martedì 15 settembre 2009

parole

La parola provocazione va molto di moda.

C'è molta gente che si sente particolarmente acuta per il fatto che mette in atto quelle che chiama "provocazioni".

La politica ne è un buon esempio.
Oggi il tizio X fa una dichiarazione che suscita tutto un insorgere di reazioni vivaci o rabbiose e la riprovazione generale per la sua rozzezza o violenza o idiozia o inconsistenza logica o morale. Allora il tizio X dichiara trionfante: Era una provocazione!

Anche nella vita privata capita, sempre più spesso, che il tizio Y lanci là una frase offensiva o un giudizio ingeneroso o semplicemente immotivato, o un'ipotesi maligna, oppure che parli "a schiovere" ma con l'aria di discettare, di sapere qualche cosa dell'altro che l'altro non sa e che lui farà uscire fuori. Di fronte poi alle perplessità o rimostranze altrui si giustifica così: Era una provocazione!

Ora IMHO (come ho imparato a scrivere da bip, cioè "secondo la mia modesta opinione"), delle due l'una: o il pensiero espresso è davvero un convincimento del provocatore e allora deve essere capace di difenderlo fino in fondo e, se richiesto, di motivarlo oppure è, appunto, un parlare "a schiovere" e allora dovrebbe scusarsene e basta. Dire "era una provocazione" è pura ipocrisia. Per non parlare dell'aria di trionfo e soddisfazione con cui viene detto. Come se dicesse: "vedi come sono bravo? Provoco!".

Ogni volta mi chiedo: in che cosa consiste esattamente il merito di chi provoca? E' sottinteso che dovrebbe servire a ottenere da parte dell'altro una reazione rivelatrice rispetto ad un fatto o opinione o suo comportamento.
Ma allora perché il provocatore non chiede semplicemente l'opinione altrui, avanzando tranquillamente la sua ipotesi in merito?
Può darsi che il provocatore sia particolarmente diffidente? Può darsi che il provocatore sospetti nell'altro la sua stessa ipocrisia o mancanza di coraggio?
Può darsi che lo creda semplicemente uno sciocco, incapace, senza la sua spinta, di riconoscere il suo vero pensiero?
Io non sono, come si potrebbe facilmente credere, una persona molto aperta; sono invece una persona diretta. E gli atteggiamenti circonvolutori per il raggiungimento di uno scopo mi infastidiscono. E non poco.

Per chiarimi circa il recente e sbarazzino consenso sociale verso la figura del provocatore sono tornata alla lingua.

provocatore s.m. (f. –trice)
1. Chi col proprio atteggiamento o comportamento provoca alla violenza: la polizia ha disperso un gruppo di provocatori• Come aggettivo: agente provocatore, chi induce altri a commettere un reato per poterlo denunciare~ Che irrita o indispone: atteggiamento p.; petulanza p.
2. non comune: Suscitatore di una reazione fisica; anche come agg.: sostanza p. del vomito.
Dal lat. pro-voco
chiamo fuori faccio uscire; pro= avanti voco= chiamo


provocazione s.f.
1. Atto diretto a provocare una reazione irritata o violenta: non tollero provocazioni; meno com., con allusione a reazioni puramente fisiche (p. del vomito) o tali da risolversi in un comportamento illecito o peccaminoso (p. al vizio).
2. Nel diritto romano, citazione, chiamata in giudizio.
3. Nel diritto, circostanza attenuante prevista per chi ha reagito in stato d’ira provocato da un atto ingiusto altrui.

(Esiste, è vero, anche un' estensione del termine che si attribuisce ad un vivace suggeritore di idee, un individuo particolarmente stimolante: da cui l'espressione, ad esempio nei convegni, "un intervento provocatorio". Ma deve trattarsi appunto di un vivace suggeritore di idee, di un individuo la cui originalità di pensiero sia capace di far accendere lampadine di dubbio nelle menti altrui. Beh, non mi sembra merce molto comune. Non tanto quanto sono comuni i più modesti provocatori.)

Dunque, per restare alla lingua, mi sembra chiaro che il provocatore non ha per scopo del suo intervento la comunicazione con l'altro. Il capirsi, l'affrontarsi, il discutere ecc . Non ha uno scopo comunicativo. E neanche conoscitivo.
La provocazione è un atto pragmatico e ingiusto. Punta ad una reazione violenta.
Ma è l'atto di una persona pavida che subito si tira indietro e si nasconde dietro la formula "Era una provocazione". (Che poi ci sarebbe molto da scrivere sull'uso di quell'imperfetto, era, come a chiudere la pratica. Ma non voglio tediarvi troppo).
Voler suscitare una reazione risentita e potenzialmente violenta da parte del nostro interlocutore non è un atteggiamento adulto, né razionale. Spesso i bambini tra di loro sono provocatorî.
Colui che punta alla reazione incontrollata di un altro, apparentemente con freddezza, in realtà è mosso da motivazioni più oscure.
Nei rapporti interpersonali la provocazione nasconde (male) un sentimento di ostilità. Ti provoco perché voglio vederti in un tuo aspetto negativo, ti provoco perché voglio causarti irritazione, fastidio; ti provoco perché mi stai sulle palle ma non ho il coraggio di dirtelo; ti provoco perché spero che tu ti sveli a me peggiore di quello che temo che tu sia e così via...

Motivazioni dunque per nulla limpide.
Così come erano oscure (non dicibili) le motivazioni delle provocazioni politiche del periodo storico da cui io provengo. Infatti allora chi provocava, nei cortei, nelle piazze ecc. era un provocatore e per i provocatori c'era disprezzo e condanna sociale.
Del resto l'arte della provocazione politica ha ancora i suoi sostenitori e i suoi specialisti.

Roma Piazza Navona-29 ottobre 2008- provocazione fascista alla manifestazione studentesca contro il decreto Gelmini.

Tornando ancora al latino "chiamo fuori, faccio uscire" la domanda è: perché chiamo fuori? perché voglio far uscire?
Escludendo la politica, nei rapporti interpersonali questa è LA domanda.
La domanda cioè non riguarda la reazione del provocato ma l'intenzione del provocatore. Il provocato ha due sole scelte: può ignorare la provocazione, facendo appello al suo self control e alla sua indulgenza o può cadere nel tranello. Ma se cade nel tranello conserva la sua "innocenza" giacché gli è stata rivolta una ingiuria che prevedeva la sua reazione. Non c'è niente di sorprendente né di vergognoso nello sdegnarsi. Tu mi insulti per offendermi. Io mi offendo e reagisco. Secondo me fila liscio come l'olio. E il provocatore che crede di aver fatto chissà che scoperta ha in realtà scoperto l'acqua calda: le persone offese, si offendono. E, spesso, reagiscono. Banale.

Dunque la vera domanda, possibilmente provocatoria, il provocatore dovrebbe rivolgerla a se stesso e chiedersi: Perché sento il bisogno di indurre l'altro ad una reazione scomposta? Perché provo il desiderio di offenderlo? di ingiuriarlo, di provocarlo ad un comportamento reattivo violento?

Per quanto mi riguarda il provocatore, categoria che non ho mai smesso di detestare, dice di sé molto più di quello che crede di scoprire dell'altro.
E quello che dice di sé non è bello.

6 commenti:

  1. Analisi lucida ed accurata di una grande maestra, complimenti vivissimi hai centrato il bersaglio come sempre.
    Un abbraccio
    Sileno

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  2. Un po' manichea la tua posizione, secondo me. Se davvero vogliamo considerare "provocare" nel senso di far venire fuori, suscitare, credo che sia poi incoerente considerarla come un'ingiuria. La provocazione in sè mi pare una cosa nobile, come un punto di vista differente che può solo arricchirci.
    L'ingiuria, ovviamente, non è una provocazione, ingiuria è ed ingiuria rimane, qualunque sia lo scopo che si prefigga.
    Quindi, non è che tu sia contro le provocazioni, ma contro l'abuso della parola, quando fa da scudo alla propria insolenza.
    Per favore, quindi, preserviamo il valore delle provocazioni che siano realmente tali, e soprattutto del termine di cui in realtà abbiamo tanto bisogno.

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  3. Non per nulla il mio motto è: non dire poco con molte parole, ma molto con poche parole. I provocatori li sopporto molto poco.

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  4. Bel post Marina,
    analisi perfetta!!
    Un bacio
    Ornella

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  5. Marina@ Dunque la vera domanda, possibilmente provocatoria, il provocatore dovrebbe rivolgerla a se stesso e chiedersi: perché sento il bisogno di indurre l'altro ad una reazione scomposta? Perché provo il desiderio di offenderlo? di ingiuriarlo, di provocarlo ad un comportamento reattivo violento?

    Per invidia, per pura malignità - certe persone sono maligne per istinto -, per frustrazione personale, cioè per proiettare le proprie insicurezze e i propri complessi sugli altri.

    Alcuni di costoro, infatti, odiano se stessi o si disprezzano e quindi cercano di colpire il prossimo affondando la lama nei suoi presunti punti deboli. Un po' come se dicessero "io mi faccio pena, io sono una nullità, ma anche tu hai i tuoi difetti e adesso te li mostro".
    In questi casi è bene compatirli, anche se, come hai scritto tu, è ovvio e umano offendersi e rispondere male.

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  6. Adoro non rispondere alla provocazioni. Non dare soddisfazione. :-)

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