martedì 29 ottobre 2013

DEP & DAP LEXICON / 4


Alla scoperta di quello che appariva, in tutto e per tutto, un continuato inganno, un’agitazione tumultuosa riempì ogni luogo di Q., la sua mente affaticata e confusa così come il suo corpo. Tutte le parti molli contenute tra lo sterno e l’inguine si misero a vibrare contemporaneamente di un tremito inarrestabile come se i suoi organi venissero agitati dentro il boccale di un frullatore o centrifugati in una lavatrice. Intanto, la mente correva alla cieca contro una domanda che si ripeteva in un'eco ronzante: perché? perchéé?  perchéé? e rimbalzava indietro contro un’altra domanda, tonante come un colpo di bombarda: Che cosa ho fatto di sbagliato? Questa seconda non era affatto una domanda retorica. Da subito infatti il suo Tribunale Interno aveva dichiarata Q. unica responsabile dell’inganno maritale; si chiedeva però quale colpa specifica — delle infinite in cui si articolava la sua più generale colpa di esistere — avesse determinato il comportamento del Coniuge Incauto.
            Nel frattempo la tana, la stanza da letto dove Q. aveva portato i documenti per svolgere il suo lavoro di riordino — l’unico ambiente della città che avesse le dimensioni esatte perché Q. non incorresse né nel soffoco né nello spalancato, all’incrocio cioè tra la sua claustrofobia e la sua agorafobia— si era fatta inidonea per la nuova situazione emotiva. I quattro metri di larghezza e i cinque di lunghezza della stanza, che fino allora si erano mostrati a norma con il suo bisogno di spazio e di contenimento insieme, si rivelarono di botto insufficienti per la smania di moto delle sue gambe. Il bisogno di attività motoria che l’aveva improvvisamente assalita non potrebbe essere descritto con un semplice “sentì il bisogno di camminare” perché, mentre ancora scorreva e riscorreva i documenti, Q. si era alzata in piedi e senza rendersene conto aveva cominciato a camminare in circolo ai piedi del letto, in una specie di “segnate il passo” molto ritmato benché poco marziale. Accortasi delle sue gambe in marcia immobile, Q. le sciolse nel passo e si mise a percorrere la stanza avanti e indietro, sempre portandosi dentro il frullatore di organi in azione. Poi, visto che la stanza continuava a restringersi ed accorciarsi intorno a sé, decise di mettersi temporaneamente in salvo fuggendone. E uscì coraggiosamente di casa.
            Poco dopo, percorsi appena trecento metri, Q. approdava nel parco vicino. Vi approdavano con lei il frullatore di organi e la scaturigine, come Q. chiamava la sua inesausta e un po' misteriosa capacità lacrimatoria.
Ora Q. sedeva su una panchina di legno. Piangeva senza singhiozzi né sussulti. Se ne andava in lacrime. Da tempo si era abituata a piangere ovunque, nella strada, sugli autobus, nei negozi, in fila alla posta o al mercato. Piangere occupava allora una gran parte delle sue giornate e Q. aveva dovuto rinunciare al pudore e alla riservatezza. Anche quella mattina piangeva en plei air, indifferente all'altrui curiosità.
Lo sguardo offuscato dalle lacrime era posato su una pianta di bouganvillea che traboccava da un vecchio muro romano e lei osservava quell'esplosione di colore con un'attenzione totale, stupefatta dal suo rigoglio, da una vita così florida, ma anche con nostalgia, con il rimpianto con cui un' Eva avrebbe guardato al cancello chiuso dell'Eden. La vita stessa era tutta raccolta in quella pianta di bouganvillea e lei la osservava da fuori. La pianta era a pochi passi da lei, quasi le straripava addosso, ma a Q. sembrava lontana come un miraggio irraggiungibile e attraverso le lacrime il miraggio tremava —come sempre tremano i miraggi. Probabilmente tremava a tempo col frullatore di organi.




Ad un tratto una mano si posò sulla sua e distolto lo sguardo dalla bouganvillea Q. incontrò due occhi scuri e un sorriso fiducioso. Un uomo  le parlava in una lingua sconosciuta e intanto goffamente finiva di abbottonarsi la camicia. Il pianto di Q. si arrestò per la sorpresa -forse la scaturigine si era seccata di botto- e lei notò che asole e bottoni erano allacciati sfalsati. Trattenne l'impulso di allungare il braccio e correggere l'abbottonatura e si asciugò gli occhi con la mano libera, lasciando l'altra in quella dello sconosciuto che intanto le si era seduto accanto, continuando a parlarle tranquillo e rassicurante. Anche se nemmeno una parola le suonava familiare, a Q. parve di percepire senno e ragionevolezza in quel discorso. Era il tono ad essere veritiero. Q. avvertì anche nelle ultime parole il suono di una domanda e, prima esitante poi con fiducia, rispose a quell'evidente invito a raccontare. Man mano che parlava, l'oppressione che le gravava sul petto si alleggeriva anche se la scaturigine aveva ritrovato la sua falda. In compenso il frullatore d'organi pian piano rallentò i suoi giri e infine si arrestò. Lo sconosciuto ascoltava con attenzione. Dal taschino della camicia aveva tirato fuori della carta igienica e ogni tanto allungava una mano e le asciugava il viso. Passò del tempo. Q. raccontava, l'uomo ascoltava né lei dubitò che l'uomo comprendesse. Poi si sentì stanca, tacque e posò la testa sulla spalla dello sconosciuto. Il collo dell'uomo sapeva di sapone di Marsiglia. Si stava bene. L'aria era calda ma non ancora soffocante. Il silenzio era disteso ovunque e persino i suoni ne facevano delicatamente parte. Ad occhi chiusi lei li seguiva: i voli dei grandi corvi alti sopra le loro teste e passi lenti sulla ghiaia del giardino. Restarono per un po' così, una piccola insignificante monade sulla panchina del mondo. Poi Q. si scosse e si alzò e l’uomo con lei. Portava degli scarponi slacciati e un cencio di calzoni. Alla fontanella lì accanto l'uomo si lavò la faccia, il collo e le mani. Anche Q. si lavò la faccia e bevve. Poi si diressero verso l'uscita del parco e proprio sulla soglia, tra i due propilei, si salutarono, come se avessero portato a termine un rito, o una seduta psicoterapeutica. L'uomo si portò la mano al petto e si presentò: Goran. Lo ripeté due volte. Anche Q. lo ripeté: Goran. Quindi dichiarò il suo nome e si allontanò. Dichiarare il proprio nome fece uno strano effetto a Q. Da molto tempo infatti non pensava a se stessa come titolare di un nome proprio. 
A quel tempo infatti Qualcuno pensava di non essere nessuno. Pensava, anzi, di non essere niente. (4/Continua)



domenica 20 ottobre 2013

DEP & DAP LEXICON /3

Per lungo tempo Q. si era molto adoperata perché il Coniuge Premuroso accettasse l'invito fattogli da un importante cliente turco a raggiungerlo nella sua residenza estiva affacciata sul mare Egeo. Si trattava di un viaggio di lavoro, intrapreso malvolentieri dal Coniuge Solidale ma che avrebbe costituito l'occasione per creare un più amichevole rapporto con l'importante uomo di affari dalla cui buona disposizione verso il Coniuge Imprenditore dipendevano decisioni di pregnante valore commerciale.

Per settimane il Coniuge Restio si era rifiutato di accettare l'invito, non risolvendosi a lasciare sola Q. nella città agostana. Ma lei lo rassicurò in ogni modo: non solo era perfettamente in grado di restare sola ma anzi, sapendo di non aver sacrificato ancora una volta alla sua machina scaenica il Coniuge Ansioso, si sarebbe sentita più leggera e persino contenta.
Infine il Coniuge Riluttante si  fece convincere e ai primi giorni del mese di agosto si imbarcò per Istambul per discutere del suo importante progetto con il cliente turco.
            Appena fu partito Q. affrontò il problema di riportarlo a sé, di riscattarlo dalle insidie del destino e farlo tornare a casa presto e bene. Fin dai primi tempi del loro matrimonio Q. aveva preso l'abitudine di eseguire in casa, durante i frequenti viaggi di lavoro del Coniuge Indefesso, dei piccoli lavori straordinari da fargli trovare come sorpresa al rientro. Era un gesto scaramantico con cui Q. ne propiziava il ritorno a casa; lo compiva per ottenere il favore e la protezione degli dei sul Coniuge Viaggiante, al quale, in cambio dell' offerta di Q., essi avrebbero garantito un sicuro e felice ritorno.
Era anche un modo per continuare a sentire presente il Coniuge Assente, toccando le sue cose, riordinandole, pulendole, e assaporando la gioia del ricongiungimento. Con questo spirito devoto e apotropaico Q. metteva ordine nei cassetti della biancheria, rifornendoli di nuovi calzini e canottiere; riordinava le cravatte, puliva le pipe, catalogava i libri coniugali accatastati alla rinfusa; riorganizzava qualche spazio della casa, spostando un piccolo mobile, inserendo un soprammobile, lucidando qualche pezzo d'argento fin lì trascurato. L'amorosa pratica aveva il suo culmine trionfale il giorno stesso del ritorno del Coniuge Riscattato, quando Q. preparava per lui la sua famosa e insuperabile crostata di albicocche.
            L'estate del famoso viaggio in Siria dell' Archeoconiuge, ad esempio, Q. l'aveva dedicata ad una rassegna ragionata di tutte le foto della loro vita familiare. Esse giacevano da sempre sparpagliate in vari cassetti o ammonticchiate alla rinfusa in scatole da scarpe, senza nessun ordine né tematico né cronologico, in un caos creatosi per accumulazione e in cui Q. si era sempre rifiutata di metter le mani. Quell'estate invece comprò cinque album e poi ancora altri due e con pazienza e alacrità vi fissò il loro patrimonio fotografico. Creò un album per tutti gli animali incontrati nei loro viaggi e uno per ripercorrere la crescita della loro unica figlia. Due album li dedicò agli anni del loro soggiorno in terra di Persia e altri due alle foto degli anni parigini. Gli ultimi due accolsero, rispettivamente, le foto familiari del Coniuge Aristocratico e quelle della famiglia di Q. stessa.
Era stato facendo quel lavoro che Q. si era resa conto che tutta quella gente che la guardava dalle lucide colorate superfici era morta.
Non solo quella davvero scomparsa da tempo o quella che Q. non aveva neanche fatto a tempo a conoscere, ma anche i vivi, coloro che in quegli stessi giorni conducevano le loro vite con i piedi ben piantati nella realtà. Tutti morti. E morta lei stessa. Dov'era infatti quella giovane donna allungata sulla panca di legno di un treno per Bombay, la testa appoggiata al finestrino aperto, gli occhi chiusi e i capelli svolazzanti investiti dal vento caldo?
E che fine aveva fatto quell'altra, seduta a piedi nudi e gambe incrociate sui tappeti del fortino di Samangàn in attesa che una pasticca di amuchina si sciogliesse nell'acqua della caraffa verdina in primo piano disinfettandola? e quella che guardava nella notte dal finestrino della corriera Merida-Villahermosa-Mitatitlan? Che ne era stato di loro? Erano morte, Q. lo constatò con dolore. Portavano tutte il suo nome ed erano morte. Niente di loro, di quella curiosità, di quell'audacia, di quella determinazione era rimasto in lei. E lei le guardava, mentre ne incollava le immagini sulle pagine di quell'album, come si guardano le foto di nostri lontani parenti, i bisnonni, i prozii, appartenuti ad un altro tempo, ad un altro mondo. Dovette così riconoscere che Barthes aveva ragione, davvero "tutte le fotografie sono postume". Ciò nonostante Q. portò a termine il suo compito e al ritorno del Coniuge Affrancato, legittimamente soddisfatta del suo lavoro, gli consegnò i sette album di foto.
            Ed ecco che, due anni dopo, Q. ripeteva il rito del riscatto del Coniuge Esposto. Nell'occasione si assegnò ben due di quei compiti scaramantici: avrebbe lucidato tutti gli oggetti in rame raccolti nei più disparati mercati del mondo e in più avrebbe riordinato la scrivania del Coniuge Disordinato, vera prova regina di amore e dedizione. La scrivania infatti quasi scompariva sotto pile di vecchi quotidiani, documenti, agendine, carte, bollette, posta accumulata da mesi e mesi, ritagli di giornali, rollini in attesa di essere sviluppati, confezioni di medicine ormai scadute, penne, matite, foto, libri mai aperti, dichiarazioni dei redditi, verbali di assemblee condominiali, multe mai pagate e avvisi di raccomandate ancora da ritirare e ancora, ancora... Il disordine coniugale una volta la irritava, ma ora la  intenerì di nostalgia e Q. si mise da subito al lavoro.
            Fu mentre compiva questo piccolo gesto di amore che Q. si imbatté nella corrispondenza, sventatamente lasciata dietro di sé, con cui da mesi il Coniuge Sacrificato organizzava con un gruppo di amici una crociera nel Mediterraneo Orientale. Eccola lì, tutta archiviata, grazie alla  perfetta organizzazione di cui il Coniuge tour operator diveniva capace quando si trattava di programmare un viaggio. Q. poté così ripercorrerne  i passi e quasi vederlo mentre raccoglieva documentazione, faceva da trait-d'union tra i vari partecipanti localizzati in mezza Europa, sceglieva lo yacht, prendeva accordi sulla rotta con il capitano, fissava le escursoni nelle varie tappe, stipulava assicurazioni, prenotava alberghi e intanto mandava frizzanti messaggi all'allegra compagnia. Nessun importante cliente turco compariva nella documentazione e di affari non si parlava. Tutto questo lavoro aveva preso mesi; gli stessi mesi durante i quali il Coniuge Fedele fermamente respingeva le sollecitazioni di Q. a compiere il viaggio di affari in Turchia. Q. lesse tutta la corrispondenza. Anzi la lesse due volte perché alla prima pensò che la machina scaenica stesse superando se stessa rendendola incapace di decodificare il senso di semplici frasi nella sua lingua madre.
Sicché lesse e poi rilesse. E dovette infine ammettere che quel mattino la machina scaenica non era in azione e tra la sua lingua madre e lei non si era aperto nessun abisso d’incomprensione: le cose stavano proprio come stavano. (3/continua)




domenica 13 ottobre 2013

DEP & DAP LEXICON / 2


Prima di procedere oltre varrà forse la pena di dare qualche indicazione circa quel tempo. Erano gli anni novanta e la nostra eroina, a seguito della morte del padre, era inciampata in una depressione maggiore, che, in quanto reattiva, si sperava superabile in tempi se non quantificabili almeno non geologici. Quel tempo però si protraeva già da qualche anno.



              Dicevamo, dunque, che una delle fantasie ricorrenti di Q. era randagiare. Tre volte alla settimana usciva dallo studio del Professore dopo la seduta di analisi e si incamminava lentamente verso casa. Percorreva la città accordando il passo al ritmo lento e faticoso del suo respiro, fissando intanto la sua attenzione su qualche parola pronunciata dal Professore e ripetendosela mentalmente, cercando di estrarne ogni possibile significato positivo, ogni minuscola rassicurazione. Distillava auto-incoraggiamento e andava. Quando arrivava nella sua strada doveva combattere contro il desiderio di non fermarsi, di continuare a camminare indefinitamente senza un dove, e quasi doveva costringersi a fermare i suoi passi davanti alla porta di casa. Eppure uscirne al mattino era stata, come sempre, un'operazione complicata e faticosa: Q. se la imponeva, scomponendola, gesto dopo gesto, in una serie successiva di atti e fingendo che non portassero tutti al momento in cui si sarebbe trovata all'aperto, esposta ad ogni minaccia.


            A quel tempo infatti Q. viveva sospesa tra il desiderio di randagiare e il bisogno della tana. Questa contraddizione non la meravigliava: Q. sapeva che tutto e il suo contrario poteva affliggerla nello stesso momento. Anche i sentimenti che le ispirava la sua solitudine in quell'agosto erano ambigui e contraddittorî. Q. sentiva di essere stata abbandonata: dal Coniuge Sano, dal Professore, dai parenti, dagli amici, dalla maggior parte dei suoi concittadini. Da tutti. E si sentiva doppiamente umiliata da questo abbandono, perché riteneva di meritarlo. La sua incapacità di opporsi alla sua condizione di depressa, di reagire al suo stato: questo glielo aveva meritato, Q. lo sapeva. E perciò viveva quella solitudine —la città accaldata, gli altri arruvinati, i curdi e lei—come una punizione severa ma meritata, sacrosanta quasi. Ma la viveva anche come un sollievo, una liberazione, perché così sfuggiva, temporaneamente, ad un'altra pesante ed esacerbante colpa: quella di sacrificare accanto a sé le energie, le curiosità, le audacie del Coniuge Gagliardo da troppo tempo costretto dalla malattia di Q. a continue limitazioni e rinunce.

            Erano anni che a Q. era impossibile uscire dalla città. Ve la tratteneva la pirotecnia di fenomeni che il suo corpo le proponeva quando si allontanava troppo dalla tana: dalla cecità improvvisa, detta il buio, all'incapacità di deglutire, detta l'osso, dalle tachicardie agli svenimenti, dai tremori alle vertigini, dai mancamenti alle aritmie, dalla sordità allo spaesamento, dal blocco, al masso, al soffoco, all' inghiottitoio... Sul DSM IV, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, questi fenomeni vengono catalogati alla voce "Dap, Disturbi da Attacchi di Panico" ma Q. pensava a loro come alla machina scaenica; infatti le sembrava di essere diventata una di quelle macchine teatrali del seicento con cui i più geniali architetti e scenografi del secolo allestivano le feste barocche, effimere e memorabili insieme; e come allora le macchine scenotecniche producevano meraviglia e stupore ricorrendo ad illusioni ed allusioni —acque, fuochi, sorprese, travestimenti, strutture allegoriche, suoni e visioni, trucchi e artifici —  Q. assisteva, con un misto di terrore ed ammirazione, all'allestimento, da parte del suo cervello, di quella privatissima festa barocca che era diventata la sua vita. All'inizio la machina scaenica dava prova di sé soprattutto quando Q. si azzardava a varcare il GRA, il Grande Raccordo Anulare, la tangenziale che circondava la città e che per Q. era come un anello di fuoco impossibile da saltare. Al solo vederne l'acronimo sui cartelli stradali Q. sentiva aprirsi un improvviso gorgo al centro dello stomaco e credeva di leggere, in quelle tre lettere GRA, Grande Rischio: Attenzione!. Così aveva dovuto ridisegnare la cartografia del mondo e più o meno là, da dove una volta lasciava la città per imbarcarsi sicura e felice per uno dei suoi frequenti viaggi, aveva dovuto stampare hic sunt leones. Ma il circolo di fuoco invalicabile si era rapidamente ristretto intorno a lei e in breve tempo qualunque sortita dalla sua stessa casa era diventata una pericolosa spedizione in un mondo divenuto una bocca spaventosa e sguaiata pronta ad inghiottirla. L'inghiottitoio, appunto.

            In questo brusco arretramento dei suoi confini Q. aveva risucchiato con sé anche il Coniuge Affettuoso e questo aggiungeva colpa alla sua pena e costituiva per Q. un'ossessione e una vergogna. Come se avesse rotto un patto, un impegno tacito preso tanto tempo prima, quando il Coniuge Giramondo l'aveva scelta come moglie proprio perché audace. E mobile. Ora che non era più né audace né mobile, Q. si sentiva inadempiente e indegna anche come moglie. E ad ogni estate esortava, ansiosamente ma inutilmente, il Coniuge Sacrificato a fare da solo uno di quei viaggi una volta progettati insieme.

            Una sola volta, due anni prima, era riuscita sia pure a fatica a convincerlo a partire per un viaggio in Siria con alcuni recenti amici che Q., dato il suo singolarmente claustrale stile di vita, non conosceva. Anche allora Q. era rimasta sola nella città desertificata e anche allora il peso della solitudine era stato alleggerito dal senso di sollievo per non aver inflitto ancora una volta al Coniuge Avventuroso la mortificazione di un piatto soggiorno sui colli intorno alla città, la più spericolata ed eccitante vacanza che, a quel tempo, Q. potesse concedersi.
            Lo stesso senso di alleggerimento della colpa che aveva provato due anni prima si accompagnava anche adesso alla solitudine e al senso di abbandono. Possiamo sentirci sgomenti per l'abbandono dopo aver implorato a lungo per essere abbandonati? A quel tempo Q. poteva.(2/continua)
                                                                     
 GRANDE RISCHIO: ATTENZIONE!
                                                Il Grande Raccordo Anulare di Roma

giovedì 10 ottobre 2013

DEP & DAP LEXICON /1

Ho ripreso in mano, da qualche tempo, il libro cui stavo lavorando quando tutto si fermò.
Dicono sia una buona cosa ritrovare una progettualità e io lo credo. Resta da vedere se il mio è un vero recupero di progettualità o solo velleità.

Per intanto, man mano che vado avanti con il mio lavoro di revisione e/o riscrittura, vorrei pubblicare qui il frutto del mio lavoro. A piccole dosi, piccole come quelle che somministro a me stessa.

Inizio oggi stesso.

Avvertenza: Con Q. si abbrevia, per comodità, Qualcuno, il nome con cui la protagonista del libro pensa e racconta se stessa.
In corsivo, oltre al titolo di ogni capitolo, sono scritti i lemmi componenti il lexicon, che troverete anche raccolti in un indice alfabetico in fondo al libro.
                                         
DEP & DAP LEXICON
 Lessico di una DEPressa con Disturbi da Attacchi di Panico


                                                             

  Capitolo uno

A quel tempo Qualcuno pensava di non essere nessuno. Pensava, anzi, di non essere niente.

Più avanti, molto più avanti nel tempo, Q. avrebbe parlato di  sé come di una Dep and Dap —Depressa con Disturbi da Attacchi di Panico — e della sua condizione avrebbe sorriso, perché convinta da sempre che ogni esperienza umana non solo nascondesse un suo lato comico ma meritasse il conforto di un sorriso. A quel tempo però qualsiasi definizione di se stessa le era preclusa. Viveva infatti dividendosi tra la ricerca della realtà, di cui sembrava aver perso ogni traccia, e la fuga dagli aspetti paurosi che essa poteva assumere quando si decideva a farsi viva. E, non potendo giurare né sull'esistenza del mondo esterno né su se stessa, aveva sospeso ogni giudizio.


            Nell'agosto di quell'anno Q. era rimasta sola in città. Questa si era svuotata, le strade si erano fatte silenziose. Il sole era accecante e le ombre troppo scure. Q. contava i cartelli che annunciavano "Chiuso per ferie": ogni giorno ne comparivano di nuovi finché il viale a ridosso del suo quartiere e le vie intorno non furono che saracinesche abbassate e cartelli gialli e arancio. Per comprare pane e latte Q. si spingeva sempre più lontano, misurava in passi umiliati la solitudine e l'abbandono.
            Allora immaginava che alle porte della città si fosse accampato un esercito assediante e che i suoi concittadini, fatte scorte di cibo e di acqua, si fossero ritirati nelle loro case e, nascosti dietro le persiane, spiassero l'arrivo dei primi soldati nemici. Quella fantasia la consolava un po'. In essa non era più la creatura miserabile e timorosa che gli altri, i sani, si erano lasciata alle spalle per veleggiare verso la vita piena, nei più esotici lidi lontani, ma una sentinella coraggiosa incaricata di pattugliare le strade. Di vedetta insieme a lei c'erano gli altri arruvinati: ogni estate tornavano a spuntare in città e ogni quartiere aveva i propri. Accadeva che le famiglie che  avevano accudito durante tutto l'anno un malato psichiatrico e che al giungere dell'estate non erano riuscite a parcheggiarlo in qualche ospedale, dichiarassero un "liberi tutti" unilaterale e partissero per le vacanze, lasciando il matto di famiglia in città a gestirsi da sé. Di ogni età, trasandati, talvolta scalzi, stretti a qualche fagotto o, al contrario, braccia abbandonate e mani nude, i matti si sedevano in terra o camminavano incessantemente, parlottavano piano o lanciavano risa e grida: tutta quell'improvvisa libertà sembrava esaltarli e spaventarli insieme.
            A farle compagnia, Q. quell'anno aveva anche un accampamento di curdi sorto durante la primavera nel parco vicino casa. Al mattino li vedeva sdraiati sotto i cespugli di oleandro, ancora addormentati, con un braccio a coprirsi gli occhi dal sole o intenti a lavarsi alla fontanella, i toraci nudi, i capelli arruffati. Le donne si pettinavano l'una con l'altra, lavavano magliette e vestiti di bambini. Q. ne aveva vista una intenta ad allattare: il seno era bianchissimo, il bambino lo premeva con l'ingordigia di tutti i neonati. E Q. sentiva una fitta di pena e desiderio insieme. Il prato era cosparso di cartoni, coperte, stuoie; qua e là resti dei fuochi su cui la sera venivano cucinati i pasti. E buste di plastica con i rifiuti in mucchi maleodoranti. Quando Q. attraversava il parco di sera li vedeva seduti in terra in grandi circoli, gli uomini a fumare o a suonare la chitarra; le donne, raccolte tra di loro, parlavano forte e ridevano. La guardavano appena: era diventata per loro una presenza familiare come loro lo erano per lei. 
Da sempre Q. provava la tentazione di una vita nomade, e spesso, soprattutto a quel tempo, immaginava di uscire di casa e camminare; sostare quando era stanca e camminare ancora e allontanarsi così, piano piano, dalla sua vita. Benché sapesse di non potersi allontanare da se stessa, la fantasia continuava a presentarsi. Risaliva a quando Q. era bambina, e studiando il plurale dei nomi aveva incontrato la parola randagio.
Le insegnarono che il plurale maschile faceva "randagi" ma che quello femminile poteva fare sia "randagie" che "randage". Ne prese diligentemente nota, ma il suo interesse per quella parola non avrebbe mai avuto nulla a che fare col plurale.
Ebbe invece a che fare con una illustrazione del suo Primo Libro di Lettura — lei aveva allora sei, forse sette anni — in cui era rappresentato un viandante, di cui le fu spiegato che era un girovago, un giramondo; così finalmente trovò una figura in cui riconoscere il famoso e un po' astratto randagio che al femminile plurale faceva "randage", ma anche "randagie".  Nell'illustrazione un omino con un fagotto sulle spalle percorreva il globo terrestre delicatamente colorato di verde, celeste e marrone —verde per le pianure, marrone per i monti e celeste per i mari. L'omino andava e tutto il mondo gli apparteneva. Così lei leggeva quell'immagine.  "Da grande voglio fare la randagia", scrisse su un tema. E le venne segnato in blu. "La randagia non si fa, disse la maestra. Si è randagi. E cancellò la frase". Così Q. comprese che essere randagi era una condizione dell'animo, un tocco in più, un dono della natura, o lo si aveva o non lo si aveva. Capì anche che il suo sogno di randagismo era un sogno proibito e lo amò ancora di più. Coniò anche un verbo personale. "Da grande randagerò" si disse. Ma lo tenne per sé.
            Nonostante quanto poi appreso da adulta sulla condizione randagia  — sul peso, la fatica, l'esclusione, la miseria e la paura che quella condizione poteva portare con sé — Q. continuò a sentire, nel profondo, un'attrazione istintiva e ammaliante per una vita "fuori": fuori da una casa ma anche da una legge e da una regola. E da ogni vincolo. E l'evasione e la fuga continuarono ad essere, per la se stessa più segreta, la vera tentazione.
            Ora Q. osservava quelle donne e quegli uomini accampati nel parco della sua città e benché sapesse che non avevano scelto spontaneamente una vita nomade, ma anzi si battevano perché venisse riconosciuto il loro diritto ad una patria — dunque a dei confini —provava un sentimento di invidia e quasi di nostalgia, come lo proviamo per le possibilità mai colte. (1/continua)





venerdì 4 ottobre 2013

Lampedusa


Ci chiamano e non rispondiamo:
ci si rovesci l'anima
un flutto acido ci porti via

Lembi di terra e di corpi
guardiamo in tv:
mare divino frangici il cuore

Commossi, oh sì, commossi
ma non mossi, pronti a guardare ancora
e ancora
e ancora...
m.p.

allarme


Mettete le mani a coppa e siate presti
non piovono giorni a lungo e si dissanguano le ore
m.p.

non m'importa


Non m'importa se mi siete nemici
Se siete nemici del mio dolore
Se muti mi accusate di avervi traditi
E non m'importa del mio non importarmene
Sono viva
Tanto vi basti
-2010-