Nel ridosso di quel tempo
altri luoghi aperti sotto il cielo medicavano lo spirito stanco di Q.,
ritempravano quelle forze stremate dalla fatica psichica che durava da anni.
Riprese l’esplorazione della sua città, che un tempo conduceva infaticabilmente per
coglierne anche la più minuta bellezza. Le strade tornarono ad aprirsi davanti
a lei, riscoprì i vicoli, le piazze, il lungofiume.
Una mattina Q. si spinse fino alla porta secentesca una volta a ridosso
del porto fluviale della città, la Ripa Grande, e che ora dà accesso al grande
mercato dell’usato, Porta Portese, aprendosi su vie, viali, piazze e piazzette
che ogni domenica sono invase da camioncini, furgoni, carri e carretti da cui
vengono scaricate ed esposte merci di ogni tipo, natura e origine: in terra -su
piani di legno, marciapiedi, muretti, tavoli traballanti; o sospesi -agganciati
a corde tese tra due alberi o ad appendiabiti di fortuna.
Vi si trova di tutto: mobili di ogni stile - tavoli, sedie, poltrone,
credenze, madie, comò, librerie- pellicce smangiate, vecchi vestiti da sposa, quadri,
servizi di piatti, chiavi di ferro, piante vere e finte, ombrelli,
attaccapanni, fantasiosa bigiotteria, gioielli veri, tute mimetiche, abiti da
sera... Vimine, bachelite, cotone, pelle, rame, porcellana, carta, vetro,
ferro, lana, argento, oro, plastica, legno, nylon, ottone, non c’è materiale
che manchi. Qui i visitatori si aggirano in cerca di curiosità, di affari o di un
modo diverso di passare la domenica mattina, talvolta desiderosi solo di
mischiarsi alla folla per sfuggire alla solitudine.
Q. arrivò presto prima che il mercato divenisse troppo affollato,
percorso da quasi impenetrabili flussi di persone, così gremito da rallentare
la sua fuga in caso di necessità.
Le era sempre piaciuto gironzolare in cerca delle meraviglie nascoste tra
cianfrusaglie e ciarpami e studiare facce, gesti e voci; lasciarsi affascinare da
quella concentrazione di vita pulsante, da quella gente di tutte le intenzioni che le scorreva a lato
e negli anni vi aveva acquistato sedie, scialli,
bottiglie, libri, vestiti, orecchini, improbabili antichità e persino un
arcolaio. Ma Porta Portese era per lei anche un palcoscenico su cui la vita
metteva in scena se stessa, un luogo ad alta densità di storie, da intuire –grazie
a uno scambio di battute colte al volo, a uno sguardo, a un gesto- o da inventare.
Quella mattina Q. guardò Porta Portese con uno sguardo diverso, la vide in
quella che le apparve come la sua vera natura: un grande cimitero degli
elefanti dove prima o poi finiscono i resti delle vite di tutti noi, un grande mercato
crudele o pietoso, che tutto ingoia e tutto restituisce, ingurgita vite e
rigurgita morte.
Q. e il marito all’inizio bighellonarono, lasciandosi guidare dal
flusso della gente e attirare qua e là dagli oggetti su cui si posava il loro
sguardo e fecero scoperte
divertenti: -quel termos là di bakelite rossa, ne avevamo uno uguale, ricordi?
guarda, la stessa radio di tua madre, guarda,
sembra proprio la tua vecchia macchina fotografica subacquea...
Scoperte divertenti all’inizio, poi cominciò a farsi strada in Q. la
sensazione sempre più intensa che gli oggetti sui banchi, esposti allo sguardo
valutativo degli altri e così simili ai suoi, fossero proprio i suoi, giunti fin là per vie che lei ignorava.
A ridosso di quel tempo mentre sperimentava se stessa, Q. repertoriava le morti ed ecco che lì davanti a sé in quel brulicare di vita,
riconobbe uno dei volti della morte.
Prese ad
osservare quei vivi vocianti e discordi, li vide agitarsi e smaniare al cospetto
della morte, sciorinata senza pudore eppure invisibile ai più che volevano anzi
comprarla e portarsene un pezzo a casa senza riconoscerla. Su quei banchi si
esibivano vite, ma si esibivano anche morti. Non era una fantasia improbabile, era
la constatazione pacifica di un destino che le apparve di tutti ed anche suo. E
le storie che si potevano intuire da tutti quegli oggetti, erano in definitiva
una sola storia.
Su quei banchi traballanti non erano esposti solo oggetti appartenuti ad
eredi senza cuore o senza memoria, a nipoti venali, a figli spregiudicati, a
sorelle vendicative, o a donne e uomini bisognosi di un piccolo guadagno,
costretti a vendere una vecchia pelliccia o il servizio buono di bicchieri.
No, la più accurata e affettuosa conservazione degli effetti personali
di un morto, lascia sempre qualche scoria, qualche cosa che ci si rigira tra le
mani perplessi, di cui ci si chiede- che cos’è? o -che ne facciamo?- qualcosa
magari in troppo cattivo stato per ripararla o in troppo buono per gettarla e
che quindi si regala a qualcuno meno fortunato; o qualcosa che invece si getta,
benché a malincuore, perché lo spazio nella nostre case è ristretto, colme come
sono dell’inutile e dell’effimero accumulato lungo le nostre vite; e non tutto
si riesce a salvare, a conservare.
E dove finiranno tutti
quegli oggetti?
La vestaglia donata ad una portiera, la portiera la conserverà per la
vita? la batteria di vecchie pentole che una “badante” rumena ha ricevuto in
regalo, andando meglio le cose per lei, non prenderà un giorno la strada del vecchio
mercato sempre affamato? Le scarpe e i vestiti non riutilizzabili, tarlati
ormai o non più indossabili per motivi di taglia e appesi nell’armadio di una
vecchia cantina, i nipoti li conserveranno?
O non affideranno a qualcuno il compito di vuotare la cantina? e quel
qualcuno, non salverà forse quello che ancora avrà un valore mercantile? non lo
esporrà appeso ad una bancarella, tentando di nobilitarlo, mentre tutto il
resto lo ammucchierà disordinatamente su un marciapiede?
Neanche gettare nei cassonetti garantisce i nostri oggetti dal finire su
quel marciapiede; oggi nei cassonetti è un continuo frugare da parte di persone
che hanno troppo poco e troppo bisogno, persone che un po’ usano e un po’
vendono, cercando di fare il loro piccolo mercato e tutto prima o poi,
trascinato da una corrente inarrestabile di caso e di intenzione insieme,
finirà lì su quei banchi.
In un certo senso finiamo tutti lì.
Porta Portese: ultima fermata.
Questi erano i pensieri, le riflessioni di Q. Avevano qualcosa di dolce
e qualcosa di agro. Gli oggetti, le cose, sono come il selciato su cui cammina
la nostra vita, di noi illuminano angoli altrimenti non rivelati, capricci,
qualità, gusti non solo estetici ma dello spirito come pure tic e manie; dicono
senza parlare, parlano lasciando intuire. Gli oggetti vivono la nostra vita,
l’assorbono nella loro materia, la respirano e la trattengono e ne condensano
l’essenza.
Per questo la dispersione delle nostre cose è la dispersione della nostra
stessa vita e non si disperdono le membra di un corpo senza malinconia. Il
corrompersi della materia era sempre stato per Q. segno di continuità e permanenza,
segno di vita e non la spaventava.
Ma le sarebbe piaciuto che
assieme al corpo senza vita trovassero riposo nella terra gli oggetti, almeno i
più cari, appartenuti al vivo, che restassero come prova della loro dignità e della
loro fratellanza.
Questa punta di agro era però stemperata
dal pensiero del reimpiego. Il reimpiego la confortava. Il riuso, una nuova
destinazione, l’invenzione di una utilizzazione diversa l’avevano sempre consolata
e commossa persino: il reimpiego era vita.
E come un fantasma incuriosito si aggirava tra banchi e banchetti e tra
gli oggetti esposti nella polvere e nel disordine; e guardava
alla sua vita attraverso i resti che ne sarebbero rimasti. Eccoli lì: la sua vecchia racchetta,
la chitarra nel suo fodero, le lane colorate, le scarpette da tip tap; e le
sembrava quasi di vederli passare di mano, scrutava il luccichio di interesse
negli occhi degli avventori e assisteva a vivaci contrattazioni attorno alla
serie di barattoli di alluminio una volta di sua madre -ma che ricordava di
aver visto nella cucina di sua nonna- o intorno alla sua vecchia borsa in cuoio
degli anni settanta.
Ogni tanto avvertiva una stretta al cuore e stringeva più
forte la mano del marito. Accadeva quando le sembrava di riconoscere i suoi
libri, perché i suoi libri erano gran parte di lei e la lei che era stata e che
voleva tornare ad essere era nei suoi libri. Nei libri a quel tempo Q. aveva cercato se stessa, i libri le riconsegnavano al mattino le
prime tracce della sua identità. Loro erano i suoi testimoni e i suoi garanti.
Poi l’attimo di smarrimento passava e in lei tornava a farsi sentire la
speranza, anzi la fede, nella persistenza e nella rielaborazione e
trasformazione di qualunque esistente. Q. si sentì ancora pronta a giocare il gioco degli atomoi di
Democrito che mai le aveva fatto paura e che a quel tempo in alcuni momenti le era capitato di percepire quasi
fisicamente.
Così,
dopo quell'attimo di resistenza a cedere “la roba” come un qualsiasi Mazzarò, accettò
senza turbamento il fatto innegabile che lì non c’erano solo le tante storie
che le piaceva inventare e raccontare, c’era anche la sua storia. Gli atomi
sono atomi- si disse -i miei e quelli dei miei dischi, quelli della mia gatta e
quelli dello specchio della mia stanza, legno o carne, ferro o plastica, tutto,
ma proprio tutto si riaggregherà.
Questa idea bussò alla sua coscienza e vi suscitò una nuova
curiosità. Chissà che forme
avrebbe preso la sua vecchia giacca di pelle, chissà come si sarebbe
trasformata la racchetta da squash, chissà con quali altri atomi, provenienti
da chissà chi e dove, si sarebbero mischiati i suoi, chissà come sarebbe stata
la loro nuova vita.
E tra sé e sé
dovette convenire: sì, Porta Portese era
quanto di più vicino alla dottrina democritea lei potesse immaginare.
Sia consentito un piccolo suggerimento da parte di chi scrive: se
Democrito vi fa paura lasciate stare Porta Portese, non fa per voi.
(Continua-15)