A ridosso-di-quel tempo Qualcuno metteva alla prova se stessa e la machina scaenica
Quando a ridosso di quel tempo le ore e i giorni di sollievo presero a farsi più
frequenti Q. non osò avanzare ipotesi mentre osservava con circospezione il
comportamento della machina scaenica.
Questa assunse un understatement-style: sfoltì le sue prestazioni e pur non
cessando di offrire a Q. la sua festa
barocca, quasi svogliatamente la allestiva in economia.
Ogni tanto infatti
rinunciava al frullatore di organi,
al rumore di fondo, all’ all-black e restituì a Q. la sua voce e
la sua capacità uditiva. Anche lo squalo
e il grave smisero di abitare il
corpo di Q.
Ma il verdetto, no;
quello Q. lo ritrovava davanti a sé appena riemergeva dal sonno ogni
mattino, con le sue tre definitive parole: sono
ancora qui; anche l’accelerazione
canina del respiro e la decelerazione
agonica del cuore continuarono a danzare il loro paso doble, l’osso
continuò a ostruirle la gola quando inghiottiva farmaci, acqua e persino aria e
il soffoco non smise di farla sentire
prigioniera ovunque una porta si chiudesse alle sue spalle; intanto il masso dal canto suo riposava ancora sul
suo petto. In compenso Q. precipitava poco e comunque non fino agli antipodi;
talvolta il mondo si offuscava, sì, giusto un colpo di bemolle, ma poi tornava a prendere consistenza.
Insomma, l’iper-realtà e l’ir-realtà in cui Q. viveva da anni sembravano
disposte a lasciare un po’ di spazio alla semplice, banale realtà. Il divorzio
non consensuale da se stessa sembrava essersi avviato verso un accordo bonario:
forse Q. poteva smettere di pagare i salati alimenti che da sette anni
consegnava alla DEP & DAP o almeno ridurli.
Si annunciava una ritirata del nemico? O era un diversivo strategico e il galop si preparava a sferrarle un
attacco massiccio e definitivo, imprimendo alla danza un ritmo da derviscio? Q.
non lo sapeva, né se lo chiedeva. Ma incoraggiata dal suo più fedele alleato, il coniuge, e dal Professore, cautamente prese a fare piccoli esperimenti, brevi
sortite per vedere fin dove poteva spingersi senza che l’inghiottitoio facesse di lei un unico boccone.
Per prima cosa Q. tentò di riappropriarsi dello spazio e del movimento.
Questa era stata la dimensione distintiva del padre che gliel’aveva trasmessa ma che morendo l’aveva portata via con sé. In quei giorni Q. ne tentò la
riconquista.
Come primo passo riconquistò il terrazzo. Riprese a compiervi senza più angoscia
i lavori una volta usuali: il cielo spalancato sopra di lei non la minacciava
più e lei potava, annaffiava, toglieva foglie secche, concimava. Da sola, senza
che lo squalo la incalzasse. E senza
che il grave le chiedesse di essere
gettato giù.
Il ridosso si prolungava e Q. si
sottoponeva a nuove prove. Nella scelta degli spazi da riconquistare le venne
spontaneo rivolgersi ai chiostri, luoghi che aveva sempre amato e frequentato,
dove era sempre stata bene. Dove il suo spirito si riposava. Dove si sentiva
accolta e compresa. E ai chiostri, spazi liberi sotto il cielo, Q. tornò.
Q. non era cristiana. Non apparteneva a nessuna religione, ma il chiostro
delle chiese, invenzione materiale e spirituale, sempre l’aveva toccata nel
profondo e ora, a ridosso di quel tempo, offrì a Q. il sollievo di
cui aveva bisogno. Nel chiostro trovò la misura ideale per contenerla senza
imprigionarla.
Un chiostro è un luogo chiuso, il suo nome lo dice, ma nello stesso
tempo non lo è. È un luogo raccolto ma aperto sotto il cielo. Prende sole,
vento, pioggia, freddo, umido, vapori di nebbia, luce rovente. Il chiostro
accoglie tutto quello che il cielo manda. Sta lì, aperto e tranquillo. Anche Q.
prendeva tutto quello che il cielo del suo male mandava. Tranquilla no, non lo
era più stata. Il caos non concede tranquillità, ma se Q. era un anacoluto, era
un anacoluto senza ribellioni.
I chiostri che Q. tornò a visitare erano spesso circondati da autentici
capolavori di scultura. Colonne di meravigliosa fattura, parapetti intarsiati
che raccontavano storie, marmi multicolori o antichi mattoni rosati. Spesso
tutto intorno al chiostro, murate sotto i portici, c’erano epigrafi funebri:
santi, bambini, antichi romani, artigiani, martiri cristiani, donne morte di
parto, vecchi monaci, nobili del seicento, tutta un’umanità che si affacciava
dalla distanza di secoli e se ne stava lì, raccolta, muta e serena.
Q. decifrava le epigrafi in latino, contava gli anni di vita, studiava i
bassorilievi, quei volti sereni esposti nudi agli sguardi di chi passava: morti
che non facevano paura e non ne avevano, Q. lo sapeva.
Erano al sicuro sotto
l’ombra fresca e guardavano verso il centro luminoso del chiostro. Lì fontane a
getto o fontanelle, aiuole, alberi o un semplice prato. Sempre comunque un
elemento naturale. Per questo soprattutto Q. amava il chiostro, perché è una
costruzione architettonica ma è anche natura. Il chiostro è fatto di terra,
cielo, acqua e erba.
Nella città
di Q. ci sono chiostri di una bellezza assoluta, preziosa, storica. E piccoli
chiostri nascosti. Lei tornò a frequentarli. Dove erano interdetti ai
visitatori, Q. pregava il frate, il parroco, il chierichetto di turno. L’accolsero
sempre. Nessuno mai le disse di no. Forse sentivano che il suo spirito cercava lì
qualche forma di pace e non gliela negarono.
Nei chiostri più famosi, affollati di visitatori, il soffoco opprimeva Q. e lei aspettava che la gente sciamasse via
e che tornasse il silenzio. Allora, in quel silenzio, l’ansia di Q. si placava.
Il chiostro ha un silenzio di una qualità diversa da tutti gli altri. Un
silenzio che non è mai muto. A Q. sembrava di sentire i passi leggeri dei
frati, delle suore, dei bambini, delle ragazze madri che avevano sostato in
quello spazio sereno. Qualche risata vi era rimasta impigliata e voci basse di
religiosi che ripetevano torno torno le loro preghiere.
Nella
primavera del ridosso sui chiostri
passavano talvolta le rondini. Quelle rondini non gridavano più minacciose
verso Q. e lei non ne aveva paura. Talvolta dal campanile suonavano le ore.
Anche se non suonavano lei poteva sentirle, come tante volte le aveva
ascoltate. Ascoltava le campane e il mormorio del tempo. -Forse il tempo scorre
ancora, si diceva, forse anche per me-. In quello spazio anche lei poteva
riprendere un cammino.
Del chiostro non le interessava la storia, l’importanza artistica. Un
chiostro era sempre stato per lei un luogo a-storico. Un luogo perenne. Fisico
e metafisico. Le interessava solo la qualità del tempo e la qualità dello spazio.
Si sentiva sull’orlo di quel tempo e tremava.
E respirava quello spazio così diverso da tutte le costruzioni spaziali che
l’uomo ha inventato.
Uno spazio che parlava al
suo spirito. Raccogliti, sentiti respirare. Le diceva così il chiostro. E il suo
cuore batteva finalmente lento e costante e il suo respiro si faceva fondo e
tranquillo, il bemolle si dissolveva
e l’aria era nitida intorno a lei.
Q. desiderava sdraiarsi e starsene lì. Raccogliersi, sentirsi respirare.
Non potersi sdraiare era il suo solo rammarico, l’unico dispiacere che il
chiostro le dava. Si sedeva però su un gradino, su una balaustra o si
appoggiava a una colonna. Aveva bisogno di dare un po’ di abbandono al suo corpo,
mentre il suo spirito si abbandonava a quella innocenza. Perché il chiostro è innocente.
Sempre. Le storie terribili che può aver visto, sentito, conosciuto, non lo
riguardano e non lo contaminano. Un chiostro è come una preghiera. Ha una sua
sincerità.
Anche le visite di Q. ai
chiostri erano preghiere. Pregava la vita, perché le restituisse se stessa, pregava
il cielo perché tornasse ad esserle amico, pregava il sole perché non si
offuscasse più per lei e la terra perché non tremasse e non la inghiottisse. E
pregava gli assenti. Quel padre che l’aveva portata lì, dopo averla gettata in quel tempo oscuro. E toccava gli alberi -tronchi,
rami, foglie- li spettinava un po’. Toccava i bassorilievi, sfiorava le piccole
statue, le colonne, le pareti calde o umide, accarezzava le lapidi incise. Toccava.
Girava intorno, guardava, sorrideva-sorrideva sì- e ascoltava e si ascoltava. L’Altra non taceva, la sua voce era
sempre lì, ma Q. non ne era turbata. Q. stava bene nel chiostro e l’Altra glielo confermava. Q. era in un dentro
e era in un fuori. Era al chiuso e all’aperto. Era. E forse poteva dire io.
(Continua/14)
(Continua/14)
bellissimo, e uno dei pezzi scritti meglio, specialmente tutta la prima parte (perfetta), prima del chiostro, che pure è bello ma meno perfetto, per così dire.
RispondiEliminaSì, è vero, si sente che il respiro è tornato leggero e va da solo, libero e fluente.
RispondiEliminaQuando questo succede a chi è passato nella pesantezza angosciante e avvolgente di giornate buie dove non si riesce a trovare alcun appiglio a cui aggrapparsi, è la felicità allo stato puro e si riesce a godere di ogni piccola cosa intorno finalmente con leggerezza e senso di serenità.
Hai descritto molto bene tutto questo
A presto
Adele
Ho anch'io un chiostro nascosto, non è un monastero e non ha colonnati, ma un nome si. Chiama hortus conclusus ed ha una suo antica storia. E' un "giardino dello spirito" che ha come caratteristica quella di avere un altissimo muro di pietra o vegetale che lo divide dal resto del mondo. Qui c'è un altro o ritrovato ordine della natura e non può mancare la fontana. La fontana è sempre fonte di ritrovata giovinezza che pare dei corpi martoriati dal tempo, ma che è in realtà la ritrovata giovinezza dell'anima.
RispondiEliminaGrazie Adele, mi sento più leggera anche a scrivere
RispondiEliminaGiardino dello spirito è un'espressione bellissima. L'acqua ha esercitato sempre fascino su di me; quella che scorre ma anche quella tranquilla e raccolta.
RispondiEliminaciao, marina
@blonde la scrittura mi lascia sempre scontenta. Se l'energia mi assiste rivedrò proprio tutto...
RispondiEliminaScusa gli errori, ma ci vedo poco e devo decidermi a cambiare occhiali...
RispondiElimina