domenica 24 novembre 2013

DEP & DAP LEXICON /8

Ciò che Q. a quel tempo aveva perso era la spontaneità, la naturalezza con cui tutti viviamo la nostra vita. L'ovvietà del vivere, l'immediatezza irriflessa con cui animalmente viviamo senza "sentirci" continuamente vivere. Q. era sempre stata compiaciuta della sua capacità di autocoscienza, ed anzi, in anni lontani, l'aveva puntigliosamente coltivata ed esercitata nei gruppi di donne che frequentava allora; ora dovette però apprendere fino a che punto questa facoltà, se usata senza parsimonia, possa rivelarsi impegnativa, faticosa e logorante.
Ma soprattutto imparò che essa può trasformarsi da esercizio volontario in ossessione inarrestabile, può sfuggire al nostro controllo ed insediarsi dentro di noi come padrona esigente e non tacitabile.
Benché a quel tempo Q. considerasse l'ipotesi di una guarigione come avrebbe considerato quella di giocare a palla con la luna, tuttavia, in un angolo aggrovigliato del suo animo, si nascondeva il pensiero che un principo di guarigione non potesse essere annunciato che da una diminuita attenzione a se stessa, da un ripristinarsi in lei di stati di inconsapevolezza, di semplice vita animale e che questo istante avrebbe coinciso con l'accecamento trionfale del terzo occhio. E naturalmente con il definitivo, assoluto silenzio della colonna sonora. Insomma con la scomparsa de l'Altra, la dannata radiocronista.
         A quel tempo Q. non poteva più fidarsi di nessuno dei suoi sensi. Non solo l'udito la ingannava, e la vista le proponeva il bemolle e l’ all black -per non parlare di quell'ossessivo terzo occhio che la guardava continuamente da fuori- ma anche il tatto le faceva difetto, mancando spesso di inviarle i segnali appropriati, sicché, a quel tempo, era tutto un lasciar cadere oggetti dalle mani, o un ferirsi, o uno scottarsi o semplicemente un frugare nella borsa senza distinguere prontamente al tatto il portafoglio, grosso e pesante, dalla patente. Le mani annaspavano ed esitavano, un po' cieche, un po' sorde, un po' inerti.
Quanto al gusto esso era in letargo: a quel tempo Q. mangiava solo ovatta o carta assorbente, o almeno così credeva.
L'olfatto poi viveva una sua vita separata e schizofrenica. Le portava da luoghi  lontani e invisibili odori che si presentavano forti, penetranti, allarmanti e si rifiutava di riconoscere quello del sugo che, a due passi da lei, si attaccava al fondo della pentola. O glieli confondeva, spostandoli di sede: odore di basilico dalla cassetta della posta, armadi all’odore di peperoni e camicette odorose di gomma bruciata.
         Q. aveva però un altro senso straordinariamente attivo ed affilato, di cui era debitrice alla sola malattia. Era la capacità propriocettiva, quella speciale sensibilità per cui percepiamo il nostro corpo nello spazio e nei movimenti. Questo senso si era almente affinato che aveva preso ad interessarsi anche dell’interno del suo corpo. 
Q. sospettava che i suoi sensori fossero migrati in massa dai suoi arti, avessero abbandonato tendini, muscoli e articolazioni, dove normalmente trovano posto, per tuffarsi nella profondità del suo corpo ed insediarsi in ognuno dei suoi organi interni, ovvero che di sensori gliene fossero spuntati altri, molti altri, dislocandosi a guardia di polmoni, fegato, esofago, reni, cuore, stomaco, intestino-tenue e crasso- eccetera.
Era l'unica spiegazione possibile per quello che le capitava talvolta: "sentire" con precisione assoluta il proprio cuore o il proprio fegato. Non semplicemente avvertire il battito del cuore ma percepirne il volume e la consistenza; non sentire una fitta al fegato, ma distinguerne la massa precisa e calda dentro di sé; non riconoscere le pareti dello stomaco perché vi avvertisse un bruciore, ma, in assenza di qualsiasi dolore, percepirne il tessuto dilatabile, sentirlo così come sentiva il colon, i suoi metri che si snodavano dentro di lei. Q. si disse che Edgard Allan Poe aveva ragione e che “tolto tutto l’impossibile, quello che rimane, anche se improbabile, è la verità” e senza neanche più la forza di indignarsi, rubricò questo insolito fenomeno sotto la voce Evidenziatore. Era tutto il suo corpo, organo per organo, che si faceva sentire da lei, come per farsi passare in rassegna, come per ricordarle che era fatto così e così e così.
Il che era sorprendente giacché Q., come la maggior parte di noi, aveva sempre avuto un'idea approssimativa della sua anatomia, e a parte quelli più comuni, collocava i suoi organi un po' alla rinfusa dentro il suo corpo contenitore. E lo era doppiamente perché quello stesso corpo che si faceva sentire con quasi tattile precisione, organo per organo, continuava ad apparirle estraneo e come staccato da sé, irreale e inconsistente, semplice sede accessoria di innumerevoli e curiosi fenomeni.
         Di questa improvvisa e minuziosa conoscenza della sua anatomia, ottenuta attraverso questa singolare propriocezione, Q. aveva il più grande terrore perché poteva estendersi anche al cervello. Dubito che qualcuno abbia voglia di "sentire" fisicamente il proprio cervello, di percepirne la materia, intendo, di sentirlo compiere piccoli movimenti spugnosi. Per dirla nel più esatto dei modi di "sentire che si stiracchia". Diciamocelo francamente, non è esperienza da augurare. Ma a Q. capitava di farne la prova. Non spesso, no, non più di un paio di volte al mese, ma, una volta fatta, questa esperienza è indimenticabile, lascia un segno di terrore e ribrezzo che non si riparerà più.
Tanto che rievocarla, sia pure a distanza di molto tempo, non è esercizio cui intendo indulgere ancora. Il lettore dovrà fidarsi della mia parola o affidarsi alla sua immaginazione. Sia inteso che, se dotato di forte immaginazione, lo farà a suo rischio e pericolo.
         Chi scrive si rende perfettamente conto di quanto poco credibile possa apparire la sua affermazione circa la capacità di Q. di "sentire" fisicamente il suo cervello. Eppure è semplicemente vero. Né Q. è  l'unico essere umano al mondo ad averlo esperito. Infatti, molto tempo dopo quel tempo, Q. lesse un giorno il testo di un serissimo psicologo americano, anche lui un DEP & DAP, cin cui si riferiva la stessa esperienza. Quel giorno Q. pianse, pianse a singhiozzi spezzati, con violenza dirotta, pianse di sollievo pensando per la prima volta dopo anni ed anni di non essere un monstrum unicum.
                Piangeva anche quella famosa mattina in cui l'abbiamo lasciata, quando, dopo aver detto addio al suo soccorritore, era uscita dal parco ed era restata sola. La scaturigine infatti aveva ripreso vigore. Per il resto la machina scaenica fece una scelta minimalista: naturalmente non dette il segnale di basta né al rumore di fondo né al masso né, tanto meno, al paso doble ma ritirò il frullatore di organi  e si accontentò di farlo accompagnare solo dal bemolle.
Ma il bemolle era fenomeno tollerabile; curioso ma tollerabile. Consisteva in uno sbiadimento lento e costante, appena un semitono sotto, dei colori delle cose e della loro stessa consistenza. Una specie di foschia impallidente si posava sul mondo intorno a lei e Q. guardava così alle strade, ai palazzi, alle auto e alle persone come attraverso un filtro opaco o uno di quei vetri sabbiati che si montano nelle finestre dei bagni. Vi si ricorre per non esser visti dai dirimpettai nelle proprie pratiche intime e la speranza di una possibile reciprocità rendeva a Q. meno molesto camminare in quella rarefazione velata, perché si diceva che forse, così come lei vedeva gli altri confusi e sfumati anche gli altri vedevano lei come una figura confusa e sfumata. Che era poi esattamente come lei stessa si sentiva. Uscita dal parco, quella mattina Q. camminò molto, perché voleva ritardare il momento in cui avrebbe ritrovati sparsi sul letto quei fogli beffardi dai quali era fuggita.
         Quando rientrò in casa andò nella sua stanza con una grossa busta di plastica, vi infilò tutte le carte sparse sul suo letto e le nascose nel fondo dell'armadio della stanza del Coniuge Malaccorto. Chiuse accuratamente l'armadio e anche la porta della stanza. Non voleva che la più piccola eco di quel carteggio la raggiungesse. Soprattutto non voleva che la tana, il suo ultimo rifugio, la sua ultima spiaggia, fosse in alcun modo sconvolta da quella presenza minacciosa. E spalancò le persiane sull'est e sul sud perché il sole depurasse il suo mondo.
         Pranzò con una grande tazza di caffelatte freddo in cui immerse uno dopo l'altro una confezione intera di biscotti, dal solito sapore di carta assorbente, poi prese la sua medicina, chiuse le persiane sull'est e sul sud, si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi. Si sentiva molto stanca ed era affetta dal precipito. A rigore anche il precipito può rientrare nel novero dei fenomeni sovvertitori delle legge fisiche. Consisteva infatti in un continuo inarrestabile cadere anche attraverso la superfice che la sosteneva, come se la gravità esercitata dalla massa terrestre sul suo corpo fosse capace di attrarlo anche attraverso altri corpi. Precipitò tutto il pomeriggio attraverso il letto, solo aprendo ogni tanto gli occhi per constatare che il bemolle aleggiava ancora nell'aria intorno a sé. La città in cui Q. viveva non conosce la nebbia, ma l’aria era velata, grave, caliginosa, forse per il caldo, forse per l’umidità salita dal fiume. I suoni che entravano dalla finestra erano smorzati, soffici, come imbozzoliti dentro quella densità grigiastra. Anche i pensieri erano imbozzoliti in una pesantezza oscura.
Il sole assediava le persiane della camera ma era polveroso e opaco e l'aria era pesante di caldo e di silenzio. Lei continuava a chiedersi perché il Coniuge  Inflessibile l'avesse punita così e il suo tribunale interno continuava a risponderle che lo aveva meritato, senza peraltro allegare le motivazioni della sentenza. Nel frattempo le arrivava all'orecchio l’eco della gratuita ma curiosa seduta di psicoterapia svoltasi nel parco. I suoni pronunciati dallo sconosciuto, che da allora prese a chiamare il Patrocinatore, nella sua sconosciuta lingua, avevano il tono di un’arringa difensiva ma non trovavano traduzione dentro di lei, fluttuavano nella sua mente, fervidi ma indecifrabili. Nessun tribunale se ne sarebbe fatto impressionare.
Verso sera Q. desiderò lavarsi di tutto- il carteggio, la panchina, la bouganvillea, i bottoni sfalsati  e il Patrocinatore e preparò un bagno nel quale si avvolse come dentro un sudario. Intanto piangeva sul bagnato, lacrime su schiuma ai fiori d'arancio.
Così era scritto sul flacone. Ma Q. sentiva solo un odore pungente di acciaio scaldato. Non s'interrogò sull'ennesima stranezza e respirò acciaio scaldato assieme alla sua dilatata solitudine.

Del resto, a quel tempo Qualcuno sperimentava la sospensione delle leggi fisiche. (8/continua)


4 commenti:

  1. Vi sono qui alcuni momenti di grande virtuosismo. La descrizione del sovvertimento sensoriale dà un senso "fisico" a chi legge. Mi par di essere in una grande stanza in cui su ciascun angolo si gioca la rappresentazione definitiva di una esistenza. Ti consiglio però di non perdere la misura di questa particolarissima lingua che stai usando: se scendi troppo nel particolare sensitivo rischi di perdere il senso generale della storia di questa depressione e quindi l'obiettivo per il quale, credo, tu la stia narrando. Finora non è accaduto ma è un pericolo in agguato. Inutile farti i complimenti ma te li faccio ugualmente.

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    1. caro Enzo, ti ringrazio per la tua osservazione. Credo che sia molto molto vera. Il rischio c'è e cercherò di evitarlo. Per ora sto facendo una revisione sintattico grammaticale lessicale rispetto al testo del 2009. Ma una revisione più profonda si impone e terrò sicuramente conto di questo consiglio. Spero di riuscirci
      grazie, marina

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  2. "... l'accecamento trionfale del terzo occhio." Bella musica, nella prima parte di questa puntata! Una osservazione laterale: più che del terzo occhio della veggenza, questo tuo mi sembra lo sguardo di una madre severa.

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  3. @Romeo la madre severa non compare ma da qualche parte c'era ;-)

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