martedì 23 agosto 2011

poeti

Quando all'improvviso, del tutto inaspettatamente, mi vengono alla mente alcuni versi che si accompagnano al mio sentimento o violentemente lo contestano, io capisco meglio e più profondamente il valore senza uguali dell'esistenza dei poeti. Essi conoscono ognuno di noi e non lo ammaestrano, no, questo non gli interessa; lo capiscono e lo chiariscono a se stesso, lo precedono e lo seguono passo passo, lo accompagnano e lo contengono.
Lo consolano? Domanda senza senso per me. Una poesia non mi consola: mi sta vicina, mi sta dentro, trova la via per la più profonda e sincera parte di me stessa.

mercoledì 10 agosto 2011

dieci agosto

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla...
Giovanni Pascoli

martedì 2 agosto 2011

sul pianto: tra scienza ed esperienza

Questa è la voce di Wikipedia sul pianto.

Per pianto si intende comunemente l'atto di produrre e rilasciare lacrime in risposta ad un'emozione, sia essa negativa (dolore), che positiva (gioia).

Queste due componenti, lacrimazione ed emozione, possono anche non essere compresenti. Nei neonati, per esempio, data l'immaturità del dotto lacrimale, si può verificare un pianto senza lacrime. Altre situazioni, invece, determinano spremitura della ghiandola lacrimale in assenza di un'emozione correlata, come l'inalazione di odori pungenti (cipolla) o l'innervazione della ghiandola lacrimale da parte di neuroni secretagoghi diretti primitivamente alle ghiandole salivari (definita "pianto del coccodrillo").
Infine, il cosiddetto "piangere dal ridere" descrive una situazione dove non è tanto l'emozione gioiosa a determinare lacrimazione, quanto il complesso delle attivazioni muscolari determinato dal riso.

Il piangere è stato definito come "un complesso fenomeno secretomotore caratterizzato dall'effusione di lacrime da parte dell'apparato lacrimale, senza alcuna irritazione per le strutture oculari",[1] in cui un collegamento neuronale tra la ghiandola lacrimale e le aree del cervello è coinvolto in un'emozione dapprima controllata. Si ritiene che nessun altro essere vivente oltre l'uomo possa produrre lacrime come risposta ai diversi stati emozionali,[2] benché ciò non sia del tutto corretto per diversi scienziati.[3]

Le lacrime prodotte durante pianti emozionali presentano una composizione chimica diversa dagli altri tipi di lacrime: contengono infatti un quantitativo significativamente più alto di ormoni prolattina, ormoni adrenocorticotropo, leu-enkefalina[4] (un oppioide endogeno e potente anestetico), potassio e manganese.[2]

Stando ad uno studio su oltre 300 individui adulti, in media gli uomini piangono una volta ogni mese, mentre le donne piangono almeno cinque volte al mese,[2] specialmente prima e durante il ciclo mestruale, quando il pianto può incrementare anche di cinque volte, spesso senza evidenti ragioni (come depressione o tristezza).[5] In molte culture è più socialmente accettabile per donne e bambini piangere che per gli uomini.[2]

Funzione

Sulla funzione ed origine delle lacrime emozionali non si è ancora trovata una risposta definitiva: le diverse teorie proposte spaziano dalle ipotesi più semplici, come una risposta al dolore provato, a quelle più complesse, compresa la comunicazione non verbale atta a "farsi comprendere" dagli altri.[6]

Per Ippocrate e la medicina medievale, l'origine delle lacrime era da attribuirsi allo stato umorale del corpo, mentre il pianto era percepito come una purificazione del cervello dagli eccessi umorali.[7] William James interpreta le emozioni come riflessi a priori del pensiero razionale, argomentando che lo stato fisiologico, come è lo stress, sia una precondizione necessaria per raggiungere la piena conoscenza delle emozioni come l'ira.

William H. Frey II, biochimico all'Università del Minnesota, ha dichiarato che le persone si sentono "meglio" dopo aver pianto, a causa dell'eliminazione di ormoni associati allo stress, e più specificamente degli ormoni adrenocorticotropo.[8] Questo, unito all'incremento delle secrezioni delle mucose mentre si piange, potrebbe condurre alla teoria che il pianto sia un meccanismo sviluppato nell'uomo per disporre di questo "ormone antistress" come valvola di sfogo quando il livello di stress accumulato è troppo elevato.

Recenti teorie psicologiche evidenziano la relazione tra il pianto e la percezione della debolezza.[9] Da questa prospettiva, la marcata esperienza di debolezza può spiegare in generale perché la gente piange.

E io? Che cosa posso dire io del pianto?

C’è chi non piange, ma piange dentro, senza singhiozzi o lacrime.

Anche questo è un pianto. Forse negazione, forse difesa, forse rimozione, forse solo temperamento e forza.

In ogni caso il pianto non può essere la prova richiesta per attribuire il titolo di vero addolorato a chi scioglie il suo corpo in lacrime mai sazie e negarlo invece a chi è ammutolito e secco dentro la sua disperazione; non è e non può essere una linea di confine tra un dolore e l’altro, uno forte e l’altro medio, uno cocente e l’altro blando; perché ci sono circostanze della nostra vita in cui non esiste un dolore e l’altro. Esiste il non dolore o il dolore e la sua voce suona sempre allo stesso modo, con le lacrime o senza le lacrime. Lo so, lo vedo nel mio gruppo, so di poterlo affermare.

Ma oggi è del pianto sciolto che voglio parlare, di questa risorgente fonte di disperazione che vive nel nostro corpo e che ci colma senza mai svuotarsi.

C’è un pianto che si vorrebbe controllare, trattenere, vietarsi. E trattenerlo fa male, controllarlo stanca e può divenire intollerabile. Non piangere consuma e brucia le energie di chi è colmo di dolore e vuole, ha bisogno, di farlo uscire da sé, di guardarlo fuori di sé, di toccarlo quasi, nel fazzoletto appallottolato stretto tra la mani. Ha bisogno di intriderne il proprio corpo, sperando quasi di vederlo sciogliere, di sentirlo assottigliarsi, svuotarsi, scomparire infine.

Infatti nel ritorno e ritorno del pianto, senza mai saziarsene, nel suo risorgere con tenacia infinita che non tiene conto del passare del tempo, c’è forse il segno di un desiderio non sempre consapevole, né confessato o confessabile, di vedere l’esaurimento del proprio corpo, un tentativo occulto di bruciarlo nelle lacrime, di affogarcelo, di spegnercelo.

Il pianto può divenire dolce, lo so. Ma quanti secoli ci vogliono?

L’affacciarsi del pianto, se qualcuno minimamente sfiora con il dolente la sorgente della sua disperazione, si chiama “commovibilità”. Gli psichiatri la testano, facendo domande al loro paziente. Se la commovibilità è scarsa si compiacciono, altrimenti scuotono la testa: “siamo ancora in pieno lutto” dicono al loro paziente.

Circa la durata del lutto esiste, sembra, una casistica. Si misura in anni. Tot anni per un padre, tot per una madre (sembra che siano di più). Tot per un coniuge e tra perdere un marito o una moglie sembra esserci differenza. Le donne indugiano nel lutto. Gli uomini sono più scattanti. Per un figlio il tempo non si misura. La casistica dice N.P. non pervenuto. Non pervenibile.

Ci sono numerose letture sulla perdita, sul lutto, sul pianto. Di valore diverso.

Se ne occupano ciarlatani, famosi analisti freudiani e junghiani, semplici testimoni, narratori, psicologi, santoni. Alcuni di questi libri possono servire sul piano della conoscenza, aprono qualche fessura di maggiore comprensione ma non asciugano nemmeno una lacrima.

Questo è quello che io so del pianto.