giovedì 5 novembre 2009

andatura lenta


La citazione con cui apro questo post l'ho letta, se non sbaglio, sul blog, ormai scomparso, di Annamaria. Ho cercato allora il libro, l'ho letto e apprezzato molto e ho ripreso la citazione che mi parla in modo personale.

"Per molto tempo crediamo di conoscere la natura dei nostri desideri, delle nostre inclinazioni e dei nostri stati d'animo. Ma poi arriva un attimo in cui un'esplosione assordante -perché il pianissimo del silenzio può equivalere talvolta al fortissimo di uno scoppio- ci avverte che viviamo in luoghi diversi da quelli in cui vorremmo vivere, che non ci occupiamo delle cose per cui abbiamo attitudine, che cerchiamo i favori o suscitiamo la collera di persone con cui non abbiamo nulla in comune, mentre ci manteniamo distanti, sordi e indifferenti nei confronti delle persone di cui sentiamo nostalgia e a cui siamo legati da un vincolo profondo. Chi non presta ascolto a un tale avvertimento rischia di vivere una vita goffa e dimezzata, senza mai essere veramente se stesso. Non è un sogno e neanche "un sogno a occhi aperti": è uno strano, rapinoso stato d'animo quello che ci rivela quali siano i nostri compiti, i nostri obblighi e il nostro destino, e che cosa, nella nostra vita, appartenga esclusivamente a noi; questi istanti ci mostrano cosa vi è di personale nella nostra esistenza, quello che entro i limiti angusti della condizione umana costituisce l'essenza specifica dell'individualità."
Questo lo scrive Sandor Màrai. (Confessioni di un borghese)

Gli risponde Murakami Aruki (L'arte di correre):

"Non c'è bisogno di dirlo, scalando i gradini uno per volta, mi occorre molto tempo per giungere a cogliere il significato delle cose. Molta attenzione. Succede anche che ci metta troppo tempo e, quando finalmente comprendo, ormai è troppo tardi. Ma non ci posso fare nulla. Perché questa è la mia natura."

E insiste:

"A pensarci bene, una persona riesce a costruire la propria personalità e a preservare la propria autonomia proprio perché è differente da tutte le altre...Il fatto che sia io, e non un altro individuo, per me costituisce un patrimonio prezioso. Le ferite spirituali non rimarginate sono il prezzo che gli esseri umani devono pagare per la propria indipendenza."


Mi chiedo:
Se essere indipendenti significa al fondo essere fedeli a se stessi, in che cosa consiste davvero la fedeltà a se stessi?
Deve sempre trasformarsi in agire? Bisogna fare per essere?
O c'è un modo più segreto, intimo, silenzioso di mantenersi fedeli a noi stessi mentre conduciamo vite che non ci somigliano? O che somigliano solo ad una parte di noi?
E quando sapremo, finalmente, quale era la parte di noi che aveva più diritto di "farsi agire"?
Alla fine della vita, forse?

Tu sei complessa -mi disse un'amica molti anni fa'- ma non sei complicata.
Dichiarai che non vedevo una grande differenza. La cercai sul dizionario dei sinonimi. Tra i sinonimi di "complicato", "complesso" non c'è. Ma tra i sinonimi di "complesso", come seconde scelte, in un'area semantica più distante, appaiono alcuni termini comuni.
Quello che credetti di ricavarne è che di una personalità complessa si può venire a capo, che esiste una strada per dipanarne la matassa e portare in chiaro ciò che necessita di essere portato in chiaro. Mentre la personalità complicata è forse destinata a permanere nell'intrico e nell'oscurità.
Tirai un sospiro di sollievo.
Ciò nonostante pur essendo io complessa ma non complicata la mia battaglia per arrivare a me stessa è stata molto lunga. E non si è, certo, ancora arrestata. Perché io sono lenta.
Ho intuizioni fulminee che giacciono là per anni. Sedimentano, sedimentano e sembrano non voler venire mai a galla. E' pur vero, però, che la coscienza che poi prendo delle cose è stabile, non indietreggia mai; è una conquista solida e inalterabile.
Ciò nonostante confesso di provare invidia per quelle persone che precocemente sanno giungere alla scoperta di se stesse, dei loro bisogni, delle loro più intime necessità.
Di quelle che non sbagliano nello stabilire le priorità tra le diverse istanze che gli si agitano dentro.
Anche a queste può succedere, è vero, di smentire un giorno se stesse, ma succede in genere molto avanti nelle loro vite, dopo che hanno seguito, e a lungo, le loro chiamate.
E, in genere, accade perché nuovi bisogni sorgono in loro. Non vivono insomma con un se stesso che cerca di venir fuori e che non sa farsi sentire o che parla con una voce non chiara.

In che cosa davvero consiste mantenersi fedeli a questo se stesso che confusamente si agita dentro di noi e manda segnali talvolta deboli talvolta fragorosi ma fulminei?
Haruki e Màrai, in altri libri, hanno dato la loro risposta. E la risposta sembra condannarmi alla sconfitta. La risposta dice che, senza un deciso agire consequenziale, non c'è fedeltà.
Naturalmente Haruki e Màrai sono due uomini. Permettetemi di dire che questo fa la differenza. E questo solo una donna lo sa.
Io, in quanto donna, e come tale depositaria di un millenario destino di pesi sulle braccia e sulle spalle, io invece questo lo so. Questa è una di quelle prese di coscienza di cui vi parlavo prima; quelle chiare, solide e non scalfibili. Tanto che i dinieghi maschili neanche li ascolto più.
Ci sono conoscenze non trasmissibili e questa è una di esse.
Essere donna è un accidente cromosomico che si fa destino a causa -per colpa- della società.
Certo anche il destino può essere infranto, capovolto, sovvertito. Molte donne ce l'hanno fatta e molte ce la fanno. Voglio credere che sempre più donne ce la faranno anche se i segnali dell'oggi non sono buoni. Ma punto sull'andamento carsico della "coscienza di essere donna". Essa si riaffaccia sempre. E' vero che nel frattempo tante vite di donna sono state sviate, soffocate, usate per scopi altrui, sacrificate alla realizzazione di altri individui. Ma questo avanzare sotterraneo, come una talpa, non cessa mai. E lo scontento delle donne, -non voglio compiacermene no!- lo scontento delle donne è per me, paradossalmente, la migliore speranza. E garanzia.
-Chi sta bene non si muove-, diceva mio padre. Con un lampo negli occhi gli rispondevo: -Ma chi sta male prima o poi si muoverà-. Naturalmente era proprio quello che lui voleva dirmi. Anche se penso che avrebbe magari potuto darmi lui uno scossone, non ho nessun rimprovero da fargli. Era un uomo ed era nato all'inizio del 1900. E poi questo fa parte di un altro discorso di cui mio padre ed io continuiamo a discorrere anche ora che lui non c'è più. No, con mia madre non ne discorro. Anche lei non c'è più e anche lei apparteneva a quell'epoca lontana ma, soprattutto, è stata solo un anello nella pesante trasmissione di quel destino, un anello vittima prima che colpevole. Se molte cose non so perdonare alla madre so però riconoscere tutte le attenuante dovute alla donna. Se non ne fossi capace che cosa avrei imparato da dieci anni di femminismo?

Comunque, nel mio infinitamente piccolo rispetto ad Haruki e a Màrai, la mia risposta è diversa dalla loro.
Io credo che la vera fedeltà è nella ricerca. Intenzionalmente non ho usato il congiuntivo in questa proposizione. Per dirvi la certezza della convinzione cui sono giunta. No, non la considero una regola universale. Parlo della mia propria fedeltà a me stessa. La mia natura è la natura di una interrogante. E' così e non ci posso fare niente. Posso avere rimpianti -e ne ho- posso riconoscere errori -e ne riconosco- posso anche piangere - e piango- su litri di latte versato, ma in qualche luogo più profondo di me, io so di aver rispettato, della mia natura, un punto che la qualifica, che la distingue, che fa me di me. Consiste proprio nell'interrogarmi sempre, nello scavare sempre, nel cercarmi sempre. Nel lavorare attorno a quella complessità di cui parlava la mia amica. Nel tenerla sempre presente perché nessuna dimensione è davvero esclusivamente la mia. Quello che ho cercato di fare nella mia vita è stato non ridurre al silenzio nessuna parte di me. E quelle cui non potevo dare spazio, quelle che sacrificavo agli affetti, agli amori, alle passioni e ai doveri, quelle le custodivo dentro di me, o le esercitavo tra me e me, nascostamente. Le rassicuravo e le placavo, le cullavo e le proteggevo. Aspetta, mi dicevo. Aspetta.
Ho rischiato molto, sì. E ancora non so se ho perso. Ma la vita non è finita. No, la vita non è finita.
Lo dice anche Haruki: "Per quanto si avanzi negli anni, finché si campa si scopre sempre qualcosa di nuovo su se stessi."
In questo Haruki, Màrai e persino io, siamo d'accordo: la vita è molto, molto lunga ed offre la possibilità di portare alla luce parti vitali e necessarie di noi stessi fino all'ultimo giorno.
E il tempo perso allora?
No, il tempo perso non esiste. Il tempo non è mai perso. Il tempo è stato necessario perché io incontrassi me stessa. E' stato tempo di lavoro, io lo rispetto.
Certo tutto avrebbe potuto essere più facile. Ma le forze che agiscono sulle nostre vite sono talmente tante e così diverse! C'è anche il caso, amici miei, "il vero legislatore del mondo" come lo chiamava Goethe.
So che ci sono persone pronte a giurare che ognuno è faber fortunae suae.
Secondo me sono quelle persone che il caso ha favorito e che non sanno riconoscere le difficoltà o le circostanze non favorevoli che la vita ha posto di fronte agli altri; quelle che non solo hanno avuto fortuna ma sono anche severi con chi non ne ha avuta. Sono ingenerosi e irrealistici. No, non siamo totalmente padroni delle nostre vite. Abbiamo la nostra parte di responsabilità ma non più di una parte. Non lo dico per assolvere o consolare me stessa. Lo dico perché lo credo. Noi siamo, io non lo dimentico mai, organismi in un ambiente. Abbiamo una natura su cui possiamo agire limitatamente. E' in quei limiti che possiamo indirizzare il nostro cammino. Ed è in quei limiti che siamo responsabili. Io sono disposta a riconoscere la mia parte di responsabilità ma non sono disposta a farmi flagellare come quelli che si dicono continuamente i loro "avrei dovuto". A loro rispondo "Ma avresti potuto?". O, per meglio dire: "In quale misura avresti potuto"? Tieni conto di tutte le condizioni, di tutte le variabili, di tutti i casi e gli accidenti e le spinte e le controspinte. Non affrettiamoci ad assolverci ma non lasciamoci annichilire dalla sensazione di essere gli unici responsabili - e spesso responsabile ci suona come colpevole- di tutto quello che ci accade o ci è accaduto.
Viviamo nel tempo e nella società: la nostra storia vive nella storia. Ricordiamocelo.



14 commenti:

  1. Bellissimo. No, il tuo post non mi è bastato per cancellare i miei sensi di colpa, ma l'avermi ricordato che il nostro agire è limitato ha giovato alla mia coscienza. A volte ci affanniamo ad esaudire dei desideri che non abbiamo più e non ce ne rendiamo conto. Ti rubo il primo brano di Màrai, Ciao.

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  2. Credo che, principalmente, bisogna essere consapevoli di ciò che si è, di ciò che si agita dentro, di come siamo e fatto questo, decidere come agire nei confronti del mondo. Se si sceglie di vivere vite che non ci somigliano dobbiamo essere noi a scegliere di farlo e non la vita a sccegliere per noi. Credo che più che di "complessità" e di "complicatezza" si abbia semplicemente bisogno di "consapevolezza".

    Un abbraccio

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  3. Brava, ottimo post!
    Mi piace soffermarmi su un punto a mio avviso importante.

    So che ci sono persone pronte a giurare che ognuno è faber fortunae suae.
    Secondo me sono quelle che il caso ha favorito e che non sanno riconoscere le difficoltà o le circostanze non favorevoli che la vita ha posto di fronte agli altri; quelle che non solo hanno avuto fortuna ma sono anche severi con chi non ne ha avuta.


    Concordo in pieno con quello che hai scritto. Questo è il motivo per cui evito di parlare di questioni personali con determinate persone: so già in anticipo che genere di risposte riceverei.
    Ci sono esperienze, ed effetti di tali esperienze, che possono essere comprese soltanto da chi le ha vissute in prima persona.
    Gli altri non possono o non vogliono capire, perché la buona sorte rende spesso presuntuosi, ciechi e sordi nei confronti del prossimo.

    Un abbraccio. :))

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  4. condivido, non serve logorarsi con dei "se avessi?"... certo strada facendo talvolta IN QUELLA PARTE ACCESSIBILE DI NOI A NOI STESSI....si può sempre cercare d'aggiustare il tiro in qualcosa!!!
    un abbraccio :-)

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  5. Quanta Verità,
    quanta saggezza,
    quanta bellezza,
    quanta Consapevolezza.

    Oh che piacere leggerti Marina,
    che piacere leggerti, ora, che avevo bisogno di sentirmi meno solo nella mia complessità.

    Grazie, davvero.

    ¿Emiliano?

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  6. Condivido molto, Marina, credo tutto quello che è importante, sul resto mi faccio domande da occidentale, inserito in una cultura che ha generato la psicanalisi per risolvere dissesti tra l'essere e l'apparire. Concordo che la fedeltà a se stessi sia una direzione, più che una acquisizione definitiva. del resto ci sarebbe ben poco interesse in me se sapessi tutto di me. Penso anche che le donne abbiano canali comunicativi diversi rispetto agli uomini, anche altri centri di interesse (ne scrivevo in questi giorni, ma l'individuo è poca cosa senza relazione e senza coscienza collettiva. Sulla capacità di rimuovere il peso di millenni di sopraffazione se non ci sarà alleanza la vedo una faccenda lunga, magari dall'esito positivo, ma certo diverso da quello che si immaginava 30 anni fa. E nuove sopraffazioni si stanno scambiando con indifferenze generalizzate.
    Complimenti per il post.
    willy

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  7. Essere donna è un gran passo, diceva pasternak,
    essere fedeli a sè stessi secondo me è continuare a cercare di capire chi siamo, non smettere di porsi domande e pazienza se sembriamo complicate

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  8. Le vostre osservazioni mi aiutano e mi incoraggiano a riflettere ancora.
    buona ricerca a tutti noi!
    marina

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  9. Porsi domande ed evitare accuratamente tutte le possibili risposte mi sembra l'unico modo possibile di essere fedeli a se stessi. Mi sorgono solo un paio di dubbi, su come si faccia a governare un paese o a tirare su un figlio evitando accuratamente ogni tipo di risposta ;-)

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  10. Cara Marina, non ci crederai, ma ero d'accordo con TUTTO quello che hai scritto anche prima di leggerti. Ti devo confessare che la consapevolezza di tutte queste cose che hai scritto sono state frutto della mia perenne ricerca (che mi è costata parecchi soldi in sedute di psicoterapia!).
    Mi ha stupito molto sentire che anche tu sei arrivata alle mie stesse conclusioni. A te dovrebbe stupire perchè io sono maschio e tu femmina?
    Giorgio.

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  11. @Giorgio: No, non mi stupisce affatto! dico solo che sulle vite delle donne pesa sempre un masso in più...
    buona giornata, marina

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  12. E' proprio così, ego me absolvo, andiamoin pace.
    Bellissmo post, mi ricorda il grasso solido galleggiante sul brodo di pollo che quell'illustre psichiatra chiama coscienza.
    Sottoscrivo in toto (e sono anche un po' fiera per esserci arrivata prima di te, per una volta :-)

    Attenzione: ci saranno momenti in cui questa bella e serena consapevolezza sarà sopraffatta dal rimpianto e dal malumore. Ca arrive. Rimettiamo in frigo il brodo e aspettando che il grasso coaguli rileggiamoci il tuo post.

    baci a tutti, bibi

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  13. molto belle le citazioni ma soprattutto grazie per le tue riflessioni, grazie perché ci ricordi l'impresa a cui siamo chiamati, che non è ardua,cercare l'equilibrio tra l'autoassolversi e l'autocondannarsi...
    Però bastasse avere consapevolezza dei propri limiti! Il tarletto delle insane abitudini lavora instancabilmente...Questo è un post che rileggerò spesso, lo so. Ti abbraccio

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