domenica 28 dicembre 2014

ma gli anni esistono?

Auguri per l'anno che viene a chiunque passi di qui, per caso o intenzionalmente, anche se a un tempo scandito per tutti nello stesso momento non credo. 
Ognuno ha le proprie scansioni, del tutto intime. 
Qualcuno riesce addirittura a sentire il continuum del tempo.

venerdì 26 dicembre 2014

nell'attesa...

Aspetto con impazienza una nuova raccolta di Claudio Damiani- Ma il poeta ancora tace. Così, spesso lo rileggo.


Se siamo così tanti
vuol dire che non c’è morte
perché non possiamo morire così in tanti,
se le galassie sono così tante
se tra viventi e non viventi non c’è poi tanta
differenza, e se dovunque è il vivente
come dovunque è l’idrogeno
e se la plastica che abbiamo inventato
in qualche mondo è in natura,
se ciò che facciamo non è artificiale
ma imitazione della natura,
natura stessa perché noi siamo natura,
parte di lei, messi da lei
a creare esseri artificiali
sotto il suo comando,
allora la morte ha poco da dire
e insieme tantissimo, è qualcosa che ci appartiene
e non ci è estranea
qualcosa che ci accomuna, e ci riunisce,
qualcosa di bello, che adesso ci fa paura
ma quando arriverà sarà un’esperienza grande
più grande della nascita, più grande dell’amore
e saremo contenti di poterla vivere insieme.


e ancora

"Dal mio piccolo punto di vista
vedo l’universo. Un rettangolino.
Il mio terrazzo. E’ la notte di maggio calda
e fresca, una brezza mite spira
che mi rinfresca della giornata afosa.
L’universo non credo sia diverso
dal nostro mondo: dopo tanto pensare,
tanto meditare sono convinto non solo
che quel che sta sulla terra sta un po’ dovunque nel cielo
ma anche che quello che sta nel cielo
sta un po’ qua e là sulla terra.
Allora dico: non ci immaginiamo cose tanto strane
ma guardiamo quello che ci sta vicino,
lasciamoci ferire dalla sua bellezza
e nella sua sapienza riposiamo il cuore."


(ma io so che non guarderò mai più il mare)


giovedì 25 dicembre 2014

solo un haiku e... mezzo haiku

Mi dispiace per me
mi dispiace per te
e per qualcuno che non conosco
di Abbas Kiarostami

e un mio piccolo
pseudo haiku

Apre un libro
legge una poesia
la ricetta del giorno
m.p.



martedì 18 novembre 2014

accettare

E poi vengono i giorni in cui preferisci chiamare velleità i piccoli talenti che non hai saputo difendere dalle circostanze. O da te stessa.

venerdì 19 settembre 2014

Che cosa ho imparato/che cosa sto imparando/leggere

Riprendo a scrivere senza nessun ordine cronologico della mia esperienza di apprendimento sul lutto.

I libri sono sempre stati per me -oltre a una delle mie più grandi passioni- una delle vie attraverso cui ho tentato di conoscere il mondo, la vita, me stessa.
Per questo, quando sono stata in grado di farlo, mi sono rivolta ai libri che parlano della mia esperienza di perdita. È stata una ricerca di aiuto, che ancora continua. L'ho cercato e lo cerco in quei libri che narrano un'esperienza diretta, lettere, diari, in quelli che la trasformano in letteratura (ma partono tutti da una esperienza, più o meno mascherata e trasformata). L'ho cercato negli studi teorici, nei saggi, nelle ricerche di coloro che hanno studiato il lutto, che ne hanno fatto oggetto della loro analisi e della loro riflessione.
L'ho cercato nella poesia. La poesia, ancora oggi, tocca il mio animo, lo penetra, lo commuove, talvolta lo solleva o lo consola. La poesia è quella che mi arriva più vicina.

Ho conosciuto personalmente molte persone in cui è nato questo stesso bisogno, questa sete di comprensione e risonanza con altri che hanno vissuto o vivono la stessa esperienza -non solo nell'incontro viso a viso, dolore con dolore- ma anche in quell'incontro a distanza che è la lettura.

Ho scoperto questo: che si vuole imparare il più possibile su questo evento che sconvolge la vita e spesso la devasta, lo si vuole indagare. Ognuno si rivolge alle letture più congeniali, più vicine alla propria sensibilità (ma ha fame anche di quelle più lontane) o a quelle che sono più alla sua portata; è certo comunque che ci si passano titoli, nomi di autori, di testi. E quelli che non leggono direttamente perché leggere non fa parte delle loro abitudini, dei loro interessi, del loro costume o della loro cultura, ascoltano sempre gli altri, quelli che parlano delle proprie letture e ne riferiscono gli effetti, gli esiti, i barlumi di efficacia. E io li ho visti e li vedo, quasi sospesi, in attesa di una frase, un concetto, anche solo una parola, che renda comprensibile, che dia senso a quello che stanno vivendo.

Chi legge diventa così un tramite, e anche questo fa parte della condivisione, il più prezioso degli aiuti.
Niente infatti può sostituire l'incontro con quelli che io chiamo i fratelli e le sorelle nel dolore.

Delle mie letture e di quello che mi hanno dato e mi danno scriverò, senza ordine, senza un programma.
Il lutto non consente programmi.



giovedì 28 agosto 2014

che cosa ho imparato, che cosa sto imparando/asincronia

Il dolente è asincrono rispetto a tutti coloro che lo circondano. Può succedere anche con persone che hanno subito il suo stesso lutto, proprio lo stesso, intendo, legato alla scomparsa della stessa persona. Ma nessun lutto è del tutto  uguale a nessun altro lutto, il dolore non è sempre lo stesso dolore. Il tempo non è lo stesso tempo. Le relazioni con lo scomparso sono state diverse e diverse restano ora che lo scomparso è scomparso; l’amore è stato diverso –senza gerarchie, ma diverso.
Questo è un dramma nel dramma. E aggiunge dolore a dolore e spesso mina i rapporti tra persone vicinissime, che hanno avuto lo stesso morto, che condividono il morto eppure hanno perso una persona diversa; cosicché altro e differente è il loro dolore e il loro lutto, vivono in modi diversi l’assenza-presenza, la mancanza, l’abbandono.

Talvolta la perdita fa deflagrare antichi conflitti, mai emersi, mai percepiti, o ne crea di nuovi. Nascono sospetti reciproci, lacerazioni, insofferenze, rabbie e solitudini. Nascono dubbi, le vie del dolore divergono e la relazione tra sopravvissuti ne viene intaccata, spesso nel profondo. E nessuna relazione che subisca questa prova tornerà mai com’era, com’è stata. Talvolta migliora, si arricchisce, scopre nuovi terreni di incontro; tal’altra si incrina, s’impoverisce, diventa arida per quanto ci si sforzi e si finga. E nessuno sa se mai potrà ritrovare vita, vivere una qualità migliore, se ne nascerà una più ricca vicinanza. È una scommessa. I dolenti non sanno se la vinceranno. Qualcuno non la vede o finge di non vederla. Qualcuno rimuove. Qualcuno si ribella e si batte. Qualcuno si arrende. Accetta le separazioni ulteriori che si creano nella cerchia dei suoi affetti e questa ulteriore forma della perdita e della solitudine. Che la ritenga meritata o immeritata, l'accetta e si arrende.

venerdì 22 agosto 2014

maternale amore

Le valli oscure del corpo d'amore che il desiderio rende feconde:
è lì che s'incarna la passione: ecco un nuovo aurorale amore che non lascia scelta.
Diventato destino resisterà fino all'ultima valle fino all'ultimo tramonto.
m.p.

giovedì 21 agosto 2014

che cosa ho imparato, che cosa sto imparando/oscillazioni

Il dolente "inconsolabile” è insopportabile anche alle persone più vicine. Egli prende allora a mentire. E scopre che intorno a lui tutti non chiedono altro che di credere alle sue menzogne, tutti chiedono solo di essere ingannati.

I suoi piccoli miglioramenti, reali, progressivi e faticosi, i suoi piccoli passi in avanti che sono sempre oscillatori e incostanti, discontinui, e che comportano un avanzare e un regredire, vengono afferrati al volo e quasi congelati; il dolente viene subito immobilizzato nel suo primo tentativo di “normalità” e da quel punto non potrà più tornare indietro. Implicitamente subito gli viene detto: “Ecco, stai meglio e d’ora in poi starai –dovrai stare- sempre meglio". E tutti prenderanno a trattarlo con il più disinvolto tono consueto, spingendolo sempre più verso un occultamento del proprio dolore. Così gli altri verranno molto infastiditi se un giorno, timidamente, il dolente dirà una frase, anche solo una parola che ancora parli della persona perduta non come persona già appartenente ad un passato mitico, ma appena scomparsa, vicina, al centro del suo mondo, al centro del suo dolore. Il motto degli altri è: non si accettano ricadute.

che cosa ho imparato, che cosa sto imparando/gli esercizi

Ripenso a quello che ha scritto la mia amica Angela sul suo blog

"Se non facciamo del nostro dolore un tempio…è possibile che si riescano ad accettare, col cuore infine… altre angolazioni, altri punti di vista, non fissità ma movimento.


L’idea di una porta socchiusa, non sbarrata".

Io so che Angela ha ragione, che le sue parole contengono il solo possibile germoglio di un progredire. E credo e so che queste parole sono un incoraggiamento che Angela rivolge a se stessa, non un ammaestramento rivolto ad altri.
Perché Angela sa anche, su di sé, che il tempo per l’accettazione, per aprire quella porta sbarrata, non è decretabile dagli altri e neanche dal dolente stesso. E che costui, nascostamente, si sottopone a prove, a esercizi. Alcuni gli procurano una indicibile angoscia, in altri fallisce. Riporta anche piccole vittorie. Ma su queste non può fare affidamento, deve considerarle –per il momento- temporanee, provvisorie, perché cammina su un terreno instabile, avanza in un territorio che alterna tratti di terra solida a improvvisi vuoti, mancamenti, frane.

Qualcuno talvolta si accorge che il dolente ha pianto o lo sorprende a piangere e allora, poiché il tempo trascorso dall'evento tragico è per lui ormai tanto, "sufficiente", gli chiede: “Che è successo?”. Il dolente ringoia il pianto, risponde "niente" e subito si adegua al tono quotidiano della conversazione che per lui è invece fatua, inutile e inconcludente. Si rimbozzola nella menzogna. Viene ricacciato nella menzogna. Perché gli altri non sanno che sta solo facendo degli esercizi.

giovedì 31 luglio 2014

che cosa ho imparato, che cosa sto imparando/i ricordi

Il dolente ha così tanti ricordi da cui ripararsi.
Attraversa le ore della giornata con cautela e circospezione, tutta concentrata sui gesti minuti da compiere, sulle piccole incombenze, trama e ordito ormai della sua vita: comprare il latte, cambiare l’acqua nella ciotola della gatta, passare in farmacia, lavare due stoviglie.
Si lascia assorbire da quelle occupazioni per difendersi da un vento tormentoso che spinge verso di lei brandelli di ricordo come nuvole sfrangiate. Ogni tanto alza una mano  davanti a sé nel gesto di chi tenta di ripararsi gli occhi da una polvere alzatasi d’improvviso da terra per un colpo d’aria o da un moscerino fastidioso. È un gesto fugace che le sfugge, incontrollato, quasi impercettibile per chi le sta vicino, così piccolo e rapido è. 
Con quel fragile schermo tenta di ripararsi dal vento della memoria, continuamente risorgente, di tenerlo lontano da sé, di conservare vuoto e nero lo schermo della sua mente, nero come il monitor di un computer, bianco come lo schermo di un cinema.  
Talvolta un ricordo spezza ogni difesa e la raggiunge fino al centro del petto. Sono flash che le provocano una fitta e insieme una stretta che quasi  le arresta il respiro e non può che arrendersi a quella forza prepotente e implorante insieme. E mentre viene avvolta nella nube ulcerante del ricordo, abbassa lo sguardo sull’orologio per controllare la durata di quella folata che la strazia, attendendo che quel tempo del ricordo passi, quel tempo inevitabile che si è rivelato più forte di lei, di ogni sua circospezione, di ogni suo trucco. Quel controllare il tempo è come il contare di una partoriente, tra una contrazione e l’altra, contiene rassegnazione, la rassegnazione di chi non può difendersi da un assalto, e resta lì ad aspettare che la violenza le passi sopra. Si concentra sulla lancetta dell’orologio contando mentalmente i secondi. In quei secondi, in quei minuti lo squarcio sul passato si prende tutto il suo corpo, la stringe soffocandolo in ogni sua parte: il dolente si ferma in mezzo alla strada, si ferma qualunque cosa stia facendo, trattiene il fiato  e col fiato il dolore, mentre le lacrime non si lasciano trattenere.
Poi torna a respirare e dal polso lo sguardo le scivola sulla mano, sulla pelle sottile e disegnata di rughe, sulle nocche visibili, la sua mano di vecchia. Ho vissuto troppa vita, pensa e troppa vita fa troppi ricordi.

mercoledì 30 luglio 2014

quando qualcuno parla anche per noi

È un altro degli inconvenienti del subire una disgrazia: per chi la soffre gli effetti durano molto di più di quello che dura la pazienza di quanti si mostrano disposti ad ascoltarlo e a stargli vicino, l’incondizionalità non è mai molto durevole se si tinge di monotonia. E così, presto o tardi, la persona triste rimane da sola quando ancora il suo lutto non è concluso o non le è più consentito di parlare oltre di quello che è ancora il suo unico mondo, perché quel mondo angoscioso risulta insopportabile e si allontana. Si rende conto che per gli altri qualunque disgrazia reca una data di scadenza sociale, che nessuno è fatto per contemplare il dolore, che tale spettacolo è tollerabile soltanto per un periodo breve, finché vi è ancora commozione e lacerazione e una certa possibilità di protagonismo per quelli che guardano e assistono, che si sentono imprescindibili, salvatori, utili. Ma nel verificare che niente cambia e che la persona in questione non riesce ad emergere, si sentono frustrati, la prendono quasi come un’offesa e si ritirano: “Forse non le basto? Come mai non ne viene fuori, pur avendo me accanto? Perché insiste nel suo dolore, se è già passato un certo tempo e io le ho dato distrazione e conforto?

Se non riesce a risollevare la testa, che affondi o 
sparisca”. E allora l’avvilito fa proprio questo, si ritrae, si assenta, si nasconde.

Da “Innamoramenti” di Xavier Marias



quando qualcuno parla anche per noi


"Immaginai che fossimo tutti seduti nel salotto, con un buco al posto di Arnold. “Tanti buchi” mi dissi. “Tutta la casa piena di buchi. Dove stava seduto. Dove giocava a carte. A tavola.” 
Marya Hornbacher Al centro dell’inverno


martedì 29 luglio 2014

che cosa ho imparato, che cosa sto imparando/il contratto

Un’altra delle scoperte del dolente è che la com-passione, la sintonia e l’empatia non sono mai incondizionate. Che gli altri stipulano con lui un contratto, non detto ma ferreo, vincolante nelle loro intenzioni: io ti offro condivisione in cambio di superamento. All’inizio la condizione non compare, è invisibile e addirittura inimmaginabile per il dolente; è inconsapevole, inconscia addirittura in chi sta vicino al dolente. Ma il contratto presto emergerà e il dolente deve riconoscerlo e prenderne atto.

Il dolente si sente monotono, noioso e soprattutto colpevole e si sforzerà di rispettare il contratto.

sabato 26 luglio 2014

riflettendoci...

Ho cancellato un post che, riflettendoci, mi è parso troppo personale. Ma ho tenuto tutti i vostri commenti perché mi hanno aiutata a decidere che farne. Grazie, marina

martedì 22 luglio 2014

lunedì 14 luglio 2014

una poesia di Beppe Salvia

Abbiamo nel cuore un solitario
amore, nostra vita infinita,
e negli occhi il cielo per nostro vario
cammino. Le spiagge i cieli, la riva
su cui sassi e rovi e il solitario
equisèto, e colli erbosi grassi
rioni, città dispiegate come
belle bandiere, e nude prigioni.
Questa è la nostra vita. Questi nostri
volti vagabondi come musi
di cani ci somigliano. Il vento
il sole le corolle rosse e blu,
i sogni mai sognati i nostri sogni.
Questa è la nostra vita e nulla più.

                                                               Beppe Salvia 1954-1985
da PensieriParole

lunedì 7 luglio 2014

ricordando Maria Luisa Spaziani


                                                   Maria Luisa Spaziani (1922-2014)


Il 30 giugno ci ha lasciati Maria Luisa Spaziani.
La ricordo con queste sue poesie.


A sipario abbassato

Quando ti amavo sognavo i tuoi
sogni.
Ti guardavo le palpebre dormire,
le ciglia in lieve tremito.
Talvolta
è a sipario abbassato che si snoda
con inauditi attori e luminarie
-la meraviglia.


Nulla di nulla

Strappami dal sospetto
di essere nulla, più nulla di nulla.
Non esiste nemmeno la memoria.
Non esistono cieli.
Davanti agli occhi un pianoro di
neve,
giorni non numerabili, cristalli
di una neve che sfuma all'orizzonte
- e non c'è l'orizzonte.


venerdì 4 luglio 2014

il filo di acciaio

Ero in strada e camminavo lenta adattando il passo al mio pensiero. E d'improvviso l'ho proprio sentito, percorrermi tutto il corpo, il filo di acciaio che mi tiene in vita, benché colpita duramente e senza cessa, ancora in vita.
Ho scoperto che è questo filo di acciaio, che ho sentito quasi fisicamente, a rendermi come sono, quella che sono: una persona capace di sostenere questi giorni e questi anni, anche nel crollo dei desideri, delle speranze, delle aspettative. Anche nell'amarezza, riconosciuta ormai come definitiva compagna.
Il filo di acciaio agisce per me, fa il suo lavoro per conto suo, mi tiene in salute e fa sì che, sola, io proceda nella vita. Ritta.
Dal filo di acciaio mi sento agita, una sensazione che ho già conosciuto. Nel filo di acciaio si esprime la potenza della natura, e strapparsi da dentro il filo di acciaio la natura non concede.
Cosa costi avere dentro di sé questo filo di acciaio, io sola so. E osservo gli inconsapevoli altri e sorrido dentro di me quando mi sento dire che sono forte.
Io, forte? Vorrei dire loro. Ma va, è lui che è forte, il filo di acciaio. Io, il mio io, lo ospita solo. Ed è un ospite indesiderato.

domenica 29 giugno 2014

Tereza, dove sei?





Non posso più accedere al blog di Tereza, perché è diventato un blog ad inviti e non sono stata invitata.

sabato 28 giugno 2014

(pseudo-versi dedicati a Stig Dagerman)

nomen omen


Qualsiasi nome gli abbiamo dato alla nascita
crediamo sempre che un giorno si chiameranno Consuelo
-inconfessata speranza
al fondo dei nostri cuori-
Ah se li avessimo chiamati Consuelo -ci diciamo poi-
abbiamo sbagliato nomen
ci siamo derubati del presagio!
Speranza ingenua!
nessuno consola nessuno
Vita e Tempo involvono
il nostro bisogno di consolazione.
m.p.

domenica 22 giugno 2014

ripescata in risposta a Guglielmo


Ho appreso a perdonare 
il blu smagliante alla plumbago
che esonda oltre il muro
e il rosa agli oleandri
e i rami colmi 
che scendono a sfiorarmi il capo.
Ma il profumo no.
Il profumo
-che mi trapassa come una spada
e m’avvelena l’aria-
il profumo
mi è crudele
e per lui non ho perdono
né grazia.
m.p.

dal passato d'amore

Camminavo in salita sotto le magnolie
Arrivavano parole come pesci argentei 
nuotando libere nella mia acqua
Le sentivo sulle labbra come l’antico bacio caldo
Una foglia lucente dipinta di verde volò a terra e si propose al mio sguardo
raccolse un sorriso 
e volò più in là
Nessun uccello cantava ma cantavano i pesci
"Sei il primo ricordo senza spine"
dissi al pesce più piccino che mordicchiava il mio orecchio
"Sei la prima foglia del mondo" 
dissi alla foglia
"la prima foglia verde
che luce ai miei piedi".
Le parole hanno questo di bello,
non muoiono. 
Giungono un mattino dal passato d’amore 
e nuotano con noi.
m.p.

lunedì 9 giugno 2014

scampoli

Ho bisogno di un po' di questo
ma poco
di un po' di quello
ma poco
di un ricciolo
di un vapore
di uno spicchio di mela

Il vento che impenna
le piccole cose
le piccole cose
che sfidano il tempo

In me c'è una falla
tutto cola, tutto perdo.

E dove batte la luce?
m.p.

le salsole


Intricato il mio cuore
con battiti e passi affrettati
spasimi lenti
erbe in folate

Si spezza il filo del tombolo della vita
a ogni microscopico fallo
né più si ricongiunge
Si è smarrita la mappa:
non si riconosce il capo
né la coda 
che già corre lontana
con fruscio di serpe o di acqua
Restano le salsole rotolacampo
-mio cuore cespuglioso-
che trascinano 
le ventate del tempo.
m.p.


ombre



Potresti contargli l'ossa
e gli anni
al cane-ombra
Accetta il boccone che gli porgi
Ti ringrazia con la coda e se ne va
Il cane-ombra ti lascia sola
Sei ombra anche tu.
m.p.

pensiero con cui mi sono svegliata questa mattina

Combina e ricombina
l'atomo ci darà
la sola eternità.

m.p.

sabato 31 maggio 2014

Una bella notizia: un nuovo libro di e su Giovanni Jervis


Vi segnalo una bella iniziativa dell' Ufficio Biblioscienze del Sistema di Biblioteche del Comune di Roma che mi fa molto piacere. Io non mancherò.


Il giorno 4 giugno 2014, alle ore 18:00, presso la Biblioteca Nelson Mandela,  via La Spezia 21, 00182 Roma, si terrà un incontro-dibattito sulla figura di Giovanni Jervis, con interventi di Massimo Marraffa, Riccardo Williams e Giovanni Valeri. Verrà presentato il volume Giovanni Jervis, Contro il sentito dire. Psicoanalisi, psichiatria e politica, a cura di M. Marraffa, Torino, Bollati-Boringhieri, (marzo) 2014. Ingresso libero. Il link alla Biblioteca Mandela èhttp://www.comune.roma.it/wps/portal/pcr?jppagecode=biblioteca_appia.wp.

giovedì 29 maggio 2014

Un incontro

-Ma tu guarda, Simona! ciao, come va? -Bene, dico. Va bene.
-E che fai qui?
Che faccio qui? Bevo un caffè e prendo un po’ d’aria. Potrei rispondergli così. Forse dovrei. Oppure, guardo il vecchio Colosseo annebbiato e quella bicicletta buttata nell’angolo. Così già sarebbe più veritiero. Ma in fondo me ne frego.  
-Misuro il mio fallimento, rispondo.
Rispondo così perché è l’unica risposta sincera. Davvero, un’altra non sarebbe corretta.
-Sicché...dice
Trascina una sedia al tavolino e si siede. La sedia è di ferro, fa un rumore d’inferno; vedo catene, condannati e via così.
-Sicché...
I sicché devono sembrargli particolarmente eloquenti perché non aggiunge altro. Se se ne frega lui della conversazione, figuriamoci io, che stavo qui con la bicicletta, il caffè e il mio fallimento. Al cameriere che si avvicina chiede un crodino. Usa la minuscola, come se dicesse un tè o un panino. Almeno così mi pare. Un crodino mi fa pensare a un animaletto, un piccolo crodo che ora lui vuole mangiarsi seduto al mio tavolino, di fronte alla mia faccia vacua e alla mia tazzina vuota da penitente.
-Fallimento, mmmm, è un peccato, fa lui. Si appoggia alla spalliera della sedia. La pancia è in bella vista e si allarga. È triste quella pancia che si accomoda, come se si sedesse ad aspettare un crodino anche lei.
-È un peccato che parli di fallimento, proprio tu. 
Proprio io. Che vorrà dire, proprio io? Con una mano faccio un gesto sfarfalleggiante, come a dire: grazie per questo omaggio alle mie virtù e ai miei talenti ma basta, lasciamo stare. Molto understatement, molto  modestia ma con un alone di degnazione.
-Che fai di bello? Studi? Lavori? Chiede in successione. E il fallimento è archiviato. Che cosa lo incuriosisce di me? Non questa qui -capelli lunghi senza taglio, alla portiamoli con noi, un’età senza definizione ma ancora da vivente, seduta a un tavolino rotondo tra tavolini tutti vuoti. Vuole notizie di quell’altra, quella di cui si è ricordato quando mi ha vista e si è fermato a salutarmi. Dovrà rinunciarci–-Non studio, non lavoro. Ma te, ti trovo bene, e gli passo la palla.
L’afferra. La pancia è smollata ma la voglia sfrigolante di dirsi, quella è ancora intatta in lui.
-Sai che mi hanno dato il cavalierato? Eh eh, dopo una vita di lavoro, mi ha fatto piacere, lo ammetto.
-Cavaliere, dunque. Così ti sei fermato per prestarmi soccorso. Tento la via della battuta scherzosa.
In fondo tutta una vita di lavoro da parte sua me l’aspettavo. Mai avuto voglia di fare granché di eccitante. Non leggeva, non studiava, niente musica cinema viaggi. Donne sì. La piccolina che mise incinta e che ebbe un aborto spontaneo, così si disse. E quell’altra, poi, bellina, sempre allegra. Minnie si chiamava, come una soubrette dell’epoca. Lei lasciò uno studente di scienze politiche, con troppi denti in bocca, Alberto mi pare, per ballare con lui stretta stretta (la pancia ancora non c’era) e arrossendo un po’ con le amiche si vantava: un coso, si sente, quando balliamo! Chissà se c’è una relazione, se a un coso grosso succede fatalmente una pancia grossa, mi chiedo.   
-Ho due figli, ci pensi? No, non ci penso. La parola figli, comunque declinata-maschile femminile singolare plurale- ormai m’intossica, il mio pensiero la evita.
-Uno studia in America, l’altro vive a Milano, è commercialista.
Io mi complimento.
-Antonietta, i due figli lontani, è sempre lì a preoccuparsi, te la puoi immaginare.
Me la posso immaginare? Cerco ispirazione nella nuvola che sfiora il Colosseo ma l’onda grossa del tempo si è portata via Antonietta. Poi tra i detriti mi sembra di scorgerne il viso, begli occhi bruni, con un accenno di determinazione, grossi seni alti. Arriva il crodino, lo scontrino subito si alza in volo, lui lo rincorre. Io rincorro l’immagine di Antonietta, riesco a attribuirle delle gambe ben tornite e persino degli zoccoli in legno, tacchi bassi.
-Allora, fa lui di ritorno, figli, tu ne hai?
-Credevo di averne. Perché di lui me ne frego come pure di quell’altra me che lui non ha trovato a questo tavolino.
Butta giù il crodino, guarda l’orologio.
-Oddio, si è fatto tardi, devo andare all’ agenzia delle entrate e fa una smorfia di autocompatimento.
Beh, alla prossima, speriamo presto, mi ha fatto piacere incontrarti.
-Speriamo presto, confermo.
Lo scontrino resta lì, sotto la bottiglietta del crodino. È giusto, penso. Lui ha contribuito all’incontro con un cavalierato, una moglie apprensiva e due figli, di cui uno commercialista e un altro che studia in America. Io offrirò il crodino.

mercoledì 28 maggio 2014

Una poesia di Antonia Pozzi

Novembre
E poi- se accadrà ch’io me ne vada-
resterà qualche cosa
di me
nel mio mondo-
resterà un’esile scia di silenzio
in mezzo alle voci-
un tenue fiato di bianco
in cuore all’azzurro-
Ed una sera di novembre
una bambina gracile
all’angolo d’una strada
venderà tanti crisantemi
e ci saranno le stelle
gelide verdi remote-
Qualcuno piangerà
Chissà dove-chissà dove-
Qualcuno cercherà i crisantemi
per me
nel mondo
quando accadrà che senza ritorno

Io me ne debba andare.

una poesia di Sylvia Plath


Io sono verticale

Ma preferirei essere orizzontale
Non sono un albero con radici nel suolo
Succhiante minerali e amore materno
Così da poter brillare di foglie ad ogni marzo,
Né sono la beltà di un’aiuola
Ultradipinta –che susciti grida di meraviglia,
Senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me un albero è immortale
E la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
Dell’uno la lunga vita, dell’altro mi mancxa l’audacia.

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
Alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo, ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
Forse assomiglio a loro nel modo più perfetto-
Con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo e io siamo in aperto colloquio,
E sarò utile il giorno che resterò sdraiata per sempre:

Finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.

domenica 13 aprile 2014

domenica

Il silenzio domenicale
rimbomba di parole
eco che si ribella
alla conversazione interrotta 

I passi domenicali
lenti di sperdizione
cercano di percorrere
senza ripercorrere

Il lutto domenicale
si porta abbottonato
come un cappotto pesante
che ci si stringe alla gola

Il mattino domenicale
chiede solo
di diventare lunedì.
m.p.




giovedì 13 marzo 2014

Non se ne esce?

La mia scrittura diventa sempre più scadente.
Il mio scontento cresce.
Lo scontento alimenta la mia depressione.
La depressione mi rende sempre più difficile scrivere.
La scrittura diventa sempre più scadente.

Non se ne esce.
Non se ne esce?
Allora esco io.
Ma non è un addio.

Grazie e scuse.



domenica 9 marzo 2014

DEP & DAP LEXICON / 18

Così, un giorno, Q. avrebbe raccontato l'esperienza del suo primo ritorno all'isola di Ponza.

Una serena mattina di luglio.
Sono sdraiata sulla spiaggia di Frontone, alle spalle le rocce dal bianco al grigio al viola e fin sull’arenile ciottoloso il verde delle tamerici, il giallo dei lentischi. Il mare trasparente di puro azzurro, calmo e luminoso. D’improvviso un boato e la terra sussulta sotto di me. Spalanco gli occhi e mi tiro su. Mia sorella chiacchiera con un’amica, due bambini gettano ciottoli nell’acqua, mio marito nuota armoniosamente al largo, ognuno è tranquillamente intento alle sue occupazioni, chi prende il sole, chi galleggia pigramente.
                     Ma la terra trema violentemente e le rocce intorno sbandano. Che terremoto è questo? L’epicentro sembra essere sotto il mio corpo e il moto sussultorio interessa non più di due metri quadrati. Quelli occupati da me. C’è qualche sismografo in grado di avvertirlo? I geologi lo stanno registrando? O la natura mi fa omaggio di un terremoto personale? 

Intanto si è fatto scuro. Di fronte a me la spiaggia di Frontone è come il negativo di una foto. Il chiaro del cielo si fa nero e su questo nero spiccano le macchie bianche delle rocce e delle barche. Dagherrotipo di Frontone, questa potrebbe essere la didascalia.
Ma nessuno sembra accorgersene tranne me. La natura mi riserva quest’altro privilegio? Un’inversione di chiaro e di scuro? Un' eclisse di sole che io sola posso percepire? Terremoto ed eclisse insieme, entrambi solo per me?
-Presto, avvertite subito un geologo e un astronomo. Ma prima, e in fretta, il mio psichiatra.

Il cuore corre e salta nel petto, i battiti sono talmente ravvicinati che sembra un unico battito continuo o nessun battito del tutto. Un cane smanioso si impadronisce del mio respiro ed ansima. Che c’é ? chiede mia sorella nel vedermi balzare in piedi. Niente-dico-ma torno in albergo. Avrò parlato a segni? Infatti non riconosco la mia voce, o meglio, non la sento proprio. Evidentemente invece mia sorella l’ha sentita, infatti torna alle sue chiacchiere.
              Sbandando per tenermi in piedi sulla terra sussultante, mi butto verso l’acqua. La spiaggia di Frontone è raggiungibile solo dal mare e di tanto in tanto delle piccole barchette come tanti Caronte vengono a scaricare qualcuno o a caricarlo per riportarlo verso il porto. Da Frontone si può fuggire solo dal mare e fuggirne in tale concomitanza di fenomeni fisici mi sembra la cosa più ragionevole. E più urgente.
              Ma avanzando verso l’acqua il terremoto da sussultorio diventa ondulatorio e come in un’altalena l’intero panorama mi passa davanti dondolando. E’ sempre in bianco e nero e io spalanco sempre più gli occhi nello sforzo di vedere in quel nero. Le gambe non mi tengono, così accosciata sulla riva e in preda alla nausea e al terrore aspetto che un Caronte arrivi e quando arriva vi salgo tentando di mantenere un aspetto il più possibile normale. Mi sistemo a prua sporgendomi nel vuoto come una polena nello sforzo di arrivare prima in porto.
                 Nel frattempo divento totalmente sorda e la mia temperatura corporea precipita verso lo zero assoluto. Ci saranno quaranta gradi, sono le dodici di un mattino di luglio e io tremo di freddo e batto i denti. Il battere dei miei denti è praticamente tutto quello che sento. Infatti dalla barca allegramente piena di bagnanti mi arrivano pochi smorzati suoni. Hanno anche un interessante effetto eco, le risate allegre si ripetono sempre più lunghe e flebili. Beffarde, irridenti.
-Vi prego, interpellate un otorino e anche un esperto in acustica. Ma prima e comunque il mio psichiatra, please.

Sbarcata al porto, in costume, a piedi nudi e barcollante raggiungo la mia stanza in albergo e finalmente mi lascio cadere sul letto. Sfortunatamente al mio fianco si precipita il precipito: il letto non vuole sostenermi come dovrebbe, infatti sento di caderci attraverso. Il mio corpo vuole assolutamente abbandonare l’isola, è disposto a riemergere dalla parte opposta del globo sulle spiagge neozelandesi, pur di abbandonarla.
Sono coperta di sudore freddo, tremo, ho la nausea, aspetto che il cuore si spacchi e via, la catastrofe aristotelica si compirà.
                Precipito, accelerazione canina del respiro, decelerazione agonica del cuore, masso, soffoco, sono tutti qui al mio capezzale. I miei sismografi personali continuano a registrare un circoscritto terremoto sussultorio e ondulatorio insieme, mentre il frullatore di organi frulla e frulla le mie viscere. L’Altra, impressionata, tace. La pavida!
                Giaccio sul letto, braccia e gambe buttate là dove capita, corpo disarticolato esattamente come la mia mente. So che il tavor mi guarda dal comodino e attraverso l’all-black mi sforzo di guardarlo. Lo guardo intensamente tentando di convincerlo con le buone a cadere sulla mia lingua. Non saprò mai se ci sarei riuscita perché finalmente mi raggiunge mio marito e mi soccorre.
                   Per la prima volta in anni di terapia oso chiamare a casa il Professore. In un bisbiglio gli comunico che sono sorda muta e cieca, un terremoto alternativamente sussultorio e ondulatorio colpisce l’area di due metri quadrati in cui sono inscritta e intanto un eclisse totale di sole copre il mio orizzonte. Sudo inelegantemente come un suino e precipito a grande velocità verso il centro della terra. 
-Attacco di panico a ciel sereno- dice la sua voce agognata. Nessuna catastrofe aristotelica incombe su di lei, presto il tavor farà il suo lavoro. In ogni caso ne prenda un altro-. Evidentemente anche nel mondo benzodiazepinico l’unione fa la forza. La voce tranquilla, quasi sorridente del mio psichiatra agisce come terza dose e impartisce il suo vade retro autorevole alla machina scaenica.
                 Infatti: ritornano i colori, ritornano i suoni, il terremoto scema, l’eclisse gradualmente sfuma. Infine anche il cuore rallenta la sua corsa. Speriamo che i diversi scienziati interessati abbiano fatto in tempo a prendere nota del fenomeno. Ne uscirebbe una interessante pubblicazione per la rivista Science. (Leggere saiens).
Solo il precipito non si vuole allontanare da me e io continuo a cadere attraverso il letto. La mia sola richiesta è -Portatemi via da quest’isola-.
Per definizione un’isola ci isola, no? Se ne è prigionieri. Su un’isola non ci sono vie di fuga. L’unica via di fuga è la fuga dall’isola.
               Non avendo nessuna intenzione di seguirmi attraverso i vari strati che compongono il pianeta che ci ospita  -i settanta chilometri della crosta terrestre, i duemilaottocentonovanta del mantello e i circa cinquemila del nucleo ferroso- per spuntare agli antipodi e trasferirsi armi e bagagli in Nuova Zelanda con me, mio marito rimedia due posti sul primo aliscafo e finalmente mi riporta sulla terraferma. Ferma di nome e di fatto.

Questa è la cronaca di quel mattino. Sappiate in ogni caso che vi ho risparmiato un paio di particolari intimi sgradevoli per me e per voi: siatemene grati.
       
Da allora la sola parola "isola" faceva imbizzarrire la machina scaenica di Q. Nel frattempo lei scoprì che la Nuova Zelanda non si trova agli antipodi dell'Italia. Trattasi di un comunissimo errore. Agli antipodi dell'Italia c'è solo oceano. O-ce-a-no. Per fortuna mentre tentava di lasciare l’isola attraverso il letto Q. non lo sapeva...
                 Q. comunque, novella spigolatrice di Sapri, sinteticamente prese a narrare quell'episodio in pochi versi: All’isola di Ponza s’è fermata, è stata un poco e poi s’è ritornata...
               Ma poiché Ponza era per lei la sola possibile idea di mare, la cristallizzazione dell’idea di bellezza e di possibile felicità, la lontananza forzata continuò ad essere la più bruciante di tutte le sconfitte che la malattia  l’aveva costretta ad accettare.
Passarono gli anni. Un giorno Q. tornò a Ponza. Fu il suo ultimo viaggio. Di questo Q. non parlerà. Può solo dire che la terra non tremò, il sole non si oscurò e tutta l’isola  fu quello che era sempre stata, una promessa mantenuta di bellezza e di serenità.

Ma nel ridosso di quel tempo nessuna promessa veniva mantenuta. 
Quei giorni illudevano e disilludevano Q. mentre lei guardinga, cautelosa, circospetta si avventurava nel mondo dei sani.

Infatti nel ridosso di quel tempo Qualcuno  metteva alla prova se stessa e la machina scaenica
(Continua-18)