mercoledì 25 dicembre 2013

DEP & DAP LEXICON /12

CAPITOLO CINQUE

A quel tempo Qualcuno poteva essere abitata

Forse fra di voi c'è chi ricorda che il mio racconto inizia in un giorno di agosto in cui Q. si scoprì abbandonata. Riallacciamoci a quel giorno. 

Il giorno successivo alla scoperta dell’ inganno coniugale, Q. si svegliò nella posizione del martire, effettivamente la più appropriata a rappresentare l’accettazione  mortificata con cui Q. aveva accolto quella rivelazione, e prese a inerpicarsi nella nuova giornata. Compì accuratamente tutti i gesti necessari a portarsi fuori di casa e si diresse al parco mentre L’Altra, la sua colonna sonora, le parlava come sempre: -Ti tremano le gambe. Già, ti tremano le gambe. Sei zuppa di sudore e hai freddo. Non è grave. Visto che il termometro già stamattina alle otto segnava 28 gradi, di questi brividi di freddo non mi preoccuperei. Di freddo percepito non si muore, si muore solo del freddo effettivo, in quota ad esempio o sotto una valanga e allora ci si congela e il cuore si arresta. Ma non siamo né in quota né sotto una valanga e dunque non morirai congelata e il cuore non si fermerà “
            Nonostante tutte le rassicurazioni dell'Altra Q. continuava a non fidarsi delle leggi fisiche e di quelle fisiologiche che ne discendono e mentre tremava di freddo tremava anche di paura. Ora auscultare per accertamento i battiti del proprio cuore mentre si trema è difficile, l'operazione non riesce bene, così Q. non poteva dirsi sicura di ospitare ancora un cuore in petto, anche se sapeva benissimo che nessuno può deambulare verso un parco in un mattino di agosto con 28, no ormai 29 gradi centigradi, se non ha più un cuore in petto. Ma non poteva fermarsi e anzi, preso l'abbrivio, fendette l'aria pesante del parco e il parco stesso, giù lungo il viale centrale, con quell'Altra che la incoraggiava: -il cuore non lo senti ma c'è, di freddo percepito non si muore, di freddo percepito non si muore, il cuore non lo senti ma c'è-.
           Andava sempre più veloce con tutto il suo seguito appresso, il freddo, i tremori e il terrore, ma andava perché ormai lo squalo si era impadronito di lei. Infatti, oltre che l'Altra se stessa, titolare del terzo occhio, o colonna sonora o sua personale radiocronista che dir si voglia, a quel tempo Q. ospitava in sé diverse creature che dal di dentro la plasmavano a loro immagine e somiglianza. Poteva capitare che Q. ospitasse uno squalo, come appunto quella mattina.
             Lo squalo era una visita abbastanza infrequente ma era tale da non passare inosservata. Subitaneamente Q. veniva investita da una potente esaltazione, una frenetica smania agendi che la lasciava poi estenuata, quasi un relitto scagliato sulla spiaggia da un'onda anomala. A dire il vero per un po' Q. aveva nominata l'esperienza proprio onda anomala, ma aveva poi ripiegato sul termine squalo perché le sembrava che rendesse meglio l'incontro di irrequietezza e avidità che l'esperienza conteneva, mentre onda anomala non giustificava a pieno la sua partecipazione attiva e smaniosa al fenomeno.
            Una piccola premessa sulla fisiologia dello squalo appare qui necessaria.
"Gli squali dormono; come tutti gli esseri viventi hanno bisogno di dormire per poter recuperare le energie spese durante l'attività.
Gli squali non hanno polmoni, respirano come i pesci per mezzo delle branchie. Nuotando l'acqua entra nella loro bocca ed esce dalle loro branchie. In questo cammino avviene lo scambio gassoso, la respirazione. Durante il sonno gli squali hanno gli occhi chiusi, i battiti più lenti, la respirazione e gli impulsi elettrici rallentati.
Però quando dormono nuotano, lentamente ma nuotano. Nuotano per tutta la loro vita, perchè devono respirare. Quando si fermano è perché sono morti. " (nota) 
            Questo comporta che lo squalo non posi mai e, per analogia, una volta posseduta dallo squalo, Q. non si posava più.
Diciamo che, se lo squalo si impadroniva improvvisamente del suo corpo verso le dieci del mattino -mentre Q., uscita dallo studio del Professore, rientrava lenta, piangente e appesantita verso casa- lo stato di possessione poteva durare anche otto, dieci ore e lo squalo moriva dentro di lei solo verso la mezzanotte, quando di botto, con la stessa subitanea repentinità, tutte le energie che fino allora le erano ribollite dentro impetuose, abbandonavano compatte Q. lasciandola stordita e attonita come se si risvegliasse da una seduta di ipnosi durante la quale l'ipnotizzatore l'avesse fatta girare come una trottola. E come la trottola, esaurita la carica cinetica, cade reclinata su un fianco, così Q. crollava d'improvviso sotto il suo stesso peso. Ma poteva capitare anche che lo squalo venisse in visita verso le otto di sera mentre Q. mangiava il cibo-ovatta al tavolo da pranzo e che si trattenesse in lei fino al mattino, ignorando persino il sostanzioso invito al sonno di un Tavor expedit mg. 2
             Durante le ore in cui era abitata dallo squalo Q. fendeva le acque della sua giornata, o della notte, animata da una spaventosa carica energetica che non sopportava costrizioni e mobilitava ogni più piccola cellula del suo corpo. Gli occhi inquieti dardeggiavano su ogni cosa, in ogni direzione, scrutavano e registravano, registravano qui e passavano a scrutare là; più che posarsi sulle cose e sulle persone le risucchiavano bramosi dentro di sé come se dovessero impadronirsi di ogni minutissima particola della realtà.
Non potevano fermarsi su niente, perché lo squalo non sopportava che qualcosa sfuggisse al suo controllo e alla sua cupidigia. E quindi il capo di Q.
continuamente si girava sul collo teso, nello sforzo di appropriarsi del mondo per tutti i trecentosessantagradi che la circondavano.
Anche gli arti subito si mettevano a disposizione dello squalo e il passo lento e strascicato di botto diventava risoluto,  anzi militare,  conquistatore e Q. divorava le strade e le piazze, sfrecciando tra esseri umani e automobili, ignorando semafori, strisce bianche e motorini, presa da un violento bisogno di cinèsi che non ammetteva ostacolo né rinvio.
                 Chi l'avesse osservata —e obiettivamente, a quel tempo, Q. era un soggetto degno di osservazione — avrebbe potuto pensare che Q. si fosse improvvisamente ricordata di un urgentissimo, vitale appuntamento e che avesse preso a marciare velocissima per raggiungere il luogo ad esso deputato. Q. invece semplicemente si precipitava a casa dove era certa di trovare pane per i suoi denti o, per meglio dire, per i denti dello squalo e qui giunta la frenetica attività indagatrice dei suoi occhi le serviva appunto da scandaglio per rilevare intorno a sé il più piccolo appiglio cui appendere le spaventose energie che improvvisamente le rigurgitavano dentro. Q. passava da un'attività all'altra, si riempiva di cose fatte mentre già cercava cose da fare.
                  Si riempiva infatti, ma non si saziava. Lavava verdure e pavimenti, potava piante e cuciva orli, spostava mobili e lucidava piastrelle, vuotava e riempiva armadi, poi risolveva cruciverba e catalogava libri, spazzolava cane e gatto e ispezionava soppalchi, preparava dolci, soufflè e frittate, montando uova, impastando farine, sminuzzando formaggio o prosciutto, quindi lavava maglioni invernali o camicie da notte, lavorava a filet tende per finestre, ripuliva foglia per foglia rami di limone dalle uova di cocciniglia e verificava origini etimologiche di parole sul dizionario per poi passare a tingere vecchie stoffe di cuscini e a incollare i pezzi di vecchi piatti di porcellana...
                 Nelle attività su cui lo squalo piombava non c'era nessun ordine logico, esse si accumulavano disordinatamente e nessuna conteneva in sé il suo fine; il fine era sempre uno ed uno solo: permettere allo squalo di respirare.
E intanto lo squalo sorrideva, del suo largo sorriso vorace e insoddisfatto, quello che nei documentari egli fa balenare verso l'operatore che lo riprende mentre già lo supera; sorrideva e non si stancava: divorava, sfilava, sorrideva  col suo ghigno e si manteneva in vita.
                 In quelle ore da squalo anche Q. sorrideva. Sorrideva dentro di sé nella sua avida pancia da squalo che si riempiva di cose, di fatti, di sensazioni, di pensieri, di azioni, di immagini; era bello essere squalo, che nessuno fermi Q!
             Non erano ore cattive quelle da squalo, quelle davvero cattive sarebbero venute subito dopo. Dopo la morte dello squalo. Che accadeva di colpo, perché il colpo, la subitaneità, insieme alla forza, sono il marchio distintivo dello squalo. Allo squalo tutto accade di colpo. Quando lo squalo è stanco si posa sul fondo e muore. Anche allo squalo ospite del corpo di Q. accadeva la stessa cosa: non si stancava se non all’improvviso. Allora si posava dentro di lei e moriva e la consegnava al precipito.
                    Al precipito abbiamo già accennato ma è un fenomeno cui vale la pena di dedicare una più accurata descrizione. D' improvviso l’ attrazione gravitazionale si faceva sentire con una potenza inusitata in Q. e l’attirava di maniera possente e inarrestabile. Nessun corpo poteva sostenere Q. quando la terribile attrazione si metteva in moto. Nessuna sedia, nessuna poltrona, neanche il letto. Anche attraverso di esso Q. si sentiva cadere, niente bastava a sorreggerla, sprofondava attraverso gli altri corpi lentamente; senza strappi, ma incessantemente, precipitava.
Per questo Q. lo chiamava il precipito.
            Al termine del precipito Q. riceveva la visita del Grave. Accadeva così che dopo il lungo, immobile precipitare il corpo di Q. finalmente si arrestasse su un fondo imprecisato e che lì solidificasse.
Bisogna però dire che il Grave  poteva venire a visitarla anche indipendentemente dal precipito, per scelta autonoma.
               La sensazione precisa era che su Q. si riversasse una valanga, una massa di fango e pietre tracimata da non si sa dove, che lentamente le si solidificava addosso, rimodellandosi sul suo corpo e divenendo tutt'uno con esso. Q. aveva l'impressione che i detriti di quella improvvisa valanga si fossero infiltrati anche dentro di lei, le avessero riempito la bocca, i polmoni, lo stomaco e così via. E che si fossero saldati insieme, trasformandola in un novello Hulk. Le sembrava di avere un corpo enorme, duro, lento e pesante. Di Hulk le mancavano solo il colore verde — e di questo Q. non si lamentava — e la forza.
               Essere Grave era infatti terribilmente faticoso. Significava spossarsi anche solo per sollevare un braccio, sentirlo rigido, compatto e pesante come fosse fatto di pietra. E lo stesso accadeva per i piedi e le gambe. Spostarne una era uno sforzo terribile. Q. se le toccava ogni tanto, per verifica, e le sue mani incontravano la solita superficie di muscolo e carne. Eppure le gambe pesavano e le sembravano un'unica colonna di pietra priva di articolazioni. In queste condizioni qualunque attività diventava gravosa ed estenuante e Q. poteva solo attendere che il Grave decidesse di accomiatarsi.
              Si faccia intanto attenzione a non confondere il masso con il grave.
Il masso, come abbiamo visto, le si piazzava sul petto e agiva sul respiro. Il grave invece investiva tutto il corpo. Ne era una vera e propria trasformazione. Col masso si poteva uscire di casa, sia pure affannando, il grave invece lo rendeva impossibile, o meglio poneva condizioni ricattatorie per spostarsi. Bisognava allora essere molto, molto accorti.
Cosicché, mentre era grave, Q. doveva ripetersi la raccomandazione del Professore a perdonarsi subito per avergli dato asilo nel suo corpo. Il grave stesso andava perdonato immediatamente: questa era la consegna. Perché, senza perdono, il grave diventava cattivo, molto cattivo contro Q. stessa che cominciava a pensare di gettarlo dalla finestra. Così quando era grave Q. affrontava l'esercizio del perdono, ricordando al grave e a se stessa, subito e con fermezza, che essere grave non è un peccato. Solo così si poteva sopravvivere al grave e alla sua attrazione verso il basso.
                A quel tempo però ad ogni momento poteva levarsi una voce qualsiasi ad incalzare Q. in specie  di grave  invitandola pressantemente a combattere la sua natura di grave per diventare qualche altra cosa, in una parola — sempre quella! — a reagire.
              Il mondo era pieno di gente che non era mai stata grave e che credeva di sapere come si fa a smettere di essere grave. Andavano anche in tv. Una sera in cui Q. era già  grave fin dal mattino e dal mattino si adoperava a tenere il grave  sotto controllo, Q. aveva sentito parlare in tv uno di questi esperti mai stati grave. Un filosofo. A suo dire se un grave si accompagna regolarmente ad un filosofo —a pagamento supponeva Q. —e affronta con lui un profondo esame dei grandi problemi filosofici che da sempre turbano l'umanità, -chi siamo, dove andiamo, da dove veniamo, cos'è il dolore, cos'è la felicità, che cosa significa essere vivi, chi siamo noi, lo spazio, il tempo, l’eternità, il bene, il male, l'identità, chi sono io et caetera, et caetera-  il grave si assottiglia, anzi si parcellizza, diviene prima pietrisco, poi brecciolino, poi pian piano si fa polvere e, oplà, scompare. Le membra si sciolgono, cadono come crisalide e ne vien fuori un nuovo e più consapevole essere umano che, liberatosi del suo falso sé, affronta vita, morte e dintorni filosoficamente.
                     Se quella sera, mentre lo ascoltava parlare, Q. non fosse stata grave ma, poniamo, squalo, si sarebbe potuta alzare dal letto e avrebbe potuto telefonare alla Rai per chiedere che non ospitasse più, a sua spese, filosofi che parlavano del grave senza esserne mai stati abitati.
Ma quella sera Q. ospitava il grave sicché dal letto sul quale il grave l'aveva spalmata ascoltò il filosofo elargire saggezza e sicumera e, aprendosi a fatica una strada tra i detriti granitici che le occludevano anche il cervello, Q. gli inviò un piccolo messaggio augurale: Cento di questi Gravi.
                   Ma per tornare a quella mattina di agosto in cui Q. marciava nel parco, non si trattava né di grave né di precipito. Era invece lui, lo squalo, a imperare, sornione e tassativo, lui a spingerla e ad attrarla, a metterle fretta alle gambe e fuoco ai piedi, lui che la portò torno torno al parco, sempre scrutando intorno a sé, prendendo nota di tutto, tutto risucchiando negli occhi avidi, tutto misurando, valutando, fotografando. Ogni albero, ogni gatto, ogni filo d'erba, ogni panchina, ogni pietra, tutto andava repertoriato e stampato bene nella testa. Perché? Non c'era un perché, chiedersi i perché era un'attività decisamente superflua per lo squalo e a dire il vero Q. stessa a quel tempo considerava ogni ricerca causale alquanto sopravvalutata. C'era da marciare attraverso il parco e condurne un'ispezione, questa era la consegna dello squalo. Andava fatto in fretta, con attenzione molecolare e poi ripetuto, giro dopo giro, viale dopo viale, prato dopo prato, cespuglio dopo cespuglio. Tutto fu registrato e mandato a mente e niente fu visto. Perché vedere, sia detto, non è compatibile con la velocità dello squalo. Cosicché quella mattina, quando lo squalo che l’aveva abitata in fine si posò sul fondo dell’oceano e morì Q. fece la sola cosa che potesse fisicamente fare: si sdraiò sul prato e si coprì il volto con un fazzoletto. Quando lo squalo l’abbandonava non voleva vedere e non voleva essere vista.


Infatti, a quel tempo, Qualcuno poteva essere abitata.
(Continua/12)

Nota: da Enciclopedia di Scienze biologiche Garzanti

lunedì 16 dicembre 2013

DEP & DAP LEXICON /11

Capitolo sei

A quel tempo Qualcuno fece ricorso a Gorgia

Quando Q. ebbe preso atto di non poter fare assegnamento su alcuna inoppugnabile dimostrazione scientifica dell’esistenza della sua malattia e che d’altra parte la sua lingua era insufficiente a descriverne la natura - e che gli altri l’avrebbero lasciata nel suo locale insonorizzato e nel suo silenzio coatto senza riconoscerle la dignità di persona sofferente —non le restò che parlare con sé, dentro di sé e, nel vuoto oscuro in cui dimorava, cercò a tentoni il modo per rendersi esprimibile almeno a se stessa.
                  Arricchì così il suo personalissimo, libero lessico, improbabile e bizzarro ma fantasioso come sapeva essere fantasioso il suo male, e con esso decifrò per se stessa l’originalità e la ricchezza dei fenomeni che sperimentava quotidianamente.
                Di fronte alla necessità di orientarsi nell’intrico psico-fisico di una "Depressa con Disturbi da Attacchi di Panico" —la Dep & Dap— Q. istintivamente si volse alla retorica. Pensò cioè che la gorgiana "arte della parola" avesse al suo arco tutte le frecce occorrenti per centrare il bersaglio costituito da quel nodo di non-essere ed essere-troppo di cui a quel tempo era costituita.
             Ignorò del tutto la cattiva fama che la parola retorica si porta dietro, essenzialmente quella di essere menzognera, preferendo fidarsi di Baudelaire, per il quale le regole della retorica sono "réclamées  par l'organisation même de l'être spirituel". Proprio quello che tentò di fare: usare delle regole della retorica per ri-conoscere e organizzare il suo essere spirituale.
            Trovò subito una perfetta definizione per il suo presente: la sua vita era un anacoluto. L’anacoluto è quel costrutto retorico per cui il periodo è privo di coerenza e coesione tra le sue varie parti. È vero che molti scrittori lo hanno usato e lo usano ottenendone efficaci effetti artistici –come con tutte le figure retoriche in cui Q. si riconobbe- ma non siamo tutti artisti. E la sua vita era ben lungi dall'essere un'opera d'arte.
          Quanto a lei e al suo essere spirituale la regolarità sintattica ne era stata rotta. Il dopo veniva prima del prima e il conseguente anticipava il susseguente. La notte né precedeva né seguiva il giorno ma lo macchiava a mo' di pelle di leopardo. I morti erano presenti e i vivi sbiadivano. Il vuoto non conteneva ma era contenuto. Il mondo non esisteva eppure faceva male. Le cause non producevano effetti se non estranei alla loro natura e le domande trovavano eco solo in altre domande ma contraddittorie. La struttura profonda dell'esistenza — desideri, pulsioni, affetti, istinti— si era rovesciata: la morte era presente nella vita ma non la raggiungeva mai; era presente in un io che non era più presente. Lei veniva appellata ma non aveva più nome. Nutriva un corpo che non riconosceva come suo. Il linguaggio altrui era un enigma accecante e il suo un pane sfarinato.
                      Da questo anacoluto discendeva tutto il resto: le iperboli delle sue
sensazioni; le aporie cui approdavano i suoi interrogativi: duplici risposte inconfutabili ma opposte tra di loro; gli ossimori quotidiani generati dai suoi sensi; il fuori contesto in cui quotidianamente viveva, persino la fatìca della funzione fàtica. Il paradosso di una viva che si sentiva morta, compagno dell’ antitesi mattutina, quando si avegliava e doveva constatare che non era morta ma non viveva; le antifrasi cui ricorreva nei piccoli scambi quotidiani quando alla classica odiosa domanda: come va? Rispondeva il suo –bene, grazie; la sinestesia linguistica con cui esprimeva quella sensoriale-percettiva che l’affliggeva. E soprattutto lei, la metafora, con cui non solo si raccontava il mondo ma direttamente lo vedeva.
                  Q. era insomma diventata un dizionario di retorica e stilistica con cui, nel tentativo di dare ordine al discorso inintellegibile in cui era immersa, passò a nominare tutto ciò che era troppo inesplicabile per essere nominato con il linguaggio comune.
Fu così che a quel tempo Qualcuno fece ricorso a Gorgia. 
(continua/10)

Nota: Casi tipici in cui emerge in primo piano la funzione fàtica sono frasi come: stammi a sentire,attenzione, pregocapito? ecc.
La sinestesia è una figura retorica che prevede l'accostamento di due termini appartenenti a due piani sensoriali diversi.[1]

martedì 10 dicembre 2013

DEP & DAP LEXICON / 10

Capitolo quattro

A quel tempo Qualcuno desiderava essere dissezionata

Aveva una diagnosi. Scritta e sottoscritta. Aveva il Professore e tre psico-sedute a settimana. Aveva una terapia farmacologica da seguire. Tutto certo, tutto chiaro, indubitabile. Eppure Q. non veniva considerata malata.
Il Professore, lo straordinario psichiatra che l'aveva in cura (e che forse, benché ormai scomparso, a tutt’oggi l’ha in cura) apparteneva, come ebbe a scrivere, “al novero di coloro che non considerano le esperienze umane come riducibili a parametri misurabili." E, a proposito del male che a quel tempo affliggeva Q., dichiarava che "l'esperienza soggettiva, intimamente vissuta, della depressione, è quella che meno sembra prestarsi a venir analizzata dall'esterno." Su queste due affermazioni Q. era ed è disposta a giurare. (E con quanta gratitudine per il Professore che le testimoniava in ogni suo agire!)
                Ciò nonostante a quel tempo, Q. anelava proprio a parametri misurabili e a vedere analizzata, dall'esterno e dall'interno, dall’alto e dal basso e diagonalmente, l’esperienza della depressione, alla ricerca della sua veridicità e della sua origine.
Veridicità & origine erano per lei come una volpe cui Q. conduceva la sua personale caccia, una volpe scaltra che la guardava un attimo di sopra la spalla, e poi partiva con la sua corsa radente verso la cespugliosa brughiera e vi spariva lasciando di sé solo la scia della coda. Ma Q. non poteva dichiarare chiusa la caccia, e sempre più ansante e sempre più beffata, inseguiva la volpe, perché quella volpe nascondeva nel suo piccolo cuore pulsante la risposta a domande per lei vitali.
                  Il Professore aveva un bel ripetere a Q. che la sua depressione era solo uno dei possibili “slittamenti” della mente, le cui origini, benché imperfettamente note, escludevano ogni sua colpa. Q. sapeva che “il nostro cervello è imperfetto” e la vita ben più che imperfetta e che se queste due imperfezioni s’incontrano in un unico essere umano, allora costui può trovarsi a vivere uno “stato alterato della mente”. E questo stato non è immaginario e non è simulabile. –M’intende?-Non-è-si-mu-la-bi-le. Q. sapeva di non essere una simulatrice, ma chi lo credeva davvero insieme a lei?
                    Quando nello spazio della sua vita cominciarono  a suonare le prime note del galop, come da subito Q. chiamò la sua malattia —quel ballo travolgente ed impetuoso con cui si chiudevano le grandi feste ottocentesche, e che trascinava le dame e i gentiluomini in un turbinio di volteggi, stordendoli, risucchiandoli e riducendoli a un niente strapazzato; tanto che sembrava che a ballare sotto i lampadari scintillanti fossero solo gli abiti vuoti —le grandi corolle  multicolori delle signore e gli impeccabili completi scuri dei gentiluomini — quando dunque l'orchestra invisibile che suona la musica per noi e per le nostre vite, suonò quelle prime note, e lei dovette ballare il ballo della depressione, subito Q. comprese di essere stata beffata perché colpita dal più invisibile e incomunicabile dei mali.
                    Questo, subito sperimentò Q.: che la sua malattia a quel tempo non era né misurabile né accertabile con nessuna delle tecniche impiegate dalla diagnostica medica per le altre malattie. E questo ne faceva appunto “solo” un’esperienza umana e di lei faceva una clandestina nel vasto, doloroso mondo della malattia, un po’ abusiva, un po’ sedicente, insomma spesso e volentieri una malata immaginaria.
                 Quindi Q. si guardò intorno in cerca del Certificatore che la sottraesse al suo destino di Millantatrice. Cercò ma non trovò.
Il suo male si sottraeva ad ogni  inconfutabile accertamento.
Infatti: non era controllabile attraverso analisi del sangue o dell' urina o della saliva né di alcun altro umore o secreto del suo corpo; non poteva essere evidenziato da nessun “segnalatore”, da un “marker” specifico; non c’era “grafia”, radio o eco che fosse, capace di darne una immagine reale, né esisteva tecnica di  “imaging”, TAC, RNM,  che ne potesse disegnare una virtuale; nessuna  “scopia”  lo poteva raggiungere; le più sofisticate e audaci introspezioni effettuate con le sonde più moderne e sensibili non potevano andarlo a cercare in nessun recesso del suo corpo; non c’era esame bioptico che, sottrattale una piccola parte di sé, una cellula o un grumo di cellule- tessuto muscolare, osseo, epatico o cerebrale- potesse sottoporlo a esame istologico ed estrarne una prova. Almeno non con Q. in vita.
                 (A quel tempo Q. non poteva prevedere che molto tempo dopo, la caccia alla volpe sarebbe stata riaperta non da lei ma per lei da intrepidi cavalieri che accesi di curiosità scientifica, sarebbero balzati in sella, pantaloni chiari, stivali neri e plaforn-così, fin nei minimi particolari, apparivano nella fantasia di Q.-  per impegnarsi in studi accaniti e laboriosi, dedicandosi a ricerche differenziate ma tutte convergenti a consegnarle, un giorno, la coda fulva della volpe: genetisti, biologi, statistici, bio-informatici e specialisti di psichiatria molecolare, che ancora oggi lei immagina, chi in giacca di velluto blu notte, chi in giacca verde o nera, sotto il candido camice del ricercatore.
Né Q. sapeva che un giorno la fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging) sarebbe stata in grado di visualizzare l’attività di quel cervello che allora Q. percepiva con orrore dentro il suo cranio.
Addirittura l’impegno interdisciplinare sarebbe riuscito a riconoscere in una serie di varianti del DNA  alcuni fattori eziopatogenetici di diverse patologie: Alzheimer, schizofrenia, autismo mentre si avviava a identificare quelle coinvolte nella depressione.
Ancora oggi la ricerca non è pronta a consegnarle intera la coda fulva della volpe, ma gli eleganti cavalieri con i loro frustini hanno falciato i cespugli della brughiera e con impetuoso galoppo avanzano e conquistano terreno.)
                 Ma a quel tempo Q. per tutti, o quasi, era un Argante, un malato immaginario. Eppure la malattia c'era, Q. la conteneva e quella teneva Q. Ma che cosa fosse quella malattia e che cosa Q. fosse diventata per suo effetto non era possibile dirlo e come una detenuta in attesa di giudizio, lei viveva nella mortificazione il suo “dolore non descrivibile, il suo vuoto oscuro e maligno, la sua dimensione inquietante e però forse universale della nostra mente”.
Peccato che “non descrivibile” più “universale” fosse uguale, per molti, a zero fratto zero.
                  E dunque, benché malata, Q. doveva sforzarsi di vivere da sana. E, poiché tutto quello che le accadeva accadeva dentro di sé, gli altri non lo vedevano, gli altri non lo credevano; ognuno anzi si sentiva in diritto o in dovere di porgere a Q. consigli, raccomandazioni, incitamenti, sollecitazioni. O, pur tacendo, di giudicarla. Del resto si sa che ancora oggi la malattia del "vuoto oscuro e maligno", secondo molti sani inconsapevoli si cura con uno scatto della volontà, un soprassalto di impegno, uno sforzo di applicazione.
            Presto Q., che aveva sempre creduto nella parola, ne venne tradita: la sua condizione, oltreché essere accolta con sospetto e scetticismo, metteva prepotentemente in luce l'impotenza del suo linguaggio ogni volta che Q. tentava di descrivere il suo male. Sicché lei, così orgogliosa del suo vocabolario, dovette scoprire che semplicemente non esistevano parole per parlare del suo galop. Che si trattava di un male gelatinoso che sfuggiva da tutte le parti, che si spostava velocissimo, prendendosi gioco di lei, quando la sua eloquenza cercava di inchiodarlo ad una definizione. Ecco perché Q. ebbe a fare ricorso ad un suo personalissimo lessico, libero e fantasioso, come sapeva essere fantasiosa la sua malattia.
                    La lingua, nata per metterla in comunicazione con il mondo, la lingua cui da sempre era devota, la sua lingua, tutt' a un tratto la tradì e divenne fattore di restringimento dentro di sé, di solitudine, di singolarità estrema. Presto dunque abbandonò ogni speranza di riuscire a trasmettere almeno l'eco della sua sofferenza e si chiuse nel silenzio.
Comprese che quella malattia era un locale insonorizzato, dove nessuno poteva entrare e dal quale non giungeva all'esterno il più piccolo suono ed era insieme un viaggio nel quale si viaggiava da soli portando da sé i propri bagagli.
            Fu la consapevolezza di questa incomunicabilità, imputabile insieme alla sordità altrui e alla sua improvvisa afasia, che la spinse a sognare l'ottenimento di una patente, ispirata da Rosario Chiarchiaro che nella famosa novella di Pirandello agognava la patente da jettatore.
Anche lei voleva la sua di patente: un documento inoppugnabile, decorato di timbri, pieno di numeri, simboli e grafici e di ogni possibile unità di misura, da portare sempre con sé ed esibire trionfalmente quando le fosse stata rivolta la fatidica esortazione: reagisci. 
            Una delle sue fantasie ricorrenti metteva in scena un Grande Anatomopatologo che facesse di lei la sua cavia preferita e presala con sé nel suo laboratorio, la sezionasse accuratamente, separasse organo da organo, tessuto da tessuto e fibra da fibra e, frugando nel suo corpo, arrivasse al centro del suo dolore e platealmente, inoppugnabilmente mostrasse agli scettici e ai sospettosi il pugno di cellule responsabili del suo male. Anche post mortem, va da sé. Solo così, pensava Q., le sarebbe stato restituito il suo onore e non sarebbe più stata sospettata di "viltà morale".
                   Ma a quel tempo Q. viveva in un paese in cui, dagli studi della televisione di stato, chiunque poteva invitarla ad affidare la sua vita e la sua salute mentale, alla riflessione filosofica, alla meditazione, allo yoga, alle pratiche New Age,  e poteva venirle consigliata una alimentazione vegetariana o una basata su “cibi allegri” o su aringhe, alici, salmone-ma non affumicato- e semi di lino; o una cura a base di aromi, sollecitandola a diffondere nell’ambiente o a portare sempre con sé un fazzoletto impregnato di oli essenziali: sandalo, melissa, ylang-ylang e gelsomino o il meno noto ma più efficace olio di olibano, un raro arbusto proveniente dalla Somalia.
          E attrici e conduttrici televisive potevano suggerirle fiori specifici per la depressione, in particolar modo gentian, wilde rose e, per un effetto immediato, rescue remedy, una miscela di cinque fiori per situazioni di emergenza, in cui occorresse fronteggiare esperienze particolarmente stressanti. -Chissà se le sue esperienze rientravano tra quelle particolarmente stressanti, si chiedeva blandamente Q.- E potevano additarle, come rimedi efficaci, lo sport, preferibilmente la corsa o almeno lunghe passeggiate. Insomma, la parola d’ordine era riassumibile, come si sentì dire da una famosa cantante, così: 
”rendere più colorata e lucente” la sua vita. Solo l’ascolto della musica delle sfere celesti le venne risparmiata.
              Nel frattempo, dalle pagine di un quotidiano, un autorevole professore di filosofia poteva definirla "drogata che cerca nelle farmacie la risposta al dolore della vita, che dovrebbe interpretare invece di voler dimenticare". Per carità, non c'era colpa di cui a quel tempo Q. non fosse pronta a dichiararsi portatrice.
              Quando di sé si pensa che si è l'ultimo degli esseri arbitrariamente consumanti ossigeno su questa terra e che il proprio valore, relativo ed assoluto, si aggira talmente in basso che esce da qualunque scala, non c'è accusa che, rivoltaci, non siamo pronti a far nostra. Vile? Perché no? Ma anche accidiosa e codarda e mentitrice e indegna e naturalmente abietta. Venghino, signori, venghino: qui vi mostreremo il più perfetto e completo esempio di neghittosità, il più luminoso campione di ignavia. E Q., che sempre e comunque sospettava di sé, non si indignava, né si sentiva offesa. Può infatti qualcuno che si sente nessuno indignarsi se viene tacciata di viltà?
              Ma poiché per inghiottire le sue "droghe" da farmacia Q. doveva ogni volta fare appello a tutta la sua residua forza di volontà e quasi costringersi  ad aprire la bocca, trovava stranamente fuorviante quella descrizione di se stessa come anelante all'impasticcamento. E tendeva a pensare —sperare— che il grave giudizio morale che il circostante mondo le rivolgeva di essere incapace di reagire, di superare, di riprendersi, di battersi, eccetera eccetera eccetera, potesse essere alleggerito e forse addirittura ritirato di fronte al referto in duplice copia di un esame autoptico, corredato di foto di vetrini in vario colore —magenta scuro per la cistifellea, verde nilo per i reni e rosso fegato per il fegato. Ma soprattutto di un bel blu oltremare per il cervello.
Questo era il desiderio, no anzi, il bisogno che la tormentava ed era per questo che
A quel tempo, Qualcuno desiderava essere dissezionata.
(continua/10)


lunedì 2 dicembre 2013

DEP & DAP LEXICON /9


Capitolo tre

A quel tempo Qualcuno frequentava molti luminari e sbigottiva



Mettiamo un po' d'ordine. Muore il padre e Q. precipita nel dolore. Ma il dolore straziante non è niente: quando il padre se ne va sottraendosi a tutte le offese della malattia Q. cade ammalata al suo posto.
                Qualcosa esplode dentro la testa di Q. Lei si sente scoppiare e pensa che se non lascerà uscire il qualcosa che le monta dentro, tutti i suoi pezzi si spargeranno in terra. Cerca aiuto e viaggia da un medico all’altro.           
                A Q. manca l’aria, il cuore viaggia come un treno, le batte fortissimo negli orecchi, un dolore violento le morde il torace; poi il treno rallenta come se entrasse in stazione. “Non è niente, dice il cardiologo, prenda un po’ di valeriana.”
NON È NIENTE?
              Q. sbanda, ha le vertigini, l’ambiente ruota intorno a lei o è lei che si sente ruotare nell’ambiente, cammina a zig zag coperta di sudore e in preda alla nausea. “Il suo labirinto non ha calcoli ossei, la sua colonna cervicale è a posto; ha un po’ di tensione muscolare, probabilmente di origine psicologica; niente di grave” dice l'otorinolaringoiatra. 
NIENTE DI GRAVE?
                Q. vede offuscato, caliginoso, talvolta non vede affatto. “Il vitreo è a posto, dice l’oculista. Niente cataratte, il visus non è diminuito. Eviti lo stress.
EVITI LO STRESS?
              Q. ha mal di testa: un cerchio gliela stringe insopportabilmente, il dolore le viaggia dalla nuca alle tempie, alle pareti laterali, le provoca la nausea; lei sta a denti stretti per resistere; la luce, il rumore, gli odori, le procurano fitte dolorose agli occhi, come chiodi che li perforino. “È un mal di testa tensivo signora, quando passerà la tensione anche il mal di testa passerà” le dice il neurologo del centro per le cefalee.
QUANDO PASSERÀ LA TENSIONE?
                Q. suda e trema, perde o acquista peso. -La sua tiroide ha una funzionalità appena appena anomala, la vogliamo chiamare capricciosa? dice l’endocrinologo, ma non è grave, non le prescrivo niente, si stabilizzerà spontaneamente. 
CAPRICCIOSA? NON E GRAVE?
                 Finalmente Q. incontra Il Professore. “Lei è qui e questa è una buona cosa; si è sentita naufragare e ha lanciato un sos. La sua è una depressione reattiva non  endogena, è una cosa incoraggiante, ne sono sollevato per lei.”
SOLLEVATO PER ME?
                      Q. comincia la terapia con il Professore: tre volte a settimana si trascina nel suo studio, si siede davanti a lui, prende il pacchetto di fazzoletti che le porge e piange. Piange per un’ora davanti al Professore, poi esce e piange lungo la strada e torna a casa e piange nella sua casa –ma piange in bagno perché sua figlia non la veda.
                   -Deve aiutarsi con dei farmaci, dice il Professore. Ma a Q. i farmaci fanno paura. -Lei ha un atteggiamento ambivalente, vuole guarire ma non vuole curarsi” e Q. prende i farmaci, ne prova uno poi un altro, poi un altro ancora; prova tutti quelli di prima generazione e poi quelli  più recenti ma nessuno va bene, le reazioni più pazzesche assalgono il suo corpo.
             Non c’è effetto indesiderato citato nei bugiardini che i farmaci non le procurino.
Consentite a chi scrive un piccolo appunto affidato all’Accademia della Crusca, sul termine bugiardino:
Il termine bugiardino, utilizzato per indicare il foglietto illustrativo che accompagna i farmaci, è una formazione semanticamente e morfologicamente trasparente, sulla base dell'aggettivo bugiardo con il suffisso del diminutivo -ino, adatto sia in riferimento alle dimensioni dell'oggetto sia per attenuare con una vena di ironia l'appellativo di bugiardo….non c'è dubbio che questo nome voglia puntare l'attenzione sulle prerogative di queste particolari "istruzioni per l'uso" che, soprattutto negli anni di boom della farmacologia, tendevano a sorvolare su difetti ed effetti indesiderati del farmaco per esaltarne i pregi e l'efficacia. Non erano quindi vere e proprie "bugie" quelle che vi si potevano leggere, ma nell'insieme il foglietto risultava un "bugiardino" che diceva piccole bugie o, meglio, ometteva informazioni importanti ma che potevano essere compromettenti per il prodotto.

               Benché omissivi i bugiardini elencano una serie di effetti indesiderati che Q. impara a conoscere per esperienza diretta
Eccoveli in ordine alfabetico:
Acufeni-Affaticamento-Agitazione-Allucinazioni-Amnesia-Anoressia Apnea- Cambiamento della libido – Capogiri- Confusione- Costipazione – Crisi ipertensive –
Difficoltà nell’articolazione del linguaggio-Difficoltà nel sonno
Difficoltà respiratoria-Ideazioni suicidarie – Ipotensione –
Mal di testa – Mancanza di coordinamento-Nausea – Palpitazioni –Pensieri di farsi del male- Secchezza della bocca –
Stanchezza -Sentirsi traballanti o instabile nei movimenti –
Scosse o tremori-Sonnolenza – Tachicardia –
Visione doppia o annebbiata – Vertigini –
             Q. è lieta che molti altri effetti indesiderati le vengano risparmiati ma leggerli sui bugiardini non l’incoraggia a mandar giù i suoi farmaci. E meno male che a quel tempo sui bugiardini erano taciuti effetti, che definire indesiderati è decisamente eufemistico, quali, in ordine alfabetico:
              Alopecia -Coma -Comportamento suicidario-Convulsioni-Diarrea- Disinibizione -Dolore alla gola -Dolore alla schiena o alle articolazioni-Euforia- Emorragia intracranica con emiparesi -Eruzioni cutanee- Extrasistolia- Fotofobia -Gonfiore del viso, delle ghiandole del collo, delle ascelle, dell’inguine- 
Ittero- Meningite-
Modifiche della funzionalità del fegato- Movimento vermicolare della lingua- Movimenti dell’ occhio rapidi e incontrollabili- Occhi rossi e gonfi-Prurito agli occhi, con secrezioni e croste alle palpebre- Sanguinamento o lividi inaspettati- Sintomatologia di tipo parkinsoniano- Sintomi influenzali -Spasmi muscolari incontrollabili che interessano occhi, testa e torso-Temperatura elevata- Ulcere nella bocca nella gola nel naso o ai genitali- Vomito.
Quale il peggiore per voi? A me fa ribrezzo il movimento vermicolare della lingua.
                       I bugiardini dei farmaci oggi sono ancora misteriosi, poiché alla reticenza è stato sostituito un linguaggio così tecnico da risultare quasi incomprensibile.
                     Per imparzialità di discorso segnalo qui qualche effetto non desiderato della psicoterapia: dissanguamento dell'economia del paziente, confusione del paziente di fronte alla inflazione di scuole e tecniche, proliferazione di terapeuti di dubbia professionalità-fino all’improvvisazione selvaggia- rischio di dipendenza, rischio di transfert devastanti. Segnalo anche che per analisi e psicoterapia non esistono bugiardini, neanche omissivi.
                      Sicché Q. accetta i farmaci, teme che il suo cervello ne venga irreversibilmente alterato e che gli effetti indesiderati divengano permanenti ma accetta i farmaci. E ne prova uno dopo l’altro. Si cerca il farmaco adatto a lei, il farmaco che l’aiuti senza procurarle manifestazioni terrorizzanti.
                La procedura è questa: Q. compra il nuovo farmaco, inizia con mezza pillola e trema: che cosa le accadrà? Invece non succede niente. Q. prende fiducia, passa ad un’ intera pillola e poi a una e mezza e ancora niente; forse lo abbiamo trovato il farmaco per me. Poi di botto non comanda più gli arti, non riesce a stringere le mani, le gambe pesano, non riesce a spostarle. Q. chiama il servizio di Guardia medica. Aiuto, mi sto paralizzando. -Ma no signora, è il sistema neurovegetativo, sono sintomi che a noi medici fanno sorridere. 
FANNO SORRIDERE?
                     La bocca di Q. è sempre asciutta, lei beve e beve, lo stomaco si gonfia, lei ha la nausea; Q. non ha fame, per due tre giorni non mangia niente, beve solo caffè; poi mangia di tutto prende dieci kili in tre mesi poi li perde in due, poi il peso riprende a salire. Passa da mangiatrice compulsiva a inappetente totale. Q. del suo corpo non risonosce né l’aspetto né il funzionamento.
                Q. non sa più chi è, l’dea di avere un io, debole o forte che sia, la lascia perlomeno perplessa. Di sé non sa più nulla, la sua identità se l’è filata all’inglese e l’ha lasciata con una tizia molesta e imbranata con la quale è difficile accompagnarsi.
               Se questa noiosa non abitasse nel suo corpo Q. non la vorrebbe mai, non dico come amica, ma neanche come semplice conoscente. Non vuole fare niente di quello che Q. ha sempre amato fare: né leggere, né scrivere, né viaggiare, né andare per musei, mostre, cinema, teatri; niente le interessa, non la politica, né la musica, né l’esplorazione di borghi e paesi, né il mare né i monti né la collina, né i ristoranti, né  le boutiques, né, né, né...
            È pesante anche nella semplice quotidianeità: non vuole mai alzarsi dal letto, è restia a lavarsi, non si decide mai a vestirsi. Uscirci insieme è una lagna: cammina a testa bassa, bisogna continuamente controllarla quando attraversa la strada, è persino maleducata e mette Q. continuamentein imbarazzo: non risponde al saluto dei conoscenti o risponde mettendosi a piangere.
              Non è possibile indurla ad accostarsi alle finestre, a salire sul terrazzo: attrazioni fatali, dice, misure precauzionali, dice. Che impiastro!
              E che pusillanime! Ha paura di prendere l’autobus, di entrare nei negozi, di rispondere al telefono, di aprire la cassetta della posta; ha paura di strozzarsi, di perdere il meccanismo automatico della respirazione. C’è da impazzire a frequentarla.
                Infatti Q. ha paura d’impazzire. Forse è già pazza.
La sua paura di impazzire è la prova che non è pazza -le dice sorridendo il Professore-  i pazzi credono alla loro realtà, non pensano di essere pazzi. Ci vuole pazienza.
CI VUOLE PAZIENZA? Passa un anno, ne passano due, ne passano tre...
                  Intanto Q. approda in prima serata. In televisione si parla di lei;  la depressione diventa una malattia di moda, finalmente Q. fa audience. Specialisti o soi-disant specialisti, sulla depressione dicono di tutto e il suo contrario. Si accapigliano sul suo dolore fondamentalmente tre categorie di specialisti: lo psichiatra, lo psicologo, il neurologo. Q. non ti scandalizza: trova normale che ognuno difenda la propria fetta di mercato.
                Le vengono proposte terapie diverse: terapie farmacologiche, terapie psicodinamiche -psicoanalisi freudiana o junghiana; brevi psicoterapie interpersonali, con o senza counseling, terapie cognitivo-comportamentali. Cocktail terapeutici anche fantasiosi trovano i loro cinque minuti di visibilità in tv, i testimonial più diversi le parlano dallo schermo, ex depressi esibiscono la loro guarigione. Invidiarli richiederebbe troppa energie. Q. ti limiti ad ascoltarli.
             Parenti e amici fanno appello al suo carattere, alla sua riconosciuta forza e Q. si sente sempre più colpevole: cerca il suo carattere e non lo trova, della parola forza ignora ormai anche il significato. Ma intorno a Q. si sussurra e la parola più frequentemente pronunciata è “reagire”. L’altra è volontà.
Il Professore fa spallucce: le butti a mare entrambe.
Il Professore sa che Q. non può andare al mare, ma il linguaggio figurato li accomuna con reciproca soddisfazione. Sul buttarsi a mare, ove riuscisse ad arrivarci, Q. ci fa un pensierino, soprattutto quando dalla tv la informano che le statistiche dicono che al quarto anno potrebbe uccidersi. Morire ci sta, ma uccidersi? 
Professore ho una figlia, non posso uccidermi, mi ricoveri.
               Questo desiderio di essere ricoverata torna spesso perché Q. non vuole più occuparsi di Q. È stanca di Q., vuole abbandonarla al suo destino e delegarne la cura: che qualcun altro si occupi di Q.
-Lei non si ucciderà signora, SCOMMETTIAMO? Il Professore ha un forte senso dell’umorismo che potenzia quello di Q. Sicché quando non piange fa battute. Il Professore la trova simpatica. 
                Intanto la natura diventa nemica di Q.  Non può stare all’aria aperta, il cielo le fa paura, è troppo vasto, la mente si perde; il mare l’angoscia: le sembra che monti e si arruffi anche quando è una tavola o che si faccia palude anche quando placide onde lo solcano;  i monti la soffocano, incombono, la guardano malignamente;
                      Se Q. si trova negli spazi aperti non ha niente cui ancorare il suo pensiero, la mente se ne va via, i pensieri l’aggrediscono; ha bisogno di cose piccole, concrete su cui posare lo sguardo e l’attenzione. Ma il troppo piccolo la soffoca, il chiuso l’opprime, ascensori, tunnel, porte chiuse, musei, cinema, teatri, sale di aspetto, le sono precluse: il suo corpo le scatena contro la machina scaenica.
                   Q. prova i sentimenti che provano tutti i depressi: paura e vergogna; paura, vergogna e senso di colpa; paura, vergogna, senso di colpa e senso di inadeguatezza. Non capisce perché vive, dal momento che non sa vivere e si sente indegna della vita e della società di "normali" che la guarda e la giudica.
                   Suo marito è il suo solo alleato. È un illuminista, uno scienziato, le psicoterapie lo lasciano molto freddo; ciò nonostante scommette sullo psichiatra e terapeuta di Q. e i luminari cui l’ha portata la sua ipocondria vengono definitivamente abbandonati.

Come sappiamo a quel tempo Qualcuno frequentava molti luminari e sbigottiva. 
(9/ continua)