martedì 5 novembre 2013

DEP & DAP LEXICON / 5

Capitolo due

A quel tempo Qualcuno sperimentava la sospensione delle leggi fisiche.


Quando apriva gli occhi al mattino, risalendo da un sonno bianco e burroso targato Tavor Expidet mg. 2, l'unico sonno che allora le fosse concesso, dopo i lunghi e confusi minuti necessari alla sua mente per riaccorgersi di sé, Q. trovava ad accoglierla il suo corpo, disposto, alternativamente, in una delle seguenti posizioni: o supino, composto come una salma, le gambe distese e accostate, le mani posate sullo sterno; o rannicchiato come un feto, i pugni chiusi stretti tra il petto e le ginocchia, come se avesse occupato la notte a morire o a prepararsi a nascere. Ma poiché invece tornava a svegliarsi doveva constatare ogni volta di non essere morta. E poiché si svegliava nella stessa disposizione di spirito con cui si era addormentata la sera innanzi, era costretta a riconoscere di non essere neanche rinata.
Più raramente il suo corpo si faceva trovare nella posizione della Santa Cecilia del Maderno: abbandonato sul fianco destro, le braccia allungate in avanti, i polsi accostati (benché non legati), le mani dischiuse.
La testa invece era volta all' indietro con una torsione innaturale. Poggiava sulla fronte e affondava nel cuscino. Era, quella, la posizione del martire. Fatta di rassegnazione e abbandono ma anche di desiderio di non vedere i colpi. 



            Qualunque posizione le presentasse il suo corpo, salma, feto o martire, Q. la manteneva a lungo perché dal cervello, dopo quello flebile di aprire gli occhi, non giungeva altro comando; e anche quando il cervello iniziava ad inviare i primi deboli segnali, il capo e gli arti sembravano incapaci di recepirli, sordi più che riluttanti. In qualche punto del suo essere c'era una dispersione di volontà che smorzava ogni impulso, un buco nero in cui si perdeva qualunque segnale. Succede talvolta tra una presa di corrente ed una lampada: esplorata con l'apposito cacciavite cercafase, la presa risulta fornita di elettricità ma la lampada benché collegata non si accende. A Q. accadeva lo stesso: non si accendeva. In quei lunghi minuti di blocco si verificava il fenomeno della gemmazione semantica: isolati vocaboli si formavano nella sua mente, staccati l'uno dall'altro da pause regolari di qualche secondo ognuna. Erano scritti in un bel corsivo netto, nel classico Times corpo 22, in tutte minuscole. Q. li vedeva avanzare come se si staccasero dalla pagina di un dizionario e le venissero incontro. L'effetto era quello dei bersagli dei poligoni di tiro che, una volta colpiti, scivolano lungo un filo verso il tiratore perché verifichi l'esattezza della sua mira. Solo che Q. non era il tiratore ma il bersaglio. Le parole che le si presentavano alla mente erano quotidiane, banali e non le sembravano particolarmente significative o emblematiche né nella loro sequenza sembrava nascondersi qualche messaggio speciale.
Q. le osservava avanzare senza grande interesse proprio come dal finestrino di un aereo guardiamo passare filacci di nubi, scherzi di vapori addensatisi senza senso né coerenza, e avrebbe voluto lasciarle passare così, e vederle dissolversi senza echi.
Doveva invece sforzarsi di memorizzarle perché più tardi il Professore avrebbe voluto conoscerle. Quello sforzo di attenzione e di memoria era il suo primo atto di volontà e insieme il primo dei compiti minuti ma spossanti in cui le ore della sua giornata si sarebbero divise.
            La gemmazione semantica era sempre preceduta dal verdetto. Questo si presentava come un sussulto improvviso costituito dal lampeggiamento di una frase di tre sole parole proprio dietro gli occhi chiusi: sono ancora qui. La constatazione era deludente e penosa e le si posava sul petto come un grave, che Q. chiamava il masso e che da quel momento non l'avrebbe più lasciata per tutto il giorno rendendo la sua respirazione faticosa e rotta: piccoli respiri tronchi si susseguivano velocemente senza mai arrivare a riempirle d'aria i polmoni e lasciandola perennemente affamata di ossigeno, in un'apnea angosciante benché non sottomarina. Dopo essere dunque passata attraverso il verdetto e la gemmazione semantica Q. prendeva ad agire, trascinata dalla ineluttabilità del suo essere ancora al mondo. Lo faceva con cura meticolosa, ordinando gesto dopo gesto. Il più complicato degli atti con cui iniziava la sua nuova giornata di involontaria rediviva consisteva nell'alzarsi dal letto.
            Qualcuno suddivideva questa semplice operazione in una serie di passaggi, ognuno dei quali veniva, per così dire, imposto dal suo cervello ad un corpo un po' stolido e un po' recalcitrante. Innanzitutto Q. si sollevava e si appoggiava con tutta la schiena alla testata del letto, le gambe allungate davanti sé e restava così, in una versione domestica di Farinata degli Uberti a osservare la stanza. C'era da compiere un'operazione immaginativa e filosofica che consisteva nel ricostruire la realtà a partire dal comò che la guardava dalla parete di fronte al letto. Era il comò infatti a costituire il perno, l'asse portante intorno cui il globo terrestre si sarebbe ricomposto e avrebbe ripreso a ruotare. Nella realtà, cacciatasi in qualche non luogo durante la notte, sarebbe stata riammessa la stanza e quindi la casa e la palazzina che la ospitava e la via in cui si trovava e poi il quartiere e la città e così via, con un movimento di allontanamento inclusivo, una carrellata all'indietro che finalmente avrebbe risistemato Q. in un punto della terra ruotante in un punto dello spazio stellare. 
      Oggi Q. descriverebbe quell'allontanamento inclusivo come una semplice ricerca su Google Maps, in cui partendo, ad esempio, dal Kilimangiaro e arretrando per clic successivi, nella mappa comparisse l'area del Kilimangiaro National Park, quindi la Tanzania e quindi il Kenia, e poi l'Africa subequatoriale e, di rinculo in rinculo, l'Africa tutta e i due oceani che la fiancheggiano e i due continenti al di là degli oceani: il Pianeta Terra, insomma.  
Per Q. al centro di questa mappa in ricostruzione non c'erano le nevi del Kilimangiaro, ma lui, il comò.
Q. ne percorreva le linee, osservava l'allineamento dei cassetti, contava le maniglie brunite, sei, passava in rassegna gli oggetti che vi erano posati sopra —  la piccola radio, la scatola di legno con orecchini, anelli e collane, l'orologio sveglia dono di nozze, la borsa e una sciarpa— poi ne riepilogava mentalmente, cassetto per cassetto, il contenuto.
            Questo lavoro minuzioso serviva sì a dare il tempo al corpo di riattivare i meccanismi motori, ma aveva uno scopo più sottile ed essenziale per Q.
A quel tempo, infatti, gli oggetti quotidiani, i più banali e familiari, costituivano per lei una basilare fonte di informazione. Ripetersi che nel secondo cassetto mutande, sottovesti, reggiseni e calze avevano ordinatamente giaciuto durante la notte mentre lei stessa giaceva e che nel terzo la attendevano fedelmente magliette, camicette, sciarpe colorate e maglioncini di cotone, era come un  riepilogo della realtà. Significava ricostruire dal nulla una geometria che aveva nome mondo e che possedeva un ordine e un senso. Esistevano cose. Ognuna con un nome ed una funzione; esse avevano un loro posto. Dunque un posto esisteva. Si trattava solo di convincersene. E la camicetta ordinatamente ripiegata nel terzo cassetto, con la sua etichetta -made in Italy, pura seta, lavare a mano in acqua fredda-, compiva il lavoro fondamentale di testimone di un posto di nome Italy, in cui camicette in pura seta venivano prodotte in vasti laboratori da uomini e donne che erano usciti da case, e avevano percorso strade su automobili o pullman o treni che avevano incrociato altre automobili, pullman e treni con su altri uomini e altre donne diretti verso altri laboratori o fabbriche o scuole, uffici, che avevano luogo in paesi e città. Tutto questo esisteva. Il ragionamento con cui Q. si convinceva di questo ordine di cose si snodava lento e volenteroso e lei disegnava mentalmente tutti i pezzi di realtà che la camicetta portava con sé in un elenco mentale ordinato: donne e uomini, macchine, strade, case, fabbriche, scuole, uffici, paesi, città; e questo spazio che si delineava dalla camicetta pura-seta-lavare-a-mano-in-acqua-fredda si allargava pian piano e prendeva nome mondo e più esattamente e filosoficamente realtà.
            Se questo compito di novella creazione del mondo era affidato al secondo e terzo cassetto il primo era deputato a compiere un atto più difficile e delicato: informarla su se stessa, fornirle una parvenza di identità. Sul primo cassetto perciò il suo pensiero si posava per ultimo, perché  era da quello che sarebbe giunta la spinta decisiva a vivere il nuovo giorno. Tutti quegli oggetti minuti, foto, lettere, orologi, occhiali nei loro foderi, la scatola con le spille, i guanti, i foulard, il libretto di assegni, il passaporto — soprattutto il passaporto, con la sua foto, la sua data di nascita, il suo nome, quel nome che era il suo perché il Prefetto ci aveva giurato sopra — oggetti che indubitabilmente appartenevano a lei, erano fatti a sua misura, la descrivevano, le attribuivano caratteristiche corporee — taglia 44, guanti numero sette, tre diottrie di miopia all'occhio destro, cinque al sinistro —le parlavano con la loro voce tranquilla e inequivoca e certificavano che lei era una persona. Indossava occhiali, scriveva lettere, scattava foto, annodava foulard intorno al collo e firmava assegni. Ritrovato dunque il mondo e una identità civile, c'era ora da compiere una terza operazione: insufflare in quel corpo contenitore, taglia 44, che si era appena stabilito essere il suo, anche uno spirito o un'anima, un'essenza mentale che si configurasse come un io.

            A questo scopo Q. si tratteneva per un po' seduta sul letto, volta verso la libreria che lo fiancheggiava, ad osservare con attenzione speranzosa i suoi libri. E li passava in rassegna dal basso in alto, fin dove la vista le consentiva di leggerne titolo e autore. E si allungava anche a toccarli, indugiando nel contatto, cercando in quelle superfici cartacee, così note e familiari, la se stessa che se ne era nutrita, un appiglio qualsiasi che risvegliasse dentro di sé un barlume della sua natura spirituale, che le dicesse chi lei fosse stata e chi forse poteva tornare ad essere se solo avesse trovato la forza di alzarsi in piedi.  
(5/Continua)









2 commenti:

  1. Scrivere è senza dubbio la tua vocazione.
    Cristiana con un abbraccio.

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  2. Cara Marina passo per un caro saluto
    Maurizio

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