Durante un viaggio a Sri Lanka, verso le sei del pomeriggio arrivammo in un piccolo paese sulla costa: quattro case e l'oceano. Mentre gli amici che viaggiavano con me si riposavano sulla veranda della guest house io andai verso la spiaggia, attirata dalle onde sonore, dal rosso del sole colato sulle acque, dal fumo dei camini nell'aria. Tutto l'insieme trasmetteva la sensazione di una voglia spavalda di vivere e di approfittare di ogni istante. Mi tuffai in acqua sapendo, perché lo sapevo, che su quella costa quella era l'ora delle correnti, l'ora dei grandi risucchi, l'ora in cui la potenza dell'oceano indiano si mascherava di voluttà. Ma in quella sera ero così affamata di vita da esser pronta a giocarmela. Quando l'oceano mi risputò sulla spiaggia, dopo avermi sepolta, con divina indifferenza, più e più volte, più che grata per essere stata restituita alla vita, mi sentii pazzamente irresponsabile verso la figlia di dodici anni che avevo lasciato a casa. Raggiunsi i miei amici sulla veranda e bevvi la mia birra Cobra sentendo di non poter confessare a nessuno di aver messo a rischio la mia vita per l'impeto di un momento.
Ogni tanto, in questi giorni difficili, mi sento come quella sera sotto il braccio possente dell'oceano: sommersa e travolta e trascinata e soffocata. E aspiro a rivivere quell'attimo fatale in cui il mare mi risputò sulla terra e tornai a respirare l'aria della sera. Buttata sulla spiaggia mi riorientai nel mondo e nella vita. Io aspetto quel momento. So che l'oceano smorzerà pian piano la sua forza e ci sarà una spiaggia ad accogliermi. Ma il fatalismo non mi si addice. E ora come allora sto tentando di nuotare.