martedì 10 dicembre 2013

DEP & DAP LEXICON / 10

Capitolo quattro

A quel tempo Qualcuno desiderava essere dissezionata

Aveva una diagnosi. Scritta e sottoscritta. Aveva il Professore e tre psico-sedute a settimana. Aveva una terapia farmacologica da seguire. Tutto certo, tutto chiaro, indubitabile. Eppure Q. non veniva considerata malata.
Il Professore, lo straordinario psichiatra che l'aveva in cura (e che forse, benché ormai scomparso, a tutt’oggi l’ha in cura) apparteneva, come ebbe a scrivere, “al novero di coloro che non considerano le esperienze umane come riducibili a parametri misurabili." E, a proposito del male che a quel tempo affliggeva Q., dichiarava che "l'esperienza soggettiva, intimamente vissuta, della depressione, è quella che meno sembra prestarsi a venir analizzata dall'esterno." Su queste due affermazioni Q. era ed è disposta a giurare. (E con quanta gratitudine per il Professore che le testimoniava in ogni suo agire!)
                Ciò nonostante a quel tempo, Q. anelava proprio a parametri misurabili e a vedere analizzata, dall'esterno e dall'interno, dall’alto e dal basso e diagonalmente, l’esperienza della depressione, alla ricerca della sua veridicità e della sua origine.
Veridicità & origine erano per lei come una volpe cui Q. conduceva la sua personale caccia, una volpe scaltra che la guardava un attimo di sopra la spalla, e poi partiva con la sua corsa radente verso la cespugliosa brughiera e vi spariva lasciando di sé solo la scia della coda. Ma Q. non poteva dichiarare chiusa la caccia, e sempre più ansante e sempre più beffata, inseguiva la volpe, perché quella volpe nascondeva nel suo piccolo cuore pulsante la risposta a domande per lei vitali.
                  Il Professore aveva un bel ripetere a Q. che la sua depressione era solo uno dei possibili “slittamenti” della mente, le cui origini, benché imperfettamente note, escludevano ogni sua colpa. Q. sapeva che “il nostro cervello è imperfetto” e la vita ben più che imperfetta e che se queste due imperfezioni s’incontrano in un unico essere umano, allora costui può trovarsi a vivere uno “stato alterato della mente”. E questo stato non è immaginario e non è simulabile. –M’intende?-Non-è-si-mu-la-bi-le. Q. sapeva di non essere una simulatrice, ma chi lo credeva davvero insieme a lei?
                    Quando nello spazio della sua vita cominciarono  a suonare le prime note del galop, come da subito Q. chiamò la sua malattia —quel ballo travolgente ed impetuoso con cui si chiudevano le grandi feste ottocentesche, e che trascinava le dame e i gentiluomini in un turbinio di volteggi, stordendoli, risucchiandoli e riducendoli a un niente strapazzato; tanto che sembrava che a ballare sotto i lampadari scintillanti fossero solo gli abiti vuoti —le grandi corolle  multicolori delle signore e gli impeccabili completi scuri dei gentiluomini — quando dunque l'orchestra invisibile che suona la musica per noi e per le nostre vite, suonò quelle prime note, e lei dovette ballare il ballo della depressione, subito Q. comprese di essere stata beffata perché colpita dal più invisibile e incomunicabile dei mali.
                    Questo, subito sperimentò Q.: che la sua malattia a quel tempo non era né misurabile né accertabile con nessuna delle tecniche impiegate dalla diagnostica medica per le altre malattie. E questo ne faceva appunto “solo” un’esperienza umana e di lei faceva una clandestina nel vasto, doloroso mondo della malattia, un po’ abusiva, un po’ sedicente, insomma spesso e volentieri una malata immaginaria.
                 Quindi Q. si guardò intorno in cerca del Certificatore che la sottraesse al suo destino di Millantatrice. Cercò ma non trovò.
Il suo male si sottraeva ad ogni  inconfutabile accertamento.
Infatti: non era controllabile attraverso analisi del sangue o dell' urina o della saliva né di alcun altro umore o secreto del suo corpo; non poteva essere evidenziato da nessun “segnalatore”, da un “marker” specifico; non c’era “grafia”, radio o eco che fosse, capace di darne una immagine reale, né esisteva tecnica di  “imaging”, TAC, RNM,  che ne potesse disegnare una virtuale; nessuna  “scopia”  lo poteva raggiungere; le più sofisticate e audaci introspezioni effettuate con le sonde più moderne e sensibili non potevano andarlo a cercare in nessun recesso del suo corpo; non c’era esame bioptico che, sottrattale una piccola parte di sé, una cellula o un grumo di cellule- tessuto muscolare, osseo, epatico o cerebrale- potesse sottoporlo a esame istologico ed estrarne una prova. Almeno non con Q. in vita.
                 (A quel tempo Q. non poteva prevedere che molto tempo dopo, la caccia alla volpe sarebbe stata riaperta non da lei ma per lei da intrepidi cavalieri che accesi di curiosità scientifica, sarebbero balzati in sella, pantaloni chiari, stivali neri e plaforn-così, fin nei minimi particolari, apparivano nella fantasia di Q.-  per impegnarsi in studi accaniti e laboriosi, dedicandosi a ricerche differenziate ma tutte convergenti a consegnarle, un giorno, la coda fulva della volpe: genetisti, biologi, statistici, bio-informatici e specialisti di psichiatria molecolare, che ancora oggi lei immagina, chi in giacca di velluto blu notte, chi in giacca verde o nera, sotto il candido camice del ricercatore.
Né Q. sapeva che un giorno la fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging) sarebbe stata in grado di visualizzare l’attività di quel cervello che allora Q. percepiva con orrore dentro il suo cranio.
Addirittura l’impegno interdisciplinare sarebbe riuscito a riconoscere in una serie di varianti del DNA  alcuni fattori eziopatogenetici di diverse patologie: Alzheimer, schizofrenia, autismo mentre si avviava a identificare quelle coinvolte nella depressione.
Ancora oggi la ricerca non è pronta a consegnarle intera la coda fulva della volpe, ma gli eleganti cavalieri con i loro frustini hanno falciato i cespugli della brughiera e con impetuoso galoppo avanzano e conquistano terreno.)
                 Ma a quel tempo Q. per tutti, o quasi, era un Argante, un malato immaginario. Eppure la malattia c'era, Q. la conteneva e quella teneva Q. Ma che cosa fosse quella malattia e che cosa Q. fosse diventata per suo effetto non era possibile dirlo e come una detenuta in attesa di giudizio, lei viveva nella mortificazione il suo “dolore non descrivibile, il suo vuoto oscuro e maligno, la sua dimensione inquietante e però forse universale della nostra mente”.
Peccato che “non descrivibile” più “universale” fosse uguale, per molti, a zero fratto zero.
                  E dunque, benché malata, Q. doveva sforzarsi di vivere da sana. E, poiché tutto quello che le accadeva accadeva dentro di sé, gli altri non lo vedevano, gli altri non lo credevano; ognuno anzi si sentiva in diritto o in dovere di porgere a Q. consigli, raccomandazioni, incitamenti, sollecitazioni. O, pur tacendo, di giudicarla. Del resto si sa che ancora oggi la malattia del "vuoto oscuro e maligno", secondo molti sani inconsapevoli si cura con uno scatto della volontà, un soprassalto di impegno, uno sforzo di applicazione.
            Presto Q., che aveva sempre creduto nella parola, ne venne tradita: la sua condizione, oltreché essere accolta con sospetto e scetticismo, metteva prepotentemente in luce l'impotenza del suo linguaggio ogni volta che Q. tentava di descrivere il suo male. Sicché lei, così orgogliosa del suo vocabolario, dovette scoprire che semplicemente non esistevano parole per parlare del suo galop. Che si trattava di un male gelatinoso che sfuggiva da tutte le parti, che si spostava velocissimo, prendendosi gioco di lei, quando la sua eloquenza cercava di inchiodarlo ad una definizione. Ecco perché Q. ebbe a fare ricorso ad un suo personalissimo lessico, libero e fantasioso, come sapeva essere fantasiosa la sua malattia.
                    La lingua, nata per metterla in comunicazione con il mondo, la lingua cui da sempre era devota, la sua lingua, tutt' a un tratto la tradì e divenne fattore di restringimento dentro di sé, di solitudine, di singolarità estrema. Presto dunque abbandonò ogni speranza di riuscire a trasmettere almeno l'eco della sua sofferenza e si chiuse nel silenzio.
Comprese che quella malattia era un locale insonorizzato, dove nessuno poteva entrare e dal quale non giungeva all'esterno il più piccolo suono ed era insieme un viaggio nel quale si viaggiava da soli portando da sé i propri bagagli.
            Fu la consapevolezza di questa incomunicabilità, imputabile insieme alla sordità altrui e alla sua improvvisa afasia, che la spinse a sognare l'ottenimento di una patente, ispirata da Rosario Chiarchiaro che nella famosa novella di Pirandello agognava la patente da jettatore.
Anche lei voleva la sua di patente: un documento inoppugnabile, decorato di timbri, pieno di numeri, simboli e grafici e di ogni possibile unità di misura, da portare sempre con sé ed esibire trionfalmente quando le fosse stata rivolta la fatidica esortazione: reagisci. 
            Una delle sue fantasie ricorrenti metteva in scena un Grande Anatomopatologo che facesse di lei la sua cavia preferita e presala con sé nel suo laboratorio, la sezionasse accuratamente, separasse organo da organo, tessuto da tessuto e fibra da fibra e, frugando nel suo corpo, arrivasse al centro del suo dolore e platealmente, inoppugnabilmente mostrasse agli scettici e ai sospettosi il pugno di cellule responsabili del suo male. Anche post mortem, va da sé. Solo così, pensava Q., le sarebbe stato restituito il suo onore e non sarebbe più stata sospettata di "viltà morale".
                   Ma a quel tempo Q. viveva in un paese in cui, dagli studi della televisione di stato, chiunque poteva invitarla ad affidare la sua vita e la sua salute mentale, alla riflessione filosofica, alla meditazione, allo yoga, alle pratiche New Age,  e poteva venirle consigliata una alimentazione vegetariana o una basata su “cibi allegri” o su aringhe, alici, salmone-ma non affumicato- e semi di lino; o una cura a base di aromi, sollecitandola a diffondere nell’ambiente o a portare sempre con sé un fazzoletto impregnato di oli essenziali: sandalo, melissa, ylang-ylang e gelsomino o il meno noto ma più efficace olio di olibano, un raro arbusto proveniente dalla Somalia.
          E attrici e conduttrici televisive potevano suggerirle fiori specifici per la depressione, in particolar modo gentian, wilde rose e, per un effetto immediato, rescue remedy, una miscela di cinque fiori per situazioni di emergenza, in cui occorresse fronteggiare esperienze particolarmente stressanti. -Chissà se le sue esperienze rientravano tra quelle particolarmente stressanti, si chiedeva blandamente Q.- E potevano additarle, come rimedi efficaci, lo sport, preferibilmente la corsa o almeno lunghe passeggiate. Insomma, la parola d’ordine era riassumibile, come si sentì dire da una famosa cantante, così: 
”rendere più colorata e lucente” la sua vita. Solo l’ascolto della musica delle sfere celesti le venne risparmiata.
              Nel frattempo, dalle pagine di un quotidiano, un autorevole professore di filosofia poteva definirla "drogata che cerca nelle farmacie la risposta al dolore della vita, che dovrebbe interpretare invece di voler dimenticare". Per carità, non c'era colpa di cui a quel tempo Q. non fosse pronta a dichiararsi portatrice.
              Quando di sé si pensa che si è l'ultimo degli esseri arbitrariamente consumanti ossigeno su questa terra e che il proprio valore, relativo ed assoluto, si aggira talmente in basso che esce da qualunque scala, non c'è accusa che, rivoltaci, non siamo pronti a far nostra. Vile? Perché no? Ma anche accidiosa e codarda e mentitrice e indegna e naturalmente abietta. Venghino, signori, venghino: qui vi mostreremo il più perfetto e completo esempio di neghittosità, il più luminoso campione di ignavia. E Q., che sempre e comunque sospettava di sé, non si indignava, né si sentiva offesa. Può infatti qualcuno che si sente nessuno indignarsi se viene tacciata di viltà?
              Ma poiché per inghiottire le sue "droghe" da farmacia Q. doveva ogni volta fare appello a tutta la sua residua forza di volontà e quasi costringersi  ad aprire la bocca, trovava stranamente fuorviante quella descrizione di se stessa come anelante all'impasticcamento. E tendeva a pensare —sperare— che il grave giudizio morale che il circostante mondo le rivolgeva di essere incapace di reagire, di superare, di riprendersi, di battersi, eccetera eccetera eccetera, potesse essere alleggerito e forse addirittura ritirato di fronte al referto in duplice copia di un esame autoptico, corredato di foto di vetrini in vario colore —magenta scuro per la cistifellea, verde nilo per i reni e rosso fegato per il fegato. Ma soprattutto di un bel blu oltremare per il cervello.
Questo era il desiderio, no anzi, il bisogno che la tormentava ed era per questo che
A quel tempo, Qualcuno desiderava essere dissezionata.
(continua/10)


5 commenti:

  1. Al galop avrei preferito la più ruspante tarante, ma è questione di gusti. il galup è qualcosa di codificato, la tarante sfugge. L'uso di farmaci è accennato, forse è capitolo seguente. La sofferenza psichica nel tempo basagliano del "liberi tutti" è spesso "trattata" con pasticche che "tolgono" il dolore. E' l'esperienza di molti. E poi naturalmente , per chi è povero di "risorse interiori" non umane che la marginalità che è diventato il grande "manicomio" con sbarre invisibili.
    Buon lavoro , Marina

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  2. Ciao Guglielmo, non so perché mi venne in mente galop. Effettivamente la taranta è più sfuggente.
    Circa i farmaci che, per inciso, mi hanno salvata la vita, ne ho parlato nella puntata 9. Ma alla fine del mio lavoro torneranno fatalmente.
    grazie di leggermi, marina

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  3. Ciao Marina, questo capitolo è davvero bello. E bellissima la metafora della volpe con la sua coda fulva!
    Un abbraccio da biba

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