domenica 13 ottobre 2013

DEP & DAP LEXICON / 2


Prima di procedere oltre varrà forse la pena di dare qualche indicazione circa quel tempo. Erano gli anni novanta e la nostra eroina, a seguito della morte del padre, era inciampata in una depressione maggiore, che, in quanto reattiva, si sperava superabile in tempi se non quantificabili almeno non geologici. Quel tempo però si protraeva già da qualche anno.



              Dicevamo, dunque, che una delle fantasie ricorrenti di Q. era randagiare. Tre volte alla settimana usciva dallo studio del Professore dopo la seduta di analisi e si incamminava lentamente verso casa. Percorreva la città accordando il passo al ritmo lento e faticoso del suo respiro, fissando intanto la sua attenzione su qualche parola pronunciata dal Professore e ripetendosela mentalmente, cercando di estrarne ogni possibile significato positivo, ogni minuscola rassicurazione. Distillava auto-incoraggiamento e andava. Quando arrivava nella sua strada doveva combattere contro il desiderio di non fermarsi, di continuare a camminare indefinitamente senza un dove, e quasi doveva costringersi a fermare i suoi passi davanti alla porta di casa. Eppure uscirne al mattino era stata, come sempre, un'operazione complicata e faticosa: Q. se la imponeva, scomponendola, gesto dopo gesto, in una serie successiva di atti e fingendo che non portassero tutti al momento in cui si sarebbe trovata all'aperto, esposta ad ogni minaccia.


            A quel tempo infatti Q. viveva sospesa tra il desiderio di randagiare e il bisogno della tana. Questa contraddizione non la meravigliava: Q. sapeva che tutto e il suo contrario poteva affliggerla nello stesso momento. Anche i sentimenti che le ispirava la sua solitudine in quell'agosto erano ambigui e contraddittorî. Q. sentiva di essere stata abbandonata: dal Coniuge Sano, dal Professore, dai parenti, dagli amici, dalla maggior parte dei suoi concittadini. Da tutti. E si sentiva doppiamente umiliata da questo abbandono, perché riteneva di meritarlo. La sua incapacità di opporsi alla sua condizione di depressa, di reagire al suo stato: questo glielo aveva meritato, Q. lo sapeva. E perciò viveva quella solitudine —la città accaldata, gli altri arruvinati, i curdi e lei—come una punizione severa ma meritata, sacrosanta quasi. Ma la viveva anche come un sollievo, una liberazione, perché così sfuggiva, temporaneamente, ad un'altra pesante ed esacerbante colpa: quella di sacrificare accanto a sé le energie, le curiosità, le audacie del Coniuge Gagliardo da troppo tempo costretto dalla malattia di Q. a continue limitazioni e rinunce.

            Erano anni che a Q. era impossibile uscire dalla città. Ve la tratteneva la pirotecnia di fenomeni che il suo corpo le proponeva quando si allontanava troppo dalla tana: dalla cecità improvvisa, detta il buio, all'incapacità di deglutire, detta l'osso, dalle tachicardie agli svenimenti, dai tremori alle vertigini, dai mancamenti alle aritmie, dalla sordità allo spaesamento, dal blocco, al masso, al soffoco, all' inghiottitoio... Sul DSM IV, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, questi fenomeni vengono catalogati alla voce "Dap, Disturbi da Attacchi di Panico" ma Q. pensava a loro come alla machina scaenica; infatti le sembrava di essere diventata una di quelle macchine teatrali del seicento con cui i più geniali architetti e scenografi del secolo allestivano le feste barocche, effimere e memorabili insieme; e come allora le macchine scenotecniche producevano meraviglia e stupore ricorrendo ad illusioni ed allusioni —acque, fuochi, sorprese, travestimenti, strutture allegoriche, suoni e visioni, trucchi e artifici —  Q. assisteva, con un misto di terrore ed ammirazione, all'allestimento, da parte del suo cervello, di quella privatissima festa barocca che era diventata la sua vita. All'inizio la machina scaenica dava prova di sé soprattutto quando Q. si azzardava a varcare il GRA, il Grande Raccordo Anulare, la tangenziale che circondava la città e che per Q. era come un anello di fuoco impossibile da saltare. Al solo vederne l'acronimo sui cartelli stradali Q. sentiva aprirsi un improvviso gorgo al centro dello stomaco e credeva di leggere, in quelle tre lettere GRA, Grande Rischio: Attenzione!. Così aveva dovuto ridisegnare la cartografia del mondo e più o meno là, da dove una volta lasciava la città per imbarcarsi sicura e felice per uno dei suoi frequenti viaggi, aveva dovuto stampare hic sunt leones. Ma il circolo di fuoco invalicabile si era rapidamente ristretto intorno a lei e in breve tempo qualunque sortita dalla sua stessa casa era diventata una pericolosa spedizione in un mondo divenuto una bocca spaventosa e sguaiata pronta ad inghiottirla. L'inghiottitoio, appunto.

            In questo brusco arretramento dei suoi confini Q. aveva risucchiato con sé anche il Coniuge Affettuoso e questo aggiungeva colpa alla sua pena e costituiva per Q. un'ossessione e una vergogna. Come se avesse rotto un patto, un impegno tacito preso tanto tempo prima, quando il Coniuge Giramondo l'aveva scelta come moglie proprio perché audace. E mobile. Ora che non era più né audace né mobile, Q. si sentiva inadempiente e indegna anche come moglie. E ad ogni estate esortava, ansiosamente ma inutilmente, il Coniuge Sacrificato a fare da solo uno di quei viaggi una volta progettati insieme.

            Una sola volta, due anni prima, era riuscita sia pure a fatica a convincerlo a partire per un viaggio in Siria con alcuni recenti amici che Q., dato il suo singolarmente claustrale stile di vita, non conosceva. Anche allora Q. era rimasta sola nella città desertificata e anche allora il peso della solitudine era stato alleggerito dal senso di sollievo per non aver inflitto ancora una volta al Coniuge Avventuroso la mortificazione di un piatto soggiorno sui colli intorno alla città, la più spericolata ed eccitante vacanza che, a quel tempo, Q. potesse concedersi.
            Lo stesso senso di alleggerimento della colpa che aveva provato due anni prima si accompagnava anche adesso alla solitudine e al senso di abbandono. Possiamo sentirci sgomenti per l'abbandono dopo aver implorato a lungo per essere abbandonati? A quel tempo Q. poteva.(2/continua)
                                                                     
 GRANDE RISCHIO: ATTENZIONE!
                                                Il Grande Raccordo Anulare di Roma

10 commenti:

  1. Conosco anch'io almeno due di questi camminatori solitari. Partono da chissà dove la mattina , costeggiano il Canale Villoresi fino chissà a dove e poi li rivedi la sera tornare. Il loro "mestiere" è camminare. Tutti e due (sono un uomo e una donna che viaggiano soli) si vestono con un abbigliamento adatto al viaggio e per ogni evenienza e portano , immancabilmente, uno zainetto con dentro immagino sia generi di conforto che altri accessori indispensabili al loro camminare. Non parlano con nessuno e non cercano la conversazione. Rimangono chiusi nel loro camminare e nel mondo che si sono creati. Passano senza lasciare traccia. Apparentemente. Fermarli per chiedere romperebbe qualcosa, o forse no. Attendono anche loro un incontro ?

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  2. Da come li descrivi non hanno bisogno di dialogare con altri. Dialogano tra di loro.

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  3. Non mi sono spiegato: camminano soli e non sai quanto è difficile che due che camminano soli si possano davvero incontrare...

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    1. Oh, allora è molto diverso! forse desiderano che qualcuno li fermi nel loro andare...

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  4. Ciao Marina. Ho di nuovo a disposizione un modem, ora, e posso tornare a navigare anche in giro per i blog come facevo prima. Sto leggendo il tuo scritto. Quel passaggio sul DSM non potresti metterlo in una prefazione o qualcosa del genere, invece che nel testo?
    Comunque, a parte questa a me stesso mia antipatica annotazione tecnica - è che viene da star zitti - che si può dire? - una banalità: che capita certamente l'essere abbandonati - la realtà esiste ed è conoscibile, non è tutto soggettività soggettiva - però ci sono abbandoni che facciamo noi - siamo noi gli inghiottitori di realtà, così - per cui abbandoniamo e ci sentiamo abbandonati - qualcuno ci ha abbandonato e noi abbandoniamo altri che non ci hanno abbandonato - diventiamo come quei cani che si lasciano morire sulla tomba del padrone - mi inchino d'ogni pensiero annullato - davanti a quei cani, davanti alla randagia nel deserto.

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  5. Caro Rom, il legame tra l'abbandono è lo stato mentale di Qualcuno è strettissimo, per la personalità di Qualcuno c'è un rapporto diretto. Sul DSM, il riferimento è troppo intrinseco al tema, oltre che al titolo, del lavoro;temo di doverlo lasciare lì. Ma grazie per il consiglio e la lettura attenta
    sono contenta di averti incontrato ancora
    marina

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  6. L'abbandono potrebbe essere il titolo di questo tuo secondo estratto. Dell'abbandono sei stata oggetto e, come tutti coloro che ne hanno fatto esperienza da bambini, ne sei rimasta "marchiata per sempre".
    Sai, leggendoti ho rivissuto anche il "mio" abbandono: anche io ne porto i segni e so di non poterli mai cancellare del tutto. L'abbandono, ad esempio, mi ha reso per troppo tempo quasi del tutto incapace di infliggerlo anche a chi ne avrebbe avuto un disperato bisogno per iniziare a crescere e ad andare sulle proprie gambe, rendendomi vittima consapevole e colpevole di certe figure di adulti "bambini fuori tempo massimo".
    Perché, vedi Marina, io credo che il trauma dell'abbandono segni sempre su diversi ed apparentemente incompatibili fronti, che ora cercherò di descrivere per come mi appaiono e, anche, per come li ho sperimentati personalmente.
    Dopo l'esperienza traumatica e precoce dell'abbandono, si rimane spaventati dalla possibilità che l'evento si riverifichi: questo timore fa sì che non si diventi mai veramente capaci di relazionarsi con l'altro/a accettando la percentuale di rischio insita in ogni relazione umana. Il rischio dell'abbandono finisce così per deviare/disturbare la sincerità/ spontaneità delle nostre azioni/comportamenti e, infine, delle nostre vite. Ovviamente non parlo qui di falsità o di ipocrisia, ma, piuttosto, di quell' eccessiva e sofferta prudenza che equivale sì e no ad una mezza vita, che incanala i rapporti lungo binari sui quali riteniamo di poter mantenere meglio il controllo.
    Dopo l'esperienza dell'abbandono si rimane fragili, ma, al tempo stesso, testardamente abbarbicati alla propria condizione di abbandonati: è come se l' abbandono divenisse la summa riassuntiva di tutto quello che siamo o possiamo essere e finisse quasi per coincidere con il senso profondo che abita dentro di noi.
    E' qui il nodo, o meglio il cappio, in cui si rischia di infilare la testa: se ci hanno abbandonato lo meritavamo- concetto che tu riproponi più volte- e l'unica via esperibile è l'esibizione dell'abbandono come segno distintivo, identità profonda del nostro essere, condizione assoluta: "dovete prendermi così, con questo marchio, altrimenti non mi faccio prendere".
    Quest’ ultima descrizione mi è stata suggerita dal leit motiv che a me pare scorrere più di altri nella tua scrittura: se l'abbandono è trauma, sofferenza, pena infinita e, alla fine, marchio esistenziale, l'unica via d'uscita onorevole sembra essere quella di farne la propria traccia profonda, traccia attraverso la quale riconoscersi e farsi riconoscere, ( e qui torniamo al " "dovete prendermi così, altrimenti non mi faccio prendere", sfida "girata" verso gli altri, anziché verso sé stessi).
    Ma hai mai riflettuto su quante volte, una volta entrati in questa trappola, si finisce per riproporre nelle relazioni la stessa maledetta ripartizione dei ruoli?
    C'è l'abbandonato che, auto-intrappolatosi, tenta in tutti i modi di allontanare gli altri, inducendoli "a lasciarlo" per potersi confermare nella sua identità di perdente e non accetto, l'unica in cui si riconosce.
    E c'è chi, dall'altra parte, o agisce con estrema e, vorrei dire, eccessiva disponibilità affettiva, alimentando così i sensi di colpa dell'intrappolato o, nei casi peggiori, costruisce la sua forza e la sua egemonia su quel ricatto antico che è la possibilità dell'abbandono.
    E' una maledizione, lo so, ma immagina di essere o diventare capace, anche per una sola volta, di abbandonare veramente là dove è necessario e salutare, per te e per l'altro/a/i.
    Immagina per una volta di sentirti veramente capace di rischiare la tana, di dire non più: "dovete prendermi così, altrimenti non mi faccio prendere", ma, piuttosto, "io sono così, ci vogliamo prendere?"
    Ciao, bella, ti abbraccio.

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  7. Cara Tez, la descrizione che tu fai dell'abbandono vissuto quando si è bambini è molto interessante. cerco di estenderla a momenti diversi della propria vita, ma, almeno per me, non è applicabile che in piccola parte. Da bambina io non conosciuto propriamente l'abbandono ma un non-amore(con venature di insofferenza ed anti-patia) da una parte e una indifferenza egoistica dall'altro. Sofferenza a parte, in un certo senso ciò mi ha resa più forte e più vulnerabile insieme. Ma il bisogno-desiderio d'amore non si è mai estinto né mai si è inaridita la capacità di abbandonarmi del tutto al sentimento d'amore, investendo, senza nessun timore del rischio insito in ogni relazione d'amore. Ma il timore dell'abbandono affettivo, come tu dici, è rimasto.La mia disponibilità affettiva è stata grandissima, troppa, ma non per l'altro, in cui mai ha determinato sensi di colpa, e non è mai stato messo in atto un ricatto.Io sono ricorsa ad un atteggiamento spavaldo, trucco per tenere tesa una corda che tenesse legato a me l'altro.Quanto in me, che ho vissuto con il timore di essere abbandonata, ciò non ha fatto di me una persona con le stimmate dell'abbandonata,né quella della perdente (in questo non sono mai caduta) ma certo ha fatto di me, come tu dici, una persona incapace di abbandonare, di tagliare fili. Dall'ossatura del tuo discorso mi allontano o mi accosto. Ognuno ha una storia con varianti sempre individuali, non solo per la nostra individualità irripetibile, ma anche per la diversa natura delle persone con cui si intrecciano le nostre vite. Potrei entrare più a fondo, ma in questo periodo è particolarmente difficile per me uno sguardo lucido e sereno. Soprattutto sugli ultimi 10 anni della mia vita. Mi ripropongo ( o meglio vorrei) riuscire a portare il mio racconto oltre gli anno 90. Ci riuscirò? Non lo so; per il momento porto avanti la storia di quel momento della vita di Q.(scritta a sua volta in un secondo momento, anche se non lontanissimo) e nel frattempo cerco anche di rivedere quel passato con gli occhi di oggi, ma per il momento, solo tra me e me.
    grazie TeZ e alla prossima
    abbraccio, marina

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  8. Ritorno qui solo per precisare che l'abbandono cui mi riferivo non è, (per lo meno non è stato nel mio caso), un abbandono con allontanamento fisico, bensì un diluirsi e poi quasi perdersi di una relazione affettiva importante e determinante, (tra me e mia madre), quand'io ero ancora molto piccola. Questa diluizione grave e patologica si è legata ad un passaggio doloroso, oggi credo di poter dire depressivo, di mia madre, instauratosi quando io non ero ancora in età scolare.
    Perché, tu lo sai bene, l'abbandono non è solo quello che si realizza con l'allontanamento fisico, bensì anche quello in cui si registra il dolore immenso di un distacco affettivo di cui non si comprendono i motivi perché, per esempio nel mio caso, si è troppo piccoli.
    In questi casi, un bambino facilmente cadrà nell'equivoco di ricercare in sé stesso la responsabilità di quell'allontanamento/abbandono. Pensare "io non piaccio/ non piaccio più a mia madre" determinerà la convinzione di non essere all'altezza dei suoi desideri affettivi, di non essere "il bambino giusto" per propria colpa, per incapacità o per non so cosa.
    Il dolore che scaturisce dal sentimento forte e drammatico d'essere inadatti non si può raccontare, così come non si può mai lavare del tutto, anche se da adulta io ho ricostruito, capito e perdonato, finendo per amare il dolore di mia madre, accogliendone il senso.
    Ti scrivo queste cose, così intime, per dirti che quel che tu definisci "non-amore(con venature di insofferenza ed anti-patia) da una parte e una indifferenza egoistica dall'altro" non è molto diverso da quello che io intendevo parlando di abbandono.
    Ti abbraccio forte

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    1. Cara Tez, i sentimenti sono gli stessi, è vero, eppure il termine che viene alle mie labbra non è abbandono. I miei ricordi di bambina non parlano di un affievolirsi di una relazione affettiva: Io non ho mai sentito che mia madre mi amasse. Né ho mai pensato di esserne stata abbandonata, ma, piuttosto mai accolta. Nessun episodio ha determinato la perdita di un amore che non avevo ricevuto mai. Per questo la parola abbandono non mi viene alle labbra. La nostra è solo una piccola differenza terminologica che cattura due momenti di uno stesso dolore. I miei tentativi di riportare la mia storia a quella di mia madre, alle sue sofferenze, al suoi seri problemi psicologici,non sono serviti, malgrado il mio desiderio di schierarmi dalla sua parte e di arrivare a placare il mio odio-amore nei suoi confronti. Ma negli ultimi due anni della sua vita, quando molto vecchia e ormai non più in grado di parlare, mi guardava con uno sguardo d'amore che non le avevo mai visto rivolgermi, ho avuto anche io una madre da piangere. L'esperienza del non amore per un bambino ha proprio gli effetti che tu dici: ci si sente colpevoli (che ho fatto?), indegni di amore, non ci si piace, non ci si stima, non ci si accetta. Autostima, prossima allo zero. Quanto a lungo influenzano le nostre vite! Ogni tanto, con l'ironia che piace a me, di fronte ai vecchi scogli che non riesco ad affrontare, dico: grazie mamma! e sorrido.Ma quanto mi è costato arrivare a quel sorriso!
      ti ringrazio, è bello parlare con te e riconoscermi
      un grande abbraccio, marina

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