco. I suoni pronunciati dallo sconosciuto, che da allora prese a chiamare il Patrocinatore, nella sua sconosciuta lingua, avevano il tono di un’arringa difensiva ma non trovavano traduzione dentro di lei, fluttuavano nella sua mente, fervidi ma indecifrabili. Nessun tribunale se ne sarebbe fatto impressionare.
Verso sera Q. desiderò lavarsi di tutto- il carteggio, la panchina, la bouganvillea, i bottoni sfalsati  e il Patrocinatore e preparò un bagno nel quale si avvolse come dentro un sudario. Intanto piangeva sul bagnato, lacrime su schiuma ai fiori d'arancio.
Così era scritto sul flacone. Ma Q. sentiva solo un odore pungente di acciaio scaldato. Non s'interrogò sull'ennesima stranezza e respirò acciaio scaldato assieme alla sua dilatata solitudine.

Del resto, a quel tempo Qualcuno sperimentava la sospensione delle leggi fisiche. (8/continua)


lunedì 18 novembre 2013

DEP & DAP LEXICON /7

Tra le esperienze che tendevano a convincere Q. della inaffidabilità delle leggi fisiche e dei fenomeni biologici che ne discendevano c'era anche una bizzarra inversione del naturale susseguirsi di pensiero e azione nel tempo.
In pratica la sua mente le presentava due eventi obbligatoriamente successivi in ordine cronologico inverso. Q. chiamava ciò effetto hysteron proteron, come la figura retorica, e quando le accadeva non poteva fare a meno di ripetersi quel famoso verso dell'Eneide, l’ esortativo moriamur et in media arma ruamus. Moriamo e buttiamoci a combattere. Quell’anticipazione di termini era servita a Virgilio per dare il senso dell'impeto eroico con cui i soldati troiani erano pronti a battersi e a morire in difesa della loro patria. Anche Q. si trovava spesso a programmare gesti, invertendono il naturale ordine cronologico. Ad esempio poteva capitarle di dirsi mentalmente, o meglio di sentire L’Altra dirle mentalmente : -mettiamo la prima e saliamo in macchina.
Nel caso di Q. non c’erano una patria da difendere e invasori greci cui opporsi e l’esortazione che rivolgeva a se stessa era volta solo a infonderle il coraggio necessario a raggiungere con la sua piccola autovettura il più vicino supermercato. Atto banale, certo, ma il cui eroismo non era comunque da sottovalutare.
Il suo personale effetto hysteron proteron era reso più inquietante dal fatto che, mentre la sua mente la esortava a ingranare la prima e quindi a salire in macchina, la prima lei l’aveva già ingranata ed era già passata alla seconda. Confusamente Q. imputava questo doppio sfasamento tra il prima e il dopo a piccoli smarrimenti anticipatori e ritardatari insieme della coscienza, rispetto agli impulsi arrivati dal cervello al resto del suo corpo. Insomma ad una scollatura corpo-coscienza-mente.
            Allora Q. non sapeva che, in un certo senso, tutta la nostra vita è un continuo hysteron proteron perché dava per scontato che lei, come ogni altro umano, fosse per lo più cosciente dei suoi atti già nel compierli e che essi tenessero dietro ad una sua intenzionalità. Che lei ne avesse, di fatto, coscienza. Ignorava che il concetto di coscienza era in via di essere dichiarato se non morto, moribondo.
             Un giorno Q. avrebbe addirittura udito con le sue orecchie un rigorosissimo neuroscienziato dichiarare che "la parola coscienza" gli faceva sempre pensare "alle macchie di grasso sul brodo di pollo”, essendo i momenti di coscienza dell'individuo non solo pochi ma anche in continua scomposizione e ricomposizione proprio come le macchie di grasso sul brodo.
              In quell'occasione inoltre avrebbe appreso che, la coscienza essendo come la strozzatura di un imbuto, "in cui nel grande magma dell' inconsapevole e inintenzionale, passa a piccole quantità e per attimi brevissimi", la nostra mente è l’ultima a conoscere i nostri atti: ne "prende coscienza” con mezzo secondo di ritardo rispetto all’inizio dell’atto stesso.
Questa recente scoperta scientifica, Q. avrebbe potuto testimoniarla già a quel tempo; ma, ignorandola e limitandosi a viverla di maniera accentuata, si arrovellava tormentosamente per quelli che considerava i mancamenti ed i ritardi della sua coscienza.           
              Il ridimensionamento del concetto di coscienza da parte degli studi di psicologia cognitiva e delle neuroscienze, avrebbe anche travolto, fino a definirli "rozzi ed illusori", concetti come volontà e colpa, che tanto la facevano penare. Essi costituivano infatti la coppia micidiale, quasi le bolas, con cui lo stato depressivo la stringeva al collo. Ma la smentita della dittatura di volontà e colpa che un così grande sollievo avrebbe potuto arrecarle, era, a quel tempo, ancora di là da venire.
            Frattanto Q. aveva da lamentarsi anche per l'attività frenetica e incontrollata di quell'altra straordinaria dotazione della persona umana che si chiama autocoscienza, la possibilità di pensarsi, di riflettere su di sé, sulle proprie azioni e sui propri pensieri.
Q. infatti procedeva nelle sue giornate in perenne compagnia di un'
altra Q., una presenza costante che sempre l'accompagnava, e che, senza troppa fantasia, lei chiamava l'Altra, o Terzo Occhio o Telecronista o Colonna sonora.
              Q. sapeva che L’Altra era ancora lei, ma nello stesso tempo la immaginava come un'altra persona, molto diversa dalla sé di quel tempo, anche se molto simile alla sé dei tempi in cui Q. era qualcuno. Innanzitutto era un'adulta mentre Q., benché avesse quarantotto anni, si percepiva come una bambina sprovvista di ogni esperienza del mondo, nel quale si muoveva confusa e allarmata. L'Altra invece era una giovane donna consapevole.
Vestiva persino in modo diverso da lei. Portava i jeans, una maglietta Fruit of the loom bianca e scarpe da ginnastica. Forse erano quelle che le conferivano quel passo sicuro ed elastico che sentiva sempre accanto a sé e che le invidiava, mentre lei portava avanti il suo corpo come un carico pesante e fragile insieme, sfuggente da tutte le parti.
            Delle numerose esperienze dovute alla sua malattia questa dell’Altra le pesava in modo particolare. Non era né dolorosa né spaventosa, ma la sua persistenza, la sua continuità non si allentava mai, non le dava riposo o respiro. Q. viveva le sue giornate, con i loro piccoli o grandi avvenimenti, osservandosi viverle, meta-vivendole, se così si può dire ed esse erano come una rappresentazione teatrale in cui lei era attore e spettatore. Ogni più minuto attimo della sua vita Q. lo viveva due volte, lo esperiva in due modalità diverse; lo compiva come agente e ne fruiva come osservatore. In altre parole, mentre Q., perplessa, osservava il mondo seduta sulla sua malattia, il terzo occhio, l'occhio dell'Altra, osservava lei che, seduta perplessa sulla sua malattia, osservava il mondo e in questa abîme ogni singolo fenomeno si raddoppiava e si presentava alla sua coscienza due volte, come esperienza inesplicabile e come descrizione, ma non esplicativa, di essa.
                 Q. si lavava o beveva un caffè al bar, traversava la strada o sceglieva un taglio di carne dal macellaio e intanto accanto ma anche sopra e dentro di lei, l'Altra la osservava lavarsi o traversare la strada, scegliere il taglio di carne dal macellaio o bere il caffè al bar e prendeva nota di ogni suo gesto, di ogni sua sensazione, di ogni sua emozione o pensiero.
Q. dovette dunque ammettere che il suo cervello, semplicemente, si era diviso in due: c'era lei, immersa nella sua vita corporale e mentale e c'era ancora un'altra lei che scrutava questa sua vita corporale e mentale additandola alla sua attenzione e commentandola senza sosta. Le dava anche delle istruzioni e degli incoraggiamenti, ma questo non ne stemperava la molestia.
            "-Stai entrando dal macellaio —le diceva—c'è gente, dovrai attendere. Puoi sempre uscire se vuoi, se ti sentirai soffocare, non devi neanche salutare, nessuno fa caso a te. 
-Ti stai coprendo di sudore, hai paura di cadere, pensi che non ce la farai a restare in piedi finché tocchi a te. Ma non è grave, lo sai, ti copri sempre di sudore. 
-Ecco, allunga il braccio dietro di te e appoggiati alla parete. Sorridi; no, non così, meno. 
-Altra gente è entrata dopo di te. Sì, ti ostacola l'uscita. Ma puoi sempre spingerla. Potresti gridare e si scosterebbero. 
-Il cuore sta rallentando, certo. Ma batte, non temere, batte, altrimenti saresti morta e non mi udresti; invece sei viva, stai in una macelleria e se ti giri verso destra senti l'aria fredda che esce dal frigorifero quando ne aprono la porta. 
-Sì, ti senti cadere. E vuoi fuggire, certo. E non sai se le gambe si muoveranno. Però si muoveranno, vedrai. Chiudi le mani. Ora aprile. Vedi? Obbediscono. Anche le gambe obbediranno. 
-Tra poco toccherà a te. Guarda il banco. Concentrati sui tagli di carne. Descrivimeli, dai. Da destra. Quella è la rosa di vitello. Vedi come frana dolcemente sotto il suo peso? E' carne tenera, giovane. Quelle invece sono bistecche di lombo. E' manzo. Lo vedi come è rosso? E come è sodo? E quelle altre, più grasse, quelle sono sempre bistecche ma di costa. 
-Non vedi più? Sciocchezze. E' l'ombra della tenda. Va bene, non vedi più. Diciamo che non vedi più. Lo sai che dura pochissimo. Pochi secondi, un minuto forse. Puoi farcela. Stai tranquilla nessuno se ne accorge. 
-Ascoltali parlare. Senti? E' tutto normale, la gente parla di zucchine ripiene di carne, di polpettoni, di alette di pollo. Nessuno è mai morto in una macelleria mentre si parla di alette di pollo! Ecco fra poco tocca a te. Non c'è bisogno che indichi il pezzo se non ci vedi. Basta che tu dica: Vorrei quattro etti di fettine di vitello, per favore. 
-La voce non esce? Questo lo credi tu. La voce è già uscita. Guarda, il macellaio ha preso la rosa di vitello, l'ha posata davanti a sé, la sta assestando e si prepara a tagliarla. Perciò ti ha sentito, no? 
-Ma certo che puoi vederlo! Come farei io a dirti che ha preso la rosa di vitello e si prepara a tagliarla se tu non l'avessi visto? La sta pesando, vedi? Che ti avevo detto, la vista è tornata. Ora basta che allunghi il braccio e prendi il pacchetto. Così, splendido. 
-Stai per uscire. Presto sarai fuori. Devi solo passare alla cassa e pagare. Ma sì che le gambe sono salde. Ecco, vedi, anche il sorriso è più sciolto. Chiedi permesso, così. Non occorre che alzi la voce. Calma. Calma. 
-Ecco, sei fuori. Ce l'hai fatta. Che ti dicevo? Piangi? Sì, è stato spaventoso, lo so. Ma ora sei fuori. Puoi piangere, ora. Va bene, va tutto bene. Ora devi solo camminare verso casa. E poi ti sdraierai sul letto e chiuderai gli occhi. Come hai detto? Colonna sonora? Telecronista? Ah, io? ma come, non mi chiamavi l'Altra?"

                 Questo dialogo, del resto non poco sforbiciato, è solo il piccolo trailer del film che si proiettava ininterrottamente nella mente di Q. durante ognuna delle sue giornate.(7 / continua)

sabato 9 novembre 2013

DEP & DAP LEXICON / 6

A quel tempo toccare i libri era uno degli espedienti cui Q. ricorreva anche più volte al giorno, per garantirsi circa l'effettiva esistenza di una realtà non nemica al di fuori di se stessa e del suo tormento, come un naufrago che trova la forza di continuare a nuotare perché sulla superficie liscia del mare intravede lontano profilarsi una terra, promessa di un'altra realtà oltre quella liquida, sfuggente e senza contorni in cui il suo corpo si agita debolmente. A quel tempo il legame che sempre aveva unito Q. ai libri si trasformò definitivamente e prese un senso del tutto speciale che non avrebbe più perso. I libri non solo divennero i soli messaggeri del mondo, gli inviati speciali della realtà ma anche la stesura autentica della sua storia. Lei era quei libri, quei libri avevano penetrato il suo spirito sedimentandole dentro, erano stati i catalizzatori delle sue trasformazioni mentali, delle sue facoltà intellettive, l'enzima del suo divenire nel tempo: l'avevano fatta ed erano lei. 

            Solo dopo questa lunga seduta braille in caccia del suo spirito, in cui al tatto era affidato il compito di trasmettere al suo cervello i suoi stessi pensieri, quelli che l'avevano nutrita per anni, Q. si alzava in piedi. Nell'alzarsi al fenomeno del masso se ne aggiungeva un altro, legato al battito cardiaco, che aveva nome frenata con accelerazione. Q. esperiva cioè il contemporaneo instaurarsi nel suo corpo di un doppio e contraddittorio ritmo: un'accelerazione quasi canina del suo respiro e una decelerazione quasi agonica del suo battito cardiaco. Pur in mancanza di specifiche nozioni di fisiologia umana Q. sospettava che i due fenomeni fossero fisicamente incompatibili ma poiché essi invece si verificavano simultaneamente in lei, era costretta a questa presa d'atto: le leggi fisiche erano o erano divenute inaffidabili. Anziché eterne e immutabili erano invece capricciose e si permettevano varianti e inversioni. Almeno in lei. In particolare, di ognuno dei lentissimi battiti del suo cuore, così distanti l'uno dall'altro, Q. non sapeva dire se gliene sarebbe seguito un secondo e poi un terzo ed anzi ogni nuovo battito si faceva sentire solo quando Q. si era ormai convinta che quello precedente fosse stato anche l'ultimo. L'esperienza era terrorizzante perché, se Q. desiderava costantemente il non-essere, viveva però nel terrore del morire, di dover cioè affrontare in stato di coscienza quel momento di catastrofe aristotelica. Poiché Q. era entrata in quel tempo portata dal dolore di un lutto, il dolore era il suo familiare compagno. Ma lei non impegnava la più piccola quantità di energia a sperare che quel dolore passasse, giacché le sembrava che non solo lei stessa, ma l'intero universo non fosse fatto d'altro che di quel dolore; e le pareva che la terra, il bel globo colorato, fosse tutta circondata da un'aura, una densità gassosa fatta di dolore, tutto il dolore  emanato dagli esseri viventi, le donne e gli uomini di ogni continente e di ogni latitudine; e al suo sguardo tutti gli altri animali e i mari e i monti e i boschi e i fiumi ed ogni zolla di terra, emanavano quello stesso dolore e quel dolore, sotto forma di vapori pallidi, si alzava dalla terra e si allargava nell'universo e, Q. non ne dubitava, lo avrebbe col tempo colmato tutto; trovava perciò semplicemente inutile sperare nella cessazione del suo personale dolore e molto più logico ed efficace sottrarsi a quell'universo doloroso. Il non-essere definitivo e liberatorio cui puntava non era però collocato nel tempo, ma quasi a-temporale, un passaggio di stato istantaneo e senza coscienza, e le sue preferenze andavano decisamente ad un non-risveglio. Questo significava che ogni sera, quando mandava giù l'ultima pillola della giornata, salutava speranzosa se stessa e il mondo, e insieme alla pasticca inghiottiva il presente, il passato ed ogni futuro.

            Questa aspirazione al non-risveglio non era però il segno di un senechiano coraggio. Al contrario incombeva su di lei costantemente il terrore della catastrofe aristotelica, come dentro di sé Q. chiamava il morire grazie a una lontana e confusa reminiscenza liceale; la catastrofe aristotelica aveva anche una sua voce minacciosa, un grido di avvicinamento che rimbombava sempre all'interno dei due metri quadri in cui si inscriveva il suo corpo; sembrava l'ultima sillaba di un grido di aiuto, una o prolungata all'infinito ed era il rumore di fondo delle sue giornate. Q. lo portava a spasso con sé e, ovunque andasse, tutta l'aria immediatamente intorno a lei vibrava del riverbero sonoro di quella personale sirena d'allarme. La città in cui Q. viveva non conosceva la nebbia, ma l’aria in cui lei si muoveva era come velata e caliginosa, e tutti i suoni che la percorrevano erano smorzati, soffici, come imbozzoliti dentro quella densità grigiastra. L'unico suono chiaro e abbacinante era quel grido di avvertimento, tutto privato, che annunciava l'arrivo della catastrofe aristotelica. Ma la catastrofe aristotelica non si verificava mai, limitandosi a farsi annunciare.
            Sempre a proposito di rumori si verificava un altro fenomeno curioso. Una delle leggi fisiche su cui un tempo si poteva contare diceva che i suoni approssimativamente di stessa intensità risultano al nostro orecchio più o meno forti a seconda della distanza della fonte sonora dall'orecchio stesso. Fonte lontana suono più flebile, fonte vicina suono più forte.
Nella realtà di Q. a quel tempo accadeva che il buongiorno squillante lanciatole dal condomino incrociato sulle scale suonasse al suo orecchio flebile e lontano, quasi inudibile, tanto che spesso la sua risposta arrivava quando già il condomino in questione era scomparso due piani più sotto; mentre il lontano garrito di una rondine altissima nel cielo poteva striderle alle orecchie e farla sussultare di allarme come se la rondine fosse prigioniera nella sua stanza e sbattesse da un muro all'altro gridando impazzita.
Questo era forse effetto del fatto che alla sua coscienza pervenivano vividi solo i messaggi potenzialmente disastrosi, mentre tutto il resto della realtà, i suoi aspetti piatti opachi, quotidiani e pacifici, erano come privi di corpo e di evidenza, lontani e impercepiti.
Quanto alla sua di voce, Q. aveva perso del tutto la possibilità di modularne la potenza. Qualsiasi fosse l'intenzione comunicativa con cui apriva la gola e lasciava uscire la voce questa risultava spenta, opaca, o almeno così le sembrava tanto che nel dubbio di riuscire ad esprimersi di maniera udibile, aveva ridotto al minimo le emissioni di suono.
Tranne in casi di necessità e nelle comunicazioni di servizio, Q. rivolgeva la parola solo ai familiari sentendosi quasi sorpresa quando ne riceveva risposte coerenti.
Se Q. a mala pena udiva la sua voce era anche perché era occupata in calcoli complicatissimi. Di fatto, per non restare priva di fiato, nel pronunciare una frase doveva ogni volta cogliere il momento giusto tra l'una e l'altra delle sue velocissime inspirazioni, avendo però contemporaneamente cura di emettere le parole immediatamente dopo, anzi a ridosso di un battito del cuore, onde evitare che la frase fosse troncata a metà dal cedere del medesimo. Si trattava insomma di aspettare la configurazione astrale in cui una inspirazione coincidesse con un battito cardiaco e lì, proprio lì, inserire la sua dichiarazione. L'operazione di barcamenarsi tra l' accelerazione canina del respiro  e la decelerazione agonica del battito cardiaco, non era semplice ed anche per questo Q. aveva ridotto all'essenziale ogni sua comunicazione verbale. A dire il vero c'era anche un'altra ragione: la disturbava cioè il pensiero che, morendo appunto subito dopo aver pronunciato una di quelle inevitabili frasi di servizio cui non si poteva sottrarre, la memoria di sé restasse legata a queste sue ultime parole: tre rosette, grazie. O addirittura: una confezione di supposte di glicerina, per favore.
Va bene morire, ma cadere esanime davanti al banco di un farmacista subito dopo aver chiesto un facilitatore intestinale era troppo imbarazzante. Del resto la costipazione intestinale compariva tra gli effetti indesiderati di pressoché tutti i farmaci che aveva via via provati. Sicché la probabilità statistica era contro di lei e il suo ultimo lascito all'umanità. (6/continua)




martedì 5 novembre 2013

DEP & DAP LEXICON / 5

Capitolo due

A quel tempo Qualcuno sperimentava la sospensione delle leggi fisiche.


Quando apriva gli occhi al mattino, risalendo da un sonno bianco e burroso targato Tavor Expidet mg. 2, l'unico sonno che allora le fosse concesso, dopo i lunghi e confusi minuti necessari alla sua mente per riaccorgersi di sé, Q. trovava ad accoglierla il suo corpo, disposto, alternativamente, in una delle seguenti posizioni: o supino, composto come una salma, le gambe distese e accostate, le mani posate sullo sterno; o rannicchiato come un feto, i pugni chiusi stretti tra il petto e le ginocchia, come se avesse occupato la notte a morire o a prepararsi a nascere. Ma poiché invece tornava a svegliarsi doveva constatare ogni volta di non essere morta. E poiché si svegliava nella stessa disposizione di spirito con cui si era addormentata la sera innanzi, era costretta a riconoscere di non essere neanche rinata.
Più raramente il suo corpo si faceva trovare nella posizione della Santa Cecilia del Maderno: abbandonato sul fianco destro, le braccia allungate in avanti, i polsi accostati (benché non legati), le mani dischiuse.
La testa invece era volta all' indietro con una torsione innaturale. Poggiava sulla fronte e affondava nel cuscino. Era, quella, la posizione del martire. Fatta di rassegnazione e abbandono ma anche di desiderio di non vedere i colpi. 



            Qualunque posizione le presentasse il suo corpo, salma, feto o martire, Q. la manteneva a lungo perché dal cervello, dopo quello flebile di aprire gli occhi, non giungeva altro comando; e anche quando il cervello iniziava ad inviare i primi deboli segnali, il capo e gli arti sembravano incapaci di recepirli, sordi più che riluttanti. In qualche punto del suo essere c'era una dispersione di volontà che smorzava ogni impulso, un buco nero in cui si perdeva qualunque segnale. Succede talvolta tra una presa di corrente ed una lampada: esplorata con l'apposito cacciavite cercafase, la presa risulta fornita di elettricità ma la lampada benché collegata non si accende. A Q. accadeva lo stesso: non si accendeva. In quei lunghi minuti di blocco si verificava il fenomeno della gemmazione semantica: isolati vocaboli si formavano nella sua mente, staccati l'uno dall'altro da pause regolari di qualche secondo ognuna. Erano scritti in un bel corsivo netto, nel classico Times corpo 22, in tutte minuscole. Q. li vedeva avanzare come se si staccasero dalla pagina di un dizionario e le venissero incontro. L'effetto era quello dei bersagli dei poligoni di tiro che, una volta colpiti, scivolano lungo un filo verso il tiratore perché verifichi l'esattezza della sua mira. Solo che Q. non era il tiratore ma il bersaglio. Le parole che le si presentavano alla mente erano quotidiane, banali e non le sembravano particolarmente significative o emblematiche né nella loro sequenza sembrava nascondersi qualche messaggio speciale.
Q. le osservava avanzare senza grande interesse proprio come dal finestrino di un aereo guardiamo passare filacci di nubi, scherzi di vapori addensatisi senza senso né coerenza, e avrebbe voluto lasciarle passare così, e vederle dissolversi senza echi.
Doveva invece sforzarsi di memorizzarle perché più tardi il Professore avrebbe voluto conoscerle. Quello sforzo di attenzione e di memoria era il suo primo atto di volontà e insieme il primo dei compiti minuti ma spossanti in cui le ore della sua giornata si sarebbero divise.
            La gemmazione semantica era sempre preceduta dal verdetto. Questo si presentava come un sussulto improvviso costituito dal lampeggiamento di una frase di tre sole parole proprio dietro gli occhi chiusi: sono ancora qui. La constatazione era deludente e penosa e le si posava sul petto come un grave, che Q. chiamava il masso e che da quel momento non l'avrebbe più lasciata per tutto il giorno rendendo la sua respirazione faticosa e rotta: piccoli respiri tronchi si susseguivano velocemente senza mai arrivare a riempirle d'aria i polmoni e lasciandola perennemente affamata di ossigeno, in un'apnea angosciante benché non sottomarina. Dopo essere dunque passata attraverso il verdetto e la gemmazione semantica Q. prendeva ad agire, trascinata dalla ineluttabilità del suo essere ancora al mondo. Lo faceva con cura meticolosa, ordinando gesto dopo gesto. Il più complicato degli atti con cui iniziava la sua nuova giornata di involontaria rediviva consisteva nell'alzarsi dal letto.
            Qualcuno suddivideva questa semplice operazione in una serie di passaggi, ognuno dei quali veniva, per così dire, imposto dal suo cervello ad un corpo un po' stolido e un po' recalcitrante. Innanzitutto Q. si sollevava e si appoggiava con tutta la schiena alla testata del letto, le gambe allungate davanti sé e restava così, in una versione domestica di Farinata degli Uberti a osservare la stanza. C'era da compiere un'operazione immaginativa e filosofica che consisteva nel ricostruire la realtà a partire dal comò che la guardava dalla parete di fronte al letto. Era il comò infatti a costituire il perno, l'asse portante intorno cui il globo terrestre si sarebbe ricomposto e avrebbe ripreso a ruotare. Nella realtà, cacciatasi in qualche non luogo durante la notte, sarebbe stata riammessa la stanza e quindi la casa e la palazzina che la ospitava e la via in cui si trovava e poi il quartiere e la città e così via, con un movimento di allontanamento inclusivo, una carrellata all'indietro che finalmente avrebbe risistemato Q. in un punto della terra ruotante in un punto dello spazio stellare. 
      Oggi Q. descriverebbe quell'allontanamento inclusivo come una semplice ricerca su Google Maps, in cui partendo, ad esempio, dal Kilimangiaro e arretrando per clic successivi, nella mappa comparisse l'area del Kilimangiaro National Park, quindi la Tanzania e quindi il Kenia, e poi l'Africa subequatoriale e, di rinculo in rinculo, l'Africa tutta e i due oceani che la fiancheggiano e i due continenti al di là degli oceani: il Pianeta Terra, insomma.  
Per Q. al centro di questa mappa in ricostruzione non c'erano le nevi del Kilimangiaro, ma lui, il comò.
Q. ne percorreva le linee, osservava l'allineamento dei cassetti, contava le maniglie brunite, sei, passava in rassegna gli oggetti che vi erano posati sopra —  la piccola radio, la scatola di legno con orecchini, anelli e collane, l'orologio sveglia dono di nozze, la borsa e una sciarpa— poi ne riepilogava mentalmente, cassetto per cassetto, il contenuto.
            Questo lavoro minuzioso serviva sì a dare il tempo al corpo di riattivare i meccanismi motori, ma aveva uno scopo più sottile ed essenziale per Q.
A quel tempo, infatti, gli oggetti quotidiani, i più banali e familiari, costituivano per lei una basilare fonte di informazione. Ripetersi che nel secondo cassetto mutande, sottovesti, reggiseni e calze avevano ordinatamente giaciuto durante la notte mentre lei stessa giaceva e che nel terzo la attendevano fedelmente magliette, camicette, sciarpe colorate e maglioncini di cotone, era come un  riepilogo della realtà. Significava ricostruire dal nulla una geometria che aveva nome mondo e che possedeva un ordine e un senso. Esistevano cose. Ognuna con un nome ed una funzione; esse avevano un loro posto. Dunque un posto esisteva. Si trattava solo di convincersene. E la camicetta ordinatamente ripiegata nel terzo cassetto, con la sua etichetta -made in Italy, pura seta, lavare a mano in acqua fredda-, compiva il lavoro fondamentale di testimone di un posto di nome Italy, in cui camicette in pura seta venivano prodotte in vasti laboratori da uomini e donne che erano usciti da case, e avevano percorso strade su automobili o pullman o treni che avevano incrociato altre automobili, pullman e treni con su altri uomini e altre donne diretti verso altri laboratori o fabbriche o scuole, uffici, che avevano luogo in paesi e città. Tutto questo esisteva. Il ragionamento con cui Q. si convinceva di questo ordine di cose si snodava lento e volenteroso e lei disegnava mentalmente tutti i pezzi di realtà che la camicetta portava con sé in un elenco mentale ordinato: donne e uomini, macchine, strade, case, fabbriche, scuole, uffici, paesi, città; e questo spazio che si delineava dalla camicetta pura-seta-lavare-a-mano-in-acqua-fredda si allargava pian piano e prendeva nome mondo e più esattamente e filosoficamente realtà.
            Se questo compito di novella creazione del mondo era affidato al secondo e terzo cassetto il primo era deputato a compiere un atto più difficile e delicato: informarla su se stessa, fornirle una parvenza di identità. Sul primo cassetto perciò il suo pensiero si posava per ultimo, perché  era da quello che sarebbe giunta la spinta decisiva a vivere il nuovo giorno. Tutti quegli oggetti minuti, foto, lettere, orologi, occhiali nei loro foderi, la scatola con le spille, i guanti, i foulard, il libretto di assegni, il passaporto — soprattutto il passaporto, con la sua foto, la sua data di nascita, il suo nome, quel nome che era il suo perché il Prefetto ci aveva giurato sopra — oggetti che indubitabilmente appartenevano a lei, erano fatti a sua misura, la descrivevano, le attribuivano caratteristiche corporee — taglia 44, guanti numero sette, tre diottrie di miopia all'occhio destro, cinque al sinistro —le parlavano con la loro voce tranquilla e inequivoca e certificavano che lei era una persona. Indossava occhiali, scriveva lettere, scattava foto, annodava foulard intorno al collo e firmava assegni. Ritrovato dunque il mondo e una identità civile, c'era ora da compiere una terza operazione: insufflare in quel corpo contenitore, taglia 44, che si era appena stabilito essere il suo, anche uno spirito o un'anima, un'essenza mentale che si configurasse come un io.

            A questo scopo Q. si tratteneva per un po' seduta sul letto, volta verso la libreria che lo fiancheggiava, ad osservare con attenzione speranzosa i suoi libri. E li passava in rassegna dal basso in alto, fin dove la vista le consentiva di leggerne titolo e autore. E si allungava anche a toccarli, indugiando nel contatto, cercando in quelle superfici cartacee, così note e familiari, la se stessa che se ne era nutrita, un appiglio qualsiasi che risvegliasse dentro di sé un barlume della sua natura spirituale, che le dicesse chi lei fosse stata e chi forse poteva tornare ad essere se solo avesse trovato la forza di alzarsi in piedi.  
(5/Continua)