martedì 25 febbraio 2014

DEP & DAP LEXICON /17

Fu solo dopo mesi di piccoli esperimenti -quasi provocazioni che Q. lanciava alla sua malattia- mesi fatti di giorni di sollievo discontinui ma attestanti un arretramento del male oscuro, che Q., quasi di forza, scaraventò se stessa verso la più audace, ma anche la più desiderata prova: recarsi sull’isola di Ponza, per lei semplicemente l’isola. Ma prima di raggiungerla un intero planisfero di zone a rischio si stendeva di fronte a Q. Prima la bocca ingorda del GRA che segnalava il suo personale hic sunt leones, quindi cinquanta chilometri cinquanta tra lei e il porto di Anzio.
         Cinquanta chilometri di palpitazioni, di sudore freddo, di occhi sbarrati e voce soffocata. Cinquanta chilometri nel soffoco determinato dallo sportello chiuso dell’auto del coniuge che nel suo procedere tra le altre auto non poteva essere precipitosamente abbandonata da Q. in caso di allarme se non gettandosi tra e forse sotto gli altri veicoli.
             E tutto intorno lo spalancato, tutto quello spazio i cui edifici -  fabbrichette, case coloniche, officine- Q. neanche vedeva. Sapeva solo che oltre le villette a schiera, oltre i capannoni, si aprivano campi vuoti, un mondo senza confini, estraneo e minaccioso, in cui le sue membra avrebbero potuto disgregarsi.
                Quando Q. arrivò ad Anzio era stremata. Fu necessaria una lunga sosta e 1 mg. di benzodiazepine per imbarcarsi sull’aliscafo Anzio-Ponza e affrontare i settantacinque minuti della traversata. Il tavor fedele assolse il suo compito ma non è escluso che in quell’occasione un farmaco più potente agisse dentro Q.: il desiderio di veder infine stagliarsi contro il blu sterminato del cielo il profilo dell’isola, così noto e così amato e di sbarcare nel piccolo porto rosa, sul molo su cui aveva pensato di non poter mai più posar piede; tornare infine nella sua isola.
                 Q. sbarcò senza sapere che nella sua isola la machina scaenica avrebbe allestito per lei il suo più sontuoso spettacolo, superando se stessa: una splendida festa barocca, un bellissimo attacco di panico a ciel sereno.
Ma questo lo racconterò nella prossima puntata. (Continua-17)
            

venerdì 21 febbraio 2014

DEP & DAP LEXICON /16

                 Nel suo desiderio di sperimentarsi un giorno Q. decise di uscire dalla città. Se ne distaccò incerta, ansiosa, sforzandosi di ignorare il paso doble danzato da cuore e polmoni e sempre in compagnia dell’Altra che le parlava rassicurante.
-Tranquilla, stai tranquilla, respira, ecco vedi? L’aria arriva. Poca? Sì è poca ma basterà.
-Non c’è nessun all-black, se apri gli occhi te ne renderai conto.
-Su, stai andando in un luogo amico. Ce la farai; è un dono che ti fai.-
             Q. infatti tornava a chiedere udienza all’Imperatore Adriano, come un tempo faceva ogni anno, nella sua villa tiburtina.
Aveva sempre amato quel luogo perché vi respirava una fragranza speciale, quella del tempo e pensava che essere nata e vivere a Roma, malgrado i secoli e i millenni trascorsi, l’accomunava, sia pure in piccolissima parte, agli antichi abitatori e se ne sentiva concittadina; sentiva di essere romana in un modo diverso da quello più ovvio.                     Riconosceva la temerarietà, forse la stoltezza, di quel pensiero
ma non poteva del tutto ignorare che benché l’orbe avesse girato su se stesso quasi un milione di volte, qualcosa di uguale permaneva. Forse solo una vibrazione della luce, una sfumatura di colore al tramonto, qualche grido di uccello, il riverbero dei suoni nell’aria e il sentore che mandava la terra quando il vento d’Africa portava pioggia e sabbia.
             Poca cosa, forse. Ma non poi così poca per lei che viveva intensamente il tempo presente ma ne coglieva intera la profondità.
Del resto, vivendo, come viviamo, su un impasto di terra e morti, la scelta è fra due soli corni: lo sgomento o la reverenza. Lei aveva scelto la reverenza. E la gratitudine. E l’amicizia con il passato.
Questo dava profondità al suo presente.
                    A testimoniare quell’amicizia Q. si recava ogni anno alla villa adrianea che, ogni anno, la ripagava con la sua prodigiosa bellezza.
Ve la portava anche l’ammirazione per il grande imperatore, che era stato politico, viaggiatore e artista e che alla villa-città aveva dedicato il suo tempo e il suo studio.
         Quella mattina Q. sentiva ben presente nel suo spirito che quell’uomo aveva conosciuto il lutto, il dolore e il suo stesso male oscuro, il taedium vitae. Il grande Imperatore, l’uomo più potente della terra, era dovuto venire a patti con un nemico che nessuna legione poteva piegare e nessun trattato poteva convincere. L’uomo che soffre è il più regale degli uomini, questo pensava Q. e ora rendeva  omaggio a quell’uomo nella sua stessa casa. 
                  Era il primo mattino di una calda giornata estiva quando risalì il lungo viale di cipressi che porta allo sperone di colle su cui posano i resti maestosi della casa imperiale. Solo pochi e rispettosi visitatori si muovevano come lei, minuscole  figurine, sotto le volte immense, lungo i muri imponenti, sulle gradinate ormai sconnesse.
                Q. percorse i sentieri tra gli olivi e gli allori, camminò sul basalto vecchio di secoli, si specchiò nelle acque del bacino  del Canopo, quasi un lago dove cigni e anatre scivolavano lenti. Camminava commossa tra le rovine miti e serene, cercando le tracce della vita che vi si era svolta, un’eco degli spettacoli teatrali, delle conversazioni di filosofi e poeti, dei concerti, delle cerimonie religiose. Il silenzio della città imperiale li includeva, i muri scabri li rimandavano.
                  Era la voce della continuità, della morte che si prolunga nella vita: su quel colle ancora le viti offrivano la stessa uva pizzutella, poco lontano ancora si sentiva l’odore acre delle acquae albule, nelle campagne tutto intorno tra rovine sparse non ancora indagate da storici e archeologi, greggi di pecore brucavano le erbe cresciute sulle vie lastricate, sulle piazze una volta marmoree. Era un messaggio di vita ed era un messaggio di morte. Q. avvertiva  insieme l’impermanenza delle nostre vite e la permanenza della vita.
                  Tra le erbe che ormai coprivano i mosaici della Piazza d’oro osò chinarsi a raccogliere una piccolissima scheggia di lapis tiburtinus, il travertino locale, di un bianco tinto di grigio, scabro, poroso, un po’ tagliente sull’orlo: due cm. per tre di passato, ma anche di presente. Quel travertino nei secoli ha continuato ad abbellire la città di Roma, chiese, palazzi, piazze, colonnati, e ancora oggi è la materia di ville di audace post-modernità architettonica.
           Q. non si accorse neanche del suo respiro regolare, del silenzio dell’Altra, del suo stesso passo tranquillo. Non avrebbe saputo dire se fosse un dono del milligrammo di benzodiazepina preventivamente assunto per attraversare l’anello di fuoco del G.R.A. o della squisita ospitalità dell’Imperatore.
Quanta bellezza era andata perduta nei secoli, ma quanta ne sarebbe risorta? Questo era il pensiero che accompagnava Q. in quel vagare tra morte e vita, ospite del passato ma anche del futuro.

              Oggi la scheggia raccolta tra malva e erbe di campo, lavata e rilavata, spazzolata delicatamente, è sullo scrittoio di Q. come prova del suo piccolo misfatto, ma anche ricordo di quel giorno di ridosso in cui il male oscuro sembrò dimenticarsi di lei. Il lettore non gridi alla vittoria: non vengano pronunciate parole come risanamente o guarigione. Ma quel giorno e la sua traccia pietrosa nella storia di Q. sono come un punto luminoso, un piccolo nucleo di speranza.
(Continua-16)

venerdì 7 febbraio 2014

DEP & DAP LEXICON /15

              Nel ridosso di quel tempo altri luoghi aperti sotto il cielo medicavano lo spirito stanco di Q., ritempravano quelle forze stremate dalla fatica psichica che durava da anni. Riprese l’esplorazione della sua città, che un tempo conduceva infaticabilmente per coglierne anche la più minuta bellezza. Le strade tornarono ad aprirsi davanti a lei, riscoprì i vicoli, le piazze, il lungofiume.
                    Una mattina Q. si spinse fino alla porta secentesca una volta a ridosso del porto fluviale della città, la Ripa Grande, e che ora dà accesso al grande mercato dell’usato, Porta Portese,  aprendosi su vie, viali, piazze e piazzette che ogni domenica sono invase da camioncini, furgoni, carri e carretti da cui vengono scaricate ed esposte merci di ogni tipo, natura e origine: in terra -su piani di legno, marciapiedi, muretti, tavoli traballanti; o sospesi -agganciati a corde tese tra due alberi o ad appendiabiti di fortuna.
             Vi si trova di tutto: mobili di ogni stile - tavoli, sedie, poltrone, credenze, madie, comò, librerie- pellicce smangiate, vecchi vestiti da sposa, quadri, servizi di piatti, chiavi di ferro, piante vere e finte, ombrelli, attaccapanni, fantasiosa bigiotteria, gioielli veri, tute mimetiche, abiti da sera... Vimine, bachelite, cotone, pelle, rame, porcellana, carta, vetro, ferro, lana, argento, oro, plastica, legno, nylon, ottone, non c’è materiale che manchi. Qui i visitatori si aggirano in cerca di curiosità, di affari o di un modo diverso di passare la domenica mattina, talvolta desiderosi solo di mischiarsi alla folla per sfuggire alla solitudine.
              Q. arrivò presto prima che il mercato divenisse troppo affollato, percorso da quasi impenetrabili flussi di persone, così gremito da rallentare la sua fuga in caso di necessità.
              Le era sempre piaciuto gironzolare in cerca delle meraviglie nascoste tra cianfrusaglie e ciarpami e studiare facce, gesti e voci; lasciarsi affascinare da quella concentrazione di vita pulsante, da quella gente di tutte le intenzioni che le scorreva a lato e negli anni vi aveva acquistato sedie, scialli, bottiglie, libri, vestiti, orecchini, improbabili antichità e persino un arcolaio. Ma Porta Portese era per lei anche un palcoscenico su cui la vita metteva in scena se stessa, un luogo ad alta densità di storie, da intuire –grazie a uno scambio di battute colte al volo, a uno sguardo, a un gesto- o da inventare.
                   Quella mattina Q. guardò Porta Portese con uno sguardo diverso, la vide in quella che le apparve come la sua vera natura: un grande cimitero degli elefanti dove prima o poi finiscono i resti delle vite di tutti noi, un grande mercato crudele o pietoso, che tutto ingoia e tutto restituisce, ingurgita vite e rigurgita morte.
                  Q. e il marito all’inizio bighellonarono, lasciandosi guidare dal flusso della gente e attirare qua e là dagli oggetti su cui si posava il loro sguardo e fecero  scoperte divertenti: -quel termos là di bakelite rossa, ne avevamo uno uguale, ricordi? guarda, la stessa radio di tua madre, guarda, sembra proprio la tua vecchia macchina fotografica subacquea...
         Scoperte divertenti all’inizio, poi cominciò a farsi strada in Q. la sensazione sempre più intensa che gli oggetti sui banchi, esposti allo sguardo valutativo degli altri e così simili ai suoi, fossero proprio i suoi, giunti fin là per vie che lei ignorava.
             A ridosso di quel tempo mentre sperimentava se stessa, Q.  repertoriava le morti ed ecco che lì davanti a sé in quel brulicare di vita, riconobbe uno dei volti della morte.
                 Prese ad osservare quei vivi vocianti e discordi, li vide agitarsi e smaniare al cospetto della morte, sciorinata senza pudore eppure invisibile ai più che volevano anzi comprarla e portarsene un pezzo a casa senza riconoscerla. Su quei banchi si esibivano vite, ma si esibivano anche morti. Non era una fantasia improbabile, era la constatazione pacifica di un destino che le apparve di tutti ed anche suo. E le storie che si potevano intuire da tutti quegli oggetti, erano in definitiva una sola storia.
            Su quei banchi traballanti non erano esposti solo oggetti appartenuti ad eredi senza cuore o senza memoria, a nipoti venali, a figli spregiudicati, a sorelle vendicative, o a donne e uomini bisognosi di un piccolo guadagno, costretti a vendere una vecchia pelliccia o il servizio buono di bicchieri.
              No, la più accurata e affettuosa conservazione degli effetti personali di un morto, lascia sempre qualche scoria, qualche cosa che ci si rigira tra le mani perplessi, di cui ci si chiede- che cos’è? o -che ne facciamo?- qualcosa magari in troppo cattivo stato per ripararla o in troppo buono per gettarla e che quindi si regala a qualcuno meno fortunato; o qualcosa che invece si getta, benché a malincuore, perché lo spazio nella nostre case è ristretto, colme come sono dell’inutile e dell’effimero accumulato lungo le nostre vite; e non tutto si riesce a salvare, a conservare. 
             E dove finiranno tutti quegli oggetti?
La vestaglia donata ad una portiera, la portiera la conserverà per la vita? la batteria di vecchie pentole che una “badante” rumena ha ricevuto in regalo, andando meglio le cose per lei, non prenderà un giorno la strada del vecchio mercato sempre affamato? Le scarpe e i vestiti non riutilizzabili, tarlati ormai o non più indossabili per motivi di taglia e appesi nell’armadio di una vecchia cantina, i nipoti li conserveranno?
                   O non affideranno a qualcuno il compito di vuotare la cantina? e quel qualcuno, non salverà forse quello che ancora avrà un valore mercantile? non lo esporrà appeso ad una bancarella, tentando di nobilitarlo, mentre tutto il resto lo ammucchierà disordinatamente su un marciapiede?
                 Neanche gettare nei cassonetti garantisce i nostri oggetti dal finire su quel marciapiede; oggi nei cassonetti è un continuo frugare da parte di persone che hanno troppo poco e troppo bisogno, persone che un po’ usano e un po’ vendono, cercando di fare il loro piccolo mercato e tutto prima o poi, trascinato da una corrente inarrestabile di caso e di intenzione insieme, finirà lì su quei banchi.
 In un certo senso finiamo tutti lì. Porta Portese: ultima fermata.
              Questi erano i pensieri, le riflessioni di Q. Avevano qualcosa di dolce e qualcosa di agro. Gli oggetti, le cose, sono come il selciato su cui cammina la nostra vita, di noi illuminano angoli altrimenti non rivelati, capricci, qualità, gusti non solo estetici ma dello spirito come pure tic e manie; dicono senza parlare, parlano lasciando intuire. Gli oggetti vivono la nostra vita, l’assorbono nella loro materia, la respirano e la trattengono e ne condensano l’essenza.
                 Per questo la dispersione delle nostre cose è la dispersione della nostra stessa vita e non si disperdono le membra di un corpo senza malinconia. Il corrompersi della materia era sempre stato per Q. segno di continuità e permanenza, segno di vita e non la spaventava.
Ma le sarebbe piaciuto che assieme al corpo senza vita trovassero riposo nella terra gli oggetti, almeno i più cari, appartenuti al vivo, che restassero come prova della loro dignità e della loro fratellanza.
               Questa punta di agro era però stemperata dal pensiero del reimpiego. Il reimpiego la confortava. Il riuso, una nuova destinazione, l’invenzione di una utilizzazione diversa l’avevano sempre consolata e commossa persino: il reimpiego era vita.
              E come un fantasma incuriosito si aggirava tra banchi e banchetti e tra gli oggetti esposti nella polvere e nel disordine; e guardava alla sua vita attraverso i resti che ne sarebbero rimasti. Eccoli lì: la sua vecchia racchetta, la chitarra nel suo fodero, le lane colorate, le scarpette da tip tap; e le sembrava quasi di vederli passare di mano, scrutava il luccichio di interesse negli occhi degli avventori e assisteva a vivaci contrattazioni attorno alla serie di barattoli di alluminio una volta di sua madre -ma che ricordava di aver visto nella cucina di sua nonna- o intorno alla sua vecchia borsa in cuoio degli anni settanta. 
         Ogni tanto avvertiva una stretta al cuore e stringeva più forte la mano del marito. Accadeva quando le sembrava di riconoscere i suoi libri, perché i suoi libri erano gran parte di lei e la lei che era stata e che voleva tornare ad essere era nei suoi libri. Nei libri a quel tempo Q. aveva cercato se stessa, i libri le riconsegnavano al mattino le prime tracce della sua identità. Loro erano i suoi testimoni e i suoi garanti.
                Poi l’attimo di smarrimento passava e in lei tornava a farsi sentire la speranza, anzi la fede, nella persistenza e nella rielaborazione e trasformazione di qualunque esistente. Q. si sentì ancora pronta  a giocare il gioco degli atomoi di Democrito che mai le aveva fatto paura e che a quel tempo in alcuni momenti le era capitato di percepire quasi fisicamente.
Così, dopo quell'attimo di resistenza a cedere “la roba” come un qualsiasi Mazzarò, accettò senza turbamento il fatto innegabile che lì non c’erano solo le tante storie che le piaceva inventare e raccontare, c’era anche la sua storia. Gli atomi sono atomi- si disse -i miei e quelli dei miei dischi, quelli della mia gatta e quelli dello specchio della mia stanza, legno o carne, ferro o plastica, tutto, ma proprio tutto si riaggregherà.
               Questa idea bussò alla sua coscienza e vi suscitò una nuova curiosità.  Chissà che forme avrebbe preso la sua vecchia giacca di pelle, chissà come si sarebbe trasformata la racchetta da squash, chissà con quali altri atomi, provenienti da chissà chi e dove, si sarebbero mischiati i suoi, chissà come sarebbe stata la loro nuova vita.
      E tra sé e sé dovette convenire: sì, Porta Portese era  quanto di più vicino alla dottrina democritea lei potesse immaginare.


Sia consentito un piccolo suggerimento da parte di chi scrive: se Democrito vi fa paura lasciate stare Porta Portese, non fa per voi.
(Continua-15)