giovedì 23 gennaio 2014

DEP & DAP LEXICON /14

Capitolo Otto

A ridosso-di-quel tempo Qualcuno metteva alla prova se stessa e la machina scaenica  


Quando a ridosso di quel tempo le ore e i giorni di sollievo presero a farsi più frequenti Q. non osò avanzare ipotesi mentre osservava con circospezione il comportamento della machina scaenica. Questa assunse un understatement-style: sfoltì le sue prestazioni e pur non cessando di offrire a Q. la sua festa barocca, quasi svogliatamente la allestiva in economia.
                  Ogni tanto infatti rinunciava al frullatore di organi, al rumore di fondo, all’ all-black e restituì a Q. la sua voce e la sua capacità uditiva. Anche lo squalo e il grave smisero di abitare il corpo di Q.
Ma il verdetto, no;  quello Q. lo ritrovava davanti a sé appena riemergeva dal sonno ogni mattino, con le sue tre definitive parole: sono ancora qui; anche l’accelerazione canina del respiro e la decelerazione agonica del cuore continuarono a danzare il loro paso doble, l’osso continuò a ostruirle la gola quando inghiottiva farmaci, acqua e persino aria e il soffoco non smise di farla sentire prigioniera ovunque una porta si chiudesse alle sue spalle; intanto il masso dal canto suo riposava ancora sul suo petto. In compenso Q. precipitava poco e comunque non fino agli antipodi; talvolta il mondo si offuscava, sì, giusto un colpo di bemolle, ma poi tornava a prendere consistenza.
                 Insomma, l’iper-realtà e l’ir-realtà in cui Q. viveva da anni sembravano disposte a lasciare un po’ di spazio alla semplice, banale realtà. Il divorzio non consensuale da se stessa sembrava essersi avviato verso un accordo bonario: forse Q. poteva smettere di pagare i salati alimenti che da sette anni consegnava alla DEP & DAP o almeno ridurli.
                   Si annunciava una ritirata del nemico? O era un diversivo strategico e il galop si preparava a sferrarle un attacco massiccio e definitivo, imprimendo alla danza un ritmo da derviscio? Q. non lo sapeva, né se lo chiedeva. Ma incoraggiata dal suo più fedele alleato, il coniuge, e dal Professore, cautamente prese a fare piccoli esperimenti, brevi sortite per vedere fin dove poteva spingersi senza che l’inghiottitoio facesse di lei un unico boccone.
                 Per prima cosa Q. tentò di riappropriarsi dello spazio e del movimento. Questa era stata la dimensione distintiva del padre che gliel’aveva trasmessa ma che morendo l’aveva portata via con sé. In quei giorni Q. ne tentò la riconquista.
              Come primo passo riconquistò il terrazzo. Riprese a compiervi senza più angoscia i lavori una volta usuali: il cielo spalancato sopra di lei non la minacciava più e lei potava, annaffiava, toglieva foglie secche, concimava. Da sola, senza che lo squalo la incalzasse. E senza che il grave le chiedesse di essere gettato giù.
                 Il ridosso si prolungava e Q. si sottoponeva a nuove prove. Nella scelta degli spazi da riconquistare le venne spontaneo rivolgersi ai chiostri, luoghi che aveva sempre amato e frequentato, dove era sempre stata bene. Dove il suo spirito si riposava. Dove si sentiva accolta e compresa. E ai chiostri, spazi liberi sotto il cielo, Q. tornò.
                Q. non era cristiana. Non apparteneva a nessuna religione, ma il chiostro delle chiese, invenzione materiale e spirituale, sempre l’aveva toccata nel profondo e ora, a ridosso di quel tempo, offrì a Q. il sollievo di cui aveva bisogno. Nel chiostro trovò la misura ideale per contenerla senza imprigionarla.
                         Un chiostro è un luogo chiuso, il suo nome lo dice, ma nello stesso tempo non lo è. È un luogo raccolto ma aperto sotto il cielo. Prende sole, vento, pioggia, freddo, umido, vapori di nebbia, luce rovente. Il chiostro accoglie tutto quello che il cielo manda. Sta lì, aperto e tranquillo. Anche Q. prendeva tutto quello che il cielo del suo male mandava. Tranquilla no, non lo era più stata. Il caos non concede tranquillità, ma se Q. era un anacoluto, era un anacoluto senza ribellioni.
                       I chiostri che Q. tornò a visitare erano spesso circondati da autentici capolavori di scultura. Colonne di meravigliosa fattura, parapetti intarsiati che raccontavano storie, marmi multicolori o antichi mattoni rosati. Spesso tutto intorno al chiostro, murate sotto i portici, c’erano epigrafi funebri: santi, bambini, antichi romani, artigiani, martiri cristiani, donne morte di parto, vecchi monaci, nobili del seicento, tutta un’umanità che si affacciava dalla distanza di secoli e se ne stava lì, raccolta, muta e serena.
                        Q. decifrava le epigrafi in latino, contava gli anni di vita, studiava i bassorilievi, quei volti sereni esposti nudi agli sguardi di chi passava: morti che non facevano paura e non ne avevano, Q. lo sapeva.
Erano al sicuro sotto l’ombra fresca e guardavano verso il centro luminoso del chiostro. Lì fontane a getto o fontanelle, aiuole, alberi o un semplice prato. Sempre comunque un elemento naturale. Per questo soprattutto Q. amava il chiostro, perché è una costruzione architettonica ma è anche natura. Il chiostro è fatto di terra, cielo, acqua e erba.
          Nella città di Q. ci sono chiostri di una bellezza assoluta, preziosa, storica. E piccoli chiostri nascosti. Lei tornò a frequentarli. Dove erano interdetti ai visitatori, Q. pregava il frate, il parroco, il chierichetto di turno. L’accolsero sempre. Nessuno mai le disse di no. Forse sentivano che il suo spirito cercava lì qualche forma di pace e non gliela negarono.
                  Nei chiostri più famosi, affollati di visitatori, il soffoco opprimeva Q. e lei aspettava che la gente sciamasse via e che tornasse il silenzio. Allora, in quel silenzio, l’ansia di Q. si placava. Il chiostro ha un silenzio di una qualità diversa da tutti gli altri. Un silenzio che non è mai muto. A Q. sembrava di sentire i passi leggeri dei frati, delle suore, dei bambini, delle ragazze madri che avevano sostato in quello spazio sereno. Qualche risata vi era rimasta impigliata e voci basse di religiosi che ripetevano torno torno le loro preghiere.       
                         Nella primavera del ridosso sui chiostri passavano talvolta le rondini. Quelle rondini non gridavano più minacciose verso Q. e lei non ne aveva paura. Talvolta dal campanile suonavano le ore. Anche se non suonavano lei poteva sentirle, come tante volte le aveva ascoltate. Ascoltava le campane e il mormorio del tempo. -Forse il tempo scorre ancora, si diceva, forse anche per me-. In quello spazio anche lei poteva riprendere un cammino.
                          Del chiostro non le interessava la storia, l’importanza artistica. Un chiostro era sempre stato per lei un luogo a-storico. Un luogo perenne. Fisico e metafisico. Le interessava solo la qualità del tempo e la qualità dello spazio. Si sentiva sull’orlo di quel tempo e tremava. E respirava quello spazio così diverso da tutte le costruzioni spaziali che l’uomo ha inventato.
Uno spazio che parlava al suo spirito. Raccogliti, sentiti respirare. Le diceva così il chiostro. E il suo cuore batteva finalmente lento e costante e il suo respiro si faceva fondo e tranquillo, il bemolle si dissolveva e l’aria era nitida intorno a lei.
                             Q. desiderava sdraiarsi e starsene lì. Raccogliersi, sentirsi respirare. Non potersi sdraiare era il suo solo rammarico, l’unico dispiacere che il chiostro le dava. Si sedeva però su un gradino, su una balaustra o si appoggiava a una colonna. Aveva bisogno di dare un po’ di abbandono al suo corpo, mentre il suo spirito si abbandonava a quella innocenza. Perché il chiostro è innocente. Sempre. Le storie terribili che può aver visto, sentito, conosciuto, non lo riguardano e non lo contaminano. Un chiostro è come una preghiera. Ha una sua sincerità.

                          Anche le  visite di Q. ai chiostri erano preghiere. Pregava la vita, perché le restituisse se stessa, pregava il cielo perché tornasse ad esserle amico, pregava il sole perché non si offuscasse più per lei e la terra perché non tremasse e non la inghiottisse. E pregava gli assenti. Quel padre che l’aveva portata lì, dopo averla gettata in quel tempo oscuro. E toccava gli alberi -tronchi, rami, foglie- li spettinava un po’. Toccava i bassorilievi, sfiorava le piccole statue, le colonne, le pareti calde o umide, accarezzava le lapidi incise. Toccava. Girava intorno, guardava, sorrideva-sorrideva sì- e ascoltava e si ascoltava. L’Altra non taceva, la sua voce era sempre lì, ma Q. non ne era turbata. Q. stava bene nel chiostro e l’Altra glielo confermava. Q. era in un dentro e era in un fuori. Era al chiuso e all’aperto. Era. E forse poteva dire io.
(Continua/14)

7 commenti:

  1. bellissimo, e uno dei pezzi scritti meglio, specialmente tutta la prima parte (perfetta), prima del chiostro, che pure è bello ma meno perfetto, per così dire.

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  2. Sì, è vero, si sente che il respiro è tornato leggero e va da solo, libero e fluente.
    Quando questo succede a chi è passato nella pesantezza angosciante e avvolgente di giornate buie dove non si riesce a trovare alcun appiglio a cui aggrapparsi, è la felicità allo stato puro e si riesce a godere di ogni piccola cosa intorno finalmente con leggerezza e senso di serenità.
    Hai descritto molto bene tutto questo
    A presto
    Adele

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  3. Ho anch'io un chiostro nascosto, non è un monastero e non ha colonnati, ma un nome si. Chiama hortus conclusus ed ha una suo antica storia. E' un "giardino dello spirito" che ha come caratteristica quella di avere un altissimo muro di pietra o vegetale che lo divide dal resto del mondo. Qui c'è un altro o ritrovato ordine della natura e non può mancare la fontana. La fontana è sempre fonte di ritrovata giovinezza che pare dei corpi martoriati dal tempo, ma che è in realtà la ritrovata giovinezza dell'anima.

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  4. Grazie Adele, mi sento più leggera anche a scrivere

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  5. Giardino dello spirito è un'espressione bellissima. L'acqua ha esercitato sempre fascino su di me; quella che scorre ma anche quella tranquilla e raccolta.
    ciao, marina

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  6. @blonde la scrittura mi lascia sempre scontenta. Se l'energia mi assiste rivedrò proprio tutto...

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  7. Scusa gli errori, ma ci vedo poco e devo decidermi a cambiare occhiali...

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