sabato 28 febbraio 2009

pregate...

Pregate i vostri dei che io non abbia mai il potere nelle mani perché in me si nasconde un tiranno. Ed anche uno schiavista. Più che disinvolto, feroce.  Non mi separerei mai da una frusta e la impugnerei minacciosa al cospetto di grandi quantità di uomini e donne. Quali e perché?
E' presto detto. Prima di tutto gli scrittori e poi i musicisti, i pittori, gli scultori, i cantanti, gli attori, eccetera eccetera eccetera...tutti gli artisti insomma, di qualunque arte. Tutti si vedrebbero incatenati al loro scrittoio, alla loro tavolozza, al loro pianoforte o alla loro chitarra, alla loro creta o al loro marmo: o in qualsiasi altro ambiente di lavoro in cui producono la loro arte. Basta con le lunghe pause tra un libro e l'altro! basta con quelle esasperanti sinfonie incompiute! basta con la pigrizia, la fannullaggine, le distrazioni! Basta con gli autori di un'opera sola! Un'opera sola? ma stiamo scherzando? Al lavoro, senza sosta e senza respiro! Che riposino gli operai, i sarti, gli idraulici, le commesse, le segretarie, i medici, gli infermieri, persino i manager, i vigili e gli impiegati statali. Riposino soprattutto i politici, per ovvie ragioni di igiene, ma gli artisti NO! Tutti i creatori di bellezza siano sempre all'opera. Chiedano quel che vogliono, gli sarà dato, ma PRODUCANO. Chi è capace di creare bellezza in un mondo in cui io deterrò il potere non avrà respiro. E, vi avviso, tutte quelle belle osservazioni sui tempi della creazione, sulla maturazione delle idee e dei progetti e sull'ispirazione con me non attaccano! Sono solo scuse. La realtà è che gli artisti sono spesso degli infingardi che si sottraggono allo scopo per il quale sono venuti al mondo: renderlo pensabile ed abitabile. Beh, con me finirebbe la pacchia.

Scritto dopo aver scoperto che non ho più neanche un libro di Philip Roth da leggere!

domenica 22 febbraio 2009

la barchetta in mezzo al mare...

Mi chiedo/dodici

Che bisogna fare?

Antoine de Saint-Exupéry
Il Piccolo Principe


Questa era la domanda dodici. Naturalmente non c'è bisogno di Saint-Exupéry per rivolgersela. Però se nel 1994 l'avevo segnalata in fondo al libro vuol dire che intendevo esplorarla, che la tenevo da parte per rivoltarla come un calzino e per attribuirle il senso che il momento avesse richiesto.
Mi ha fatto compagnia, come un gufetto, in questi giorni ed ora la metto qui perché ha fatto il suo lavoro. Almeno nell'odierno ha trovato la sua risposta (con qualche aiuto affettuoso che ringrazio di cuore).
La risposta è qui sotto.

Cari amici, questo post lo scrivo tremando un po’, con tante incertezze e una paura. Paura di perdervi. C’è una paura però che non ho mai avuta in nessun giorno della mia vita, e non ho neanche adesso: quella di dire i miei sentimenti d’amore. A tutti voi io voglio bene, non conosco i vostri volti ma mi sembra di sentire la vostra pasta sotto le mani. Fate parte della mia vita e siete entrati nella mia intimità. Deludervi mi fa soffrire perché occupate un posto certo nella cerchia dei miei affetti. E ognuno di voi mi ha dato tanto. La vostra stima, il vostro incoraggiamento, il vostro affetto, la costanza della vostra presenza. E, attraverso i vostri blog, informazioni, stimoli, risate, commozioni, riflessioni, lezioni di ogni tipo. Vorrei potervi dire quanto questo nostro scambio abbia contato per me, ma non voglio scivolare nel troppo sentimentale. Quando ho aperto questo blog mi sono data l’impegno di scrivere ogni giorno e credo di averlo rispettato, con piccole deroghe contingenti. Ma non posso continuare a farlo. Debbo dedicare tutto il tempo che i doveri quotidiani mi lasciano libero ad un progetto cui tengo molto e che rappresenta anche una sfida cui non mi voglio sottrarre. Ho messo mano ad un libro che sento come il banco di prova della verità dei miei sogni ed anche del diritto ad averne. Sento che il tempo che ho davanti a me si assottiglia. Non posso rinviare. Per varie ragioni ho mancato tanti appuntamenti nella vita, ma non me ne cruccio troppo: so che c’erano strade che andavano percorse, per quanto accidentate fossero e processi che, per quanto dolorosi fossero, dovevano compiersi. Ma non è più tempo di indulgenze: c’è qualche cosa che devo dimostrare a me stessa. Non chiuderò il blog, semplicemente perché mi addolorerebbe troppo fare a meno di tutti voi. Ma scriverò molto meno. Mi propongo di dedicare almeno un giorno alla settimana alla blogosfera, pubblicando il mio post, rispondendo ai vostri commenti e venendo a trovarvi sui vostri blog e a dirvi la mia. Se il battello su cui mi imbarco farà naufragio mi vedrete tornare sconfitta e magari mi consolerete, se arriverà in porto voglio poter festeggiare con voi. Spero che, in entrambi i casi, mi riaccoglierete con lo stesso affetto di sempre. marina

sabato 21 febbraio 2009

mi chiedo/undici

Abbiamo il diritto di chiedere perché mai il pensiero umano non dovrebbe essere gioia?

Steiner George
Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero

venerdì 20 febbraio 2009

mi chiedo/dieci

Avete mai avuto una certezza che non è supportata da niente? Una certezza che diventa tanto più certa quanto più pare il contrario?

Marcello Fois
Sempre caro

giovedì 19 febbraio 2009

mi chiedo/nove

Ma i sentimenti allungano o piuttosto accorciano la vita?

Goffredo Parise
Sillabari

mercoledì 18 febbraio 2009

mi chiedo/otto

Una civilizzazione in cui non si riesce a tostare del pane al punto desiderato, che valore può avere?

Murakami Haruki
After dark

martedì 17 febbraio 2009

mi chiedo/sette

Che cosa trucchiamo, quando ci trucchiamo? Il trucco è un inganno che inventa quello che non c’è o che nasconde quello che c’è e che noi non riusciamo a sopportare?

Joice Carol Oates
La madre che mi manca

lunedì 16 febbraio 2009

mi chiedo/sei

Tutto deve per forza verificarsi nella coscienza perché sia possibile la guarigione?

Alain Ehrenberg
La fatica di essere se stessi

domenica 15 febbraio 2009

mi chiedo/cinque

Potrebbero un operaio o un’operaia apparire in un reality show televisivo? O in un gioco a premi? Si potrebbe farli apparire in video "in quanto operai"?

Raffaele Simone
Il mostro mite

sabato 14 febbraio 2009

mi chiedo/quattro

Dov’è la letteratura che dà espressione alla Natura?

Henry David Thoureau 
Camminare

venerdì 13 febbraio 2009

mi chiedo/tre

E’ possibile disgiungere la dimostrazione della virilità dalla volontà di usare la forza?

Judith Stiehm 

The Man question

giovedì 12 febbraio 2009

mi chiedo/due

"E se non restasse più nessuno, sulla terra, a contemplare le ombre disegnate dal sole, che ne sarebbe del tempo?"

Gore Vidal
Creazione

martedì 10 febbraio 2009

se permettete mi assento

Cari amici, sento il bisogno di prendermi qualche giorno di vacanza dalla blogosfera. Chiudo perciò occhi, orecchie e bocca al mondo virtuale, proprio come le tre scimmiette. Mi trincero per una decina di giorni, tra me e me.


Però, legata come sono ai miei stessi imperativi -e a tutti voi- ho pensato di lasciare minuscoli post per questi giorni di assenza.
Sono sotto forma di citazioni e in forma di domande.

Ognuno, credo, ha le sue piccole manie di lettore.
Io ho le mie. Tante, a dire il vero.
Una di queste mi porta a incontrare con soddisfazione le pagine dei libri in cui compaiono domande.
Domande senza la risposta. Non quindi quelle retoriche, artifici argomentativi poco intriganti.
Domande che l'autore lascia aperte. O, al limite, la cui risposta si rintraccia solo alla fine del libro, nella riflessione sul libro. O anche domande che, nella loro leggerezza, sono come piccole pennellate atte a descrivere un personaggio, al pari del taglio degli occhi o della corporatura.
In ogni caso si tratta di domande che io prendo per vere. Domande serie o futili, sciocche o profonde, non importa. Quello che importa è che l'autore non mi dia la risposta e lasci a me il compito di trovarne una.

Quando trovo una di queste domande io me la segno. Sull'ultima pagina del libro, accanto al numero della pagina metto un punto interrogativo. Questo significa che lì troverò una domanda su cui posso cimentarmi. 
Quando ho bisogno di domande -e ne ho bisogno spesso- mi basta prendere qualche libro a caso e andare a vedere all'ultima pagina.
Ecco pronto per me un bell'esercizio di riflessione. O di fantasia e immaginazione. O di surrealismo.


Questa volta le domande le ho ricercate per voi.
Hanno natura e peso diverso.
La prima, del mio amatissimo Leopardi, la metto per amore della poesia e anche perché è la sola per la quale so che non troverò mai risposta.


Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?

Giacomo Leopardi: I Canti


una notte pulita

C'è una grande luna piena stanotte e al suo cospetto tutti i pensieri si fanno piccoli. 
Non dormo e non ne ho voglia. Ogni tanto apro le persiane e guardo la luna. Mi assicuro che ancora ci sia. Sale rapidamente nel cielo e ho paura del momento in cui sarà troppo alta perché io possa ancora vederla. 
Penso al corpo di Eluana, fino a poco fa prigioniero politico, ed ora libero.
Tornerà alla terra, rientrerà nel ciclo che tutti ci consuma e ci riplasma.
Il pensiero che il corpo di Eluana si sia sottratto intenzionalmente ai suoi persecutori mi passa e mi ripassa nella mente. Sgusciato via, prima che l'affronto riprendesse. Pensiero primitivo, irrazionale. Ma i pensieri si formano, senza chiedere permesso.
Molti altri pensieri, molto privati mi agitano. Quello che so dell'amore mi dice che esiste un sentimento molto composito, fatto di una moltitudine di altri sentimenti, di dolore brutale, disperazione, annientamento di sé e insieme di sollievo amoroso, quando il corpo di una persona amata, offeso nella sua dignità, viene infine liberato dall'ultimo respiro. Quel sentimento lo sento intorno a me, come se circolasse nella mia camera, tra le mie cose. Posso toccarlo. Lo conosco e lo riconosco. Penso ad Eluana con questo sentimento. È Eluana che lo fa rivivere dentro di me, lo tira fuori dal mio passato. 
Penso alla madre di Eluana, a questa donna mai esposta, sofferente, muta. 
Penso a suo padre, quest' uomo così determinato nel suo amore, nella devozione alla sua unica figlia morta. Li penso abbracciati e nel pensiero li chiudo nel mio abbraccio. In ricordo di un altro abbraccio, in cui mi accolse una sconosciuta. Ma penso anche che non esistono sconosciuti quando parla la nuda umanità e che ci conosciamo tutti, quando davvero ci guardiamo dentro, riconoscendoci l'uno dentro l'altro.
Penso che ho la terra sotto i piedi e un cielo sulla testa e che di questo sono fatta e a questo tornerò e questo è tutto quello che so. 
Penso che questa notte è pulita e sana, e silenziosa. Che le grida scomposte, sguaiate, non vi trovano eco. Domani il clamore volgare tornerà ad alzarsi, ma adesso c'è solo il silenzio di una notte imbiancata di luna e i pensieri che libera.
Forse è inappropriato renderli pubblici. Mi fermo a riflettere su questo. Poi decido che lasciarmi guardare dentro non mi fa paura. Non questa notte. Perché questa è una notte di riconciliazione con i miei simili. Non so dire perché, ma sento che è così.
E adesso vado a dare ancora un'occhiata alla luna. 



Canzone "tzu-yeh"
Anonimo- età di transizione (220-618 d.C.)

Tutta la notte non potei dormire
per il chiaro di luna sul mio letto.
Udivo sempre una voce chiamare
dal Nulla il Nulla rispondeva: "sì"






lunedì 9 febbraio 2009

preghiera laica


Preghiera a un Dio eventuale

La vedi lì in fondo quella
piccola gazza che indugia
beata sulla siepe di alloro?
Paff, le basta un semplice colpo
dell'ala per lasciarsi alle spalle
tutto il peso del mondo.
Sollevata da vincoli e obblighi
finalmente adesso è nuda, libera,
sola: la piccola gazza che vola.

Ti chiedo, eventuale Signore
e Creatore: non potresti una volta
soltanto cercare di fare altrettanto
con me, liberando il mio gracile corpo
dal peso dei suoi mille fantasmi?
In fondo ti piace creare, innovare.
E allora, pensa che bello:
vedere un mattino di maggio,
del tutto inattesa, un'umana
creatura che vola. Sollevata
da vincoli e obblighi - finalmente
anch'essa nuda libera sola.

da Franco Marcoaldi: L'Isola celeste

domenica 8 febbraio 2009

myricae

Messaggio del presidente a reti unificate

Per lo più siamo animali
raramente vegetali
---------------------------
molto presto minerali.


Techne politike

La destra è la parte del fegato,
la sinistra quella del cuore:
difatti alla destra politica
non servono chiacchiere
sul Bene e l'Amore.

da:L'isola celeste
di Franco Marcoaldi
Einaudi, Torino - 2000

sabato 7 febbraio 2009

il foglio di carta velina

Questo è il brano che ho scelto oggi per thebookshow e che ripropongo anche qui perché mi sembra straordinariamente attuale. Non sono persona da facili catastrofismi, ma sento che siamo giunti molto vicini ad un limite non valicabile e che sta ad ognuno di noi far sì che non venga valicato. Ha scritto Sileno: solo un foglio di carta velina ci separa dal fascismo. Poco fa mio marito mi ha detto: è così che nasce il fascismo.
Io penso che ognuno di noi debba mobilitarsi nelle forme e con le forze che gli sono più congeniali per dire il suo no al violento attacco del Presidente del Consiglio al diritto e alla democrazia.

"Cesare non ebbe mai, quantomeno a partire dal suo consolato, alcuna sensibilità per le istituzioni politiche e per il loro complesso funzionamento. Bisogna aggiungere che questo funzionamento era allora per molti aspetti, distorto e poco efficiente. Coloro che lo difendevano non potevano sperare di avere rispetto da Cesare. Per lui esistevano innanzitutto persone e problemi oggettivi. Considerò la fedeltà e la responsabilità rapporti essenzialmente personali che coltivò con abnegazione. Al contrario, non credette mai che i suoi avversari si prodigassero per la res publica e per la forma tradizionale di regime senatorio alla quale si erano vincolati. Vide solo la loro ostilità nei suoi confronti e i loro motivi egoistici, che peraltro esistevano certamente. ...Nella soluzione di problemi oggettivi, le complicazioni istituzionali gli avevano sempre dato fastidio. Dove poteva, si era messo su un piano superiore. Dopo la vittoria nulla poteva più ostacolarlo: affrontò tutti i problemi, quelli più vicini e quelli remoti. Era convinto così facendo di essere nel giusto e di realizzare una grande impresa. Poco gli importava quindi il terzo elemento, che si poneva tra le persone e i problemi concreti, vale a dire l'ordine nel quale i Romani vivevano, ciò che loro ritenevano oggettivo e che era ancora oggettivo in quanto universalmente riconosciuto, ma che parallelamente, non era oggettivo in quanto non funzionava e né godeva di vita e di rispetto: l'insieme insomma dell'ordine politico, che che non si esauriva nella somma delle sue parti. Il peso specifico, la forza delle istituzioni che garantivano il diritto e la sicurezza, le forme della consultazione, la libertà della vita repubblicana, che si trovava certo in difficoltà ma che non pareva ancora del tutto perduta gli davano innanzitutto fastidio."

da: Christian Meier: Cesare - impotenza e onnipotenza di un dittatore
Einaudi, Torino - 1995

se restiamo in silenzio...con Gianmaria Testa




Faccia attenzione signore
c'é una luna che cade stasera
e ci potrebbe colpire
o quantomeno scavare una buca profonda
così larga e profonda
da non poterci passare
Se alza gli occhi signore
fra una nuvola e l'altra
sotto l'ultima stella del carro
si dovrebbe vedere
che si stacca dal nero di pece
e veloce veloce incomincia a cadere
E se restiamo in silenzio, fra poco
dovremmo sentirne il rumore
sul frastuono di passi e vetrine
come un lungo richiamo
il rumore

Lei sorride signore
ma io certe notti ne ho viste anche cinque
di lune cadere
scintillanti come i fuochi d'agosto
sradicare foreste
o ribollire nel mare
e di altre ancora ho sentito soltanto parlare
da gente distratta alle cose di sempre
ma molto più attenta alle cose del cielo
di me

Lei capisce signore
una luna che cade
non é un fatto da potersi tacere
che trasforma una notte qualunque in un sogno
e in un grido
questo nostro parlare
se soltanto mi stesse a sentire
se soltanto un minuto
senza chiudere gli occhi
rimanesse anche lei qui con me, adesso
a guardare

Perché c'é una luna che cade stasera
attenzione signore ci potrebbe colpire
o quantomeno scavare una buca profonda
ma così larga e profonda
da non poterla
da soli
passare

venerdì 6 febbraio 2009

segnalazioni/Eluana Englaro

Il testo della lettera che il capo dello Stato ha inviato
a Berlusconi prima che il CdM approvasse il decreto

Signor Presidente,
lei certamente comprenderà come io condivida le ansietà sue e del Governo rispetto ad una vicenda dolorosissima sul piano umano e quanto mai delicata sul piano istituzionale.

Io non posso peraltro, nell’esercizio delle mie funzioni, farmi guidare da altro che un esame obiettivo della rispondenza o meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche prescritte dalla Costituzione e ai principi da essa sanciti.

I temi della disciplina della fine della vita, del testamento biologico e dei trattamenti di alimentazione e di idratazione meccanica sono da tempo all’attenzione dell’opinione pubblica, delle forze politiche e del Parlamento, specialmente da quando sono stati resi particolarmente acuti dal progresso delle tecniche mediche.

Non è un caso se in ragione della loro complessità, dell’incidenza su diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti e della diversità di posizioni che si sono manifestate, trasversalmente rispetto agli schieramenti politici, non si sia finora pervenuti a decisioni legislative integrative dell’ordinamento giuridico vigente.

Già sotto questo profilo il ricorso al decreto legge – piuttosto che un rinnovato impegno del Parlamento ad adottare con legge ordinaria una disciplina organica - appare soluzione inappropriata. Devo inoltre rilevare che rispetto allo sviluppo della discussione parlamentare non è intervenuto nessun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità ed urgenza ai sensi dell’art. 77 della Costituzione se non l’impulso pur comprensibilmente suscitato dalla pubblicità e drammaticità di un singolo caso. Ma il fondamentale principio della distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato non consente di disattendere la soluzione che per esso è stata individuata da una decisione giudiziaria definitiva sulla base dei principi, anche costituzionali, desumibili dall’ordinamento giuridico vigente.

Decisione definitiva, sotto il profilo dei presupposti di diritto, deve infatti considerarsi, anche un decreto emesso nel corso di un procedimento di volontaria giurisdizione, non ulteriormente impugnabile, che ha avuto ad oggetto contrapposte posizioni di diritto soggettivo e in relazione al quale la Corte di cassazione ha ritenuto ammissibile pronunciarsi a norma dell’articolo 111 della Costituzione: decreto che ha dato applicazione al principio di diritto fissato da una sentenza della Corte di cassazione e che, al pari di questa, non è stato ritenuto invasivo da parte della Corte costituzionale della sfera di competenza del potere legislativo.

Desta inoltre gravi perplessità l’adozione di una disciplina dichiaratamente provvisoria e a tempo indeterminato, delle modalità di tutela di diritti della persona costituzionalmente garantiti dal combinato disposto degli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione: disciplina altresì circoscritta alle persone che non siano più in grado di manifestare la propria volontà in ordine ad atti costrittivi di disposizione del loro corpo.

Ricordo infine che il potere del Presidente della Repubblica di rifiutare la sottoscrizione di provvedimenti di urgenza manifestamente privi dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza previsti dall’art. 77 della Costituzione o per altro verso manifestamente lesivi di norme e principi costituzionali discende dalla natura della funzione di garanzia istituzionale che la Costituzione assegna al Capo dello Stato ed è confermata da più precedenti consistenti sia in formali dinieghi di emanazione di decreti legge sia in espresse dichiarazioni di principio di miei predecessori (si indicano nel poscritto i più significativi esempi in tal senso).

Confido che una pacata considerazione delle ragioni da me indicate in questa lettera valga ad evitare un contrasto formale in materia di decretazione di urgenza che finora ci siamo congiuntamente adoperati per evitare.

Poscritto

Con una lettera del 24 giugno 1980, il Presidente Pertini rifiutò l’emanazione di un decreto-legge a lui sottoposto per la firma in materia di verifica delle sottoscrizioni delle richieste di referendum abrogativo;

il 3 giugno 1981, sempre il Presidente Pertini, chiamato a sottoscrivere un provvedimento di urgenza, richiese al Presidente del Consiglio di riconsiderare la congruità dell’emanazione per decreto-legge di norme per la disciplina delle prestazioni di cura erogate dal Servizio Sanitario Nazionale. Nel caso specifico, uno degli argomenti addotti dal Capo dello Stato consisteva nel rilievo della contraddizione tra la disciplina del decreto-legge emanando e “un indirizzo giurisprudenziale in via di definizione”;

con lettera 10 luglio 1989 al Presidente del Consiglio De Mita, il Presidente Cossiga manifestò la sua riserva in ordine alla presenza dei presupposti costituzionali di necessità e urgenza ai fini dell’emanazione di un decreto-legge in materia di profili professionali del personale dell’ANAS e affermò: “Ritengo, pertanto, che, allo stato, sia opportuno soprassedere all’emanazione del provvedimento, in attesa della conclusione del dibattito parlamentare sull’analogo decreto relativo al personale del Ministero dell’interno”;

in quella stessa lettera e successivamente nella lettera al Presidente del Consiglio Andreotti del 6 febbraio 1990, il Presidente Cossiga richiamò all’osservanza delle specifiche condizioni di urgenza e necessità che giustificano il ricorso alla decretazione di urgenza, ritenendo legittimo da parte sua – in caso di non soddisfacente e convincente motivazione del provvedimento – il puro e semplice rifiuto di emanazione del decreto – legge;

con un comunicato del 7 marzo 1993, il Presidente Scalfaro, in rapporto all’emanazione di un decreto-legge in materia di finanziamento dei partiti politici invitò il Governo a riconsiderare l’intera questione, ritenendo più appropriata la presentazione alle Camere di un provvedimento in forma diversa da quella del decreto-legge.

incontri blogger

Mi piacciono le facce espressive, mobili, quelle che parlano e lasciano vedere i pensieri. E mi piacciono gli occhi vivaci e che sorridono quando la bocca sorride. Mi piacciono le persone spontanee che rispondono alla fiducia con la fiducia. 
Ho conosciuto Artemisia e mi piace molto.
Per questo non potrò mai perdonarmi di averla fatta raffreddare, tenendola all'aperto due ore a chiacchierare. Il fatto che mi sia raffreddata anche io è semplice giustizia. 

sfumature del tempo

A quest'ora guardo il tramonto e il suo rosa mi rende stupefatto.
Nella finestra di fronte si inscrivono le tue mani giovani, che corrono sul piano.
Ma non sento la musica. I vetri sono serrati.
I tuoi ed i miei.
Che cosa suoni non lo so.
Non ti ho mai vista. Non so come sei.
Solo le tue mani che corrono sul piano.
Il pozzo del giardinetto divide le nostre gole, la mia palpita emozionata-  se la tua pianga non lo saprò mai.
Ora si tinge tutto il cielo di rosso e avvampa oltre i pini gonfi.
Se tu sapessi quello che so io, apriresti la finestra di botto e grideresti: Aiuto!
Se io ricordassi quello che sei tu, danzerei sul tetto senza paura e cadere sarebbe l’ultimo dei miei pensieri.
Sono entrambe ignare le nostre menti?
Ma il cuore mi resta incrostato. E il tuo? Rotola il tuo? Ho bisogno di darti un nome. Ti chiamerò TU, perchè sì, perché qualunque altro nome peserebbe su di te.
Ma se io cantassi per te e tu suonassi per me non avrebbe più senso questa sera?
E anche questa vita?
Invece ognuno ha il suo citofono e la pelle contiene e separa i corpi.
Se trovi il modo di spellarmi ti porterò con me nelle strade della città.
Perché è vero: tu non hai forse compiuto i tuoi vent'anni ma io nego, recisamente, di aver mai compiuto i miei cinquanta.
Tutti i pomeriggi tu suoni il piano e smetti solo quando è troppo basso il sole.
Tutti i pomeriggi io ascolto il tuo concerto senza note.
Non ti vedo lasciare la stanza.
Quanti “non”.
Non ti vedo.
Non ti sento.
Non ti parlo.
Le mani piano piano spariscono nel buio.
Non sei più lì dov’eri solo poco fa’.
Ridono di me e hanno paura di me.
Io sono il matto del terzo piano.
Tu chi sei?





Nota: per la ragazza che studia il piano tutti i giorni e per il matto che abitava nel mio palazzo.


giovedì 5 febbraio 2009

a Caso

Negli anni '70 lo usavamo, per gioco, come oracolo, sul tipo delle sortes virgiliane o delle poesie di Hafez. Parlo de Il libro dei Mutamenti, I Ching.
Io non sono tipo da oracoli, persiani, latini o cinesi che siano. Ma il Caso invece mi affascina, e aprire a caso la bella edizione Adelphi è un gioco che, fatto con leggerezza, mi porta sempre qualcosa. Del resto non saprei in che altro modo leggere un testo di tal fatta se non sfogliandolo qua e là. Sono sicura che, a parte tutti gli studiosi diventati pazzi per decifrarne ogni possibile senso, altri lo leggano in modo diverso, più globale, più consapevole.
Ma non possedendo ai miei occhi né lo straordinario fascino poetico dell'Eneide, né la misteriosa seduzione del Divan, mi limito, modestamente, a spiluccare qua e là.

Ieri ho trovato questo passo:

"Mentre di solito è meglio aggirare l'impedimento e tentare di superarlo lungo la linea della minima resistenza, vi è pure un caso nel quale bisogna affrontare la difficoltà, anche se difficoltà si aggiunge a difficoltà: ciò avviene quando la via del dovere ci porta a non poter agire per libera decisione, ma ci obbliga a ricercare il pericolo al servizio di una causa superiore. Allora lo si ricerchi e intanto si rimanga del tutto tranquilli interiormente, poiché non ci si è messi per propria colpa in questa difficile situazione."
39. L'Impedimento


Io ho immediatamente pensato a Beppino Englaro.

mercoledì 4 febbraio 2009

la vertigine blu ha colpito ancora

Vertigine viene dal latino vertigo, vertiginis. Vale a dire da vertere (girare) ma anche da agere (fare), cioè far girare.
Al momento quello che mi gira è la testa ma, continuando il disturbo......


Un brano di chi? Ma dei Bluvertigo, è ovvio! Iodio




Bisogna sempre per forza parlare d'amore?
Bisogna sempre comunque far nascere il sole?
E' necessario far credere di fare del bene?
E' necessario alle feste donare le rose?
Ripeto:
Bisogna sempre per forza parlare d'amore?
Bisogna sempre comunque far nascere il sole?
E' necessario far credere di fare del bene?
E' necessario alle feste donare le rose?
Beh, io sinceramente provo anche:
ODIO - la mia vicina che reclama
ODIO - per il frastuono che procuro
ODIO - e questa è una canzone sull'
ODIO - un sentimento umano e duraturo
ODIO - quando sono esasperato
ODIO - e non mi sento esagerato
ODIO - sinceramente sono fiero
ODIO - forse ora un po' troppo sincero
ODIO - è sempre scomodo parlarne
ODIO - poi sembra di essere gli stronzi
ODIO - è veramente un paradosso
ODIO - forse è meglio lasciar stare
ODIO - Masini e le sue ansie
ODIO - e provo tutti i sentimenti
ODIO - oltre all'amare e il tollerare
ODIO - quando mi portano ad odiare
Bisogna sempre tentare di farsi accettare?
Bisogna sempre scrivere solo testi d'amore?
E' necessario ogni volta mentire al nostro cuore?
non sarebbe meglio liberarsi e confessare?
Bisogna sempre tentare di farsi accettare?
Bisogna sempre scrivere solo testi d'amore?
E' necessario ogni volta mentire al nostro cuore?
non sarebbe meglio liberarsi e confessare?
Beh, io sinceramente provo anche:
ODIO - la mia vicina che reclama
ODIO - per il frastuono che procuro
ODIO - e questa è una canzone sull'
ODIO - un sentimento umano e duraturo
ODIO - quando sono esasperato
ODIO - e non mi sento esagerato
ODIO - sinceramente sono fiero
ODIO - forse ora un po' troppo sincero
ODIO - è sempre scomodo parlarne
ODIO - poi sembra di essere gli stronzi
ODIO - è veramente un paradosso
ODIO - forse è meglio lasciar stare
ODIO - Masini e le sue ansie
ODIO - e provo tutti i sentimenti
ODIO - oltre all'amare e il tollerare
ODIO - quando mi portano ad odiare
ODIO , io
ODIO , io
ODIO , io
ODIO
io ODIO

martedì 3 febbraio 2009

vagabonda

Nel mio libro delle elementari compariva sempre un vagabondo. Portava un fagotto sulla spalla, appeso ad un bastone, e aveva un passo baldanzoso. Io porto la borsa a tracolla -sospetto che sia più pesante del fagotto- e il mio passo è tranquillo. Ma sono vagabonda anche io. Il mio vagabondare è anche una seduta di scrittura. Andando si scrive meglio. Si scrive nella mente ma è come avere una colonna sonora privata e insieme, qualcuno che ti dice: guarda lì.
Io guardo. Qui e lì.
Al capolinea dell’autobus assieme a me scendono frotte di persone. Si disperdono in fretta verso uffici e negozi. Alcuni sostano dal giornalaio, tre, quattro mani impazienti si tendono insieme per ricevere il giornale. Il giornalaio è in piedi da ore e della loro fretta palesemente se ne frega. Ma per alcuni ha pronta “la mazzetta”, il pacco di giornali per il senatore, l’onorevole, il sottosegretario. Quelli che la ritirano sono spesso giovani uomi, cappotto corto, vistosa cravatta dal grande nodo, telefonino con auricolare. Sono brutti, anche quando sono belli. Li lascio passare, poi compro i miei giornali. Sulla prima pagina scorgo insignificanze gonfiate. Suppongo che dentro troverò le significanze ben celate.
Il fioraio all’angolo tira fuori i fiori dalle cassette e li dispone nei secchi con l’acqua; tenta di allargare il suo giro d’affari occupando sempre un po’ più di suolo pubblico verso il centro della strada. Espone mimose, ranuncoli, anemoni e persino violette. Ha prezzi proibitivi. Persino l’erba gatta costa un patrimonio. L’erba gatta non è altro che semi di orzo. Ogni anno io ne compro mezzo chilo nel negozio di granaglie che sopravvive all’Alberone e il fioraio esoso è fregato.
Le bancarelle dei libri usati sono ancora serrate, chiuse da tavole di legno con il loro bel lucchetto. Qualcuno dunque ruba libri? Me ne compiaccio. L’esercente del piccolo commercio librario lo trovo al bar all’angolo, mangia il cornetto e parla di calcio col cameriere. Scenderà in B la Lazio? O si salverà? “Si salva, si salva, purtoppo” mi pronuncio io.
Il proprietario del bar mi ha accolta col suo classico “ciao bella”. Da sempre chiama bella tutte le donne, dai quattordici agli ottanta anni. Unica variante rispetto al passato è l’aggiunta, ogni tanto, di un “signora”. Quando cominciò a darmi della signora capii che era fatta: ero entrata definitivamente nella categoria “dama agée”.
Il bar è pieno, vengono serviti caffè macchiati, schiumati, in vetro, in tazza fredda, corretti, ristretti, lunghi, di orzo, americani, con crema, con panna, marocchini persino. Scelta altrettanto ampia per i cappuccini. I cornetti invece si dividono in semplici o composti. Composti alla marmellata, alla nutella, alla crema, al cioccolato. O intergrali, per i più casti. “Non me lo dia caldo” protesta uno.” Me lo dia caldo” chiede un altro. I camerieri si muovono lungo il bancone imperturbabili. Fronteggiano l’assalto impiegatizio senza battere ciglio.
Io prendo il mio caffè macchiato e avanzo anch’ io la mia richiesta. Un dolcificante. I dolcificanti non compaiono sul banco perché la gente ne fa incetta. Ho scoperto tempo fa che anche mia sorella e mio cognato ne fanno incetta. -Ma perché? ho chiesto, voi il caffè lo prendete amaro! -Così, mi ha risposto mia sorella. Lo tengo a casa, se debbo offrirlo a qualcuno. Il solo pensiero mi fa incazzare. Loro che non lo usano fregano il dolcificante e io che lo uso lo devo chiedere! Mondo boia.
Qui siamo vicini ai luoghi del potere. Portaborse, segretarie personali, fiduciari, addetti stampa, sottobosco politico, aspiranti a favori, clientes, fanno colazione prima di entrare nei palazzi fatidici. Si sentono frasi del tipo: oggi sono in commissione. Io torno oggi dal collegio. O anche: prima devo passare nella segreteria del ministro. Sono quelli che bazzicano il potere e ci tengono che si sappia.
Osservo una ragazza in ardimentoso bilico su tacchi di dieci centimetri che si guarda nello specchio sul fondo del locale: raddrizza il collo del cappotto, poi fa una prova sorriso. Sembra radiosa. Ma finita la prova torna accigliata come prima. Un’altra parla al telefonino dando disposizioni ad una nonna per il figlio influenzato. Sembra il comandante di una nave. Quando chiude la conversazione sospira.
Gli uomini se la prendono più calma anche se fingono un’aria indaffarata. Dall’importanza che si danno si direbbe che le sorti della nazione dipendano da loro. Ma tra poco strisceranno davanti al politico di turno che li tiene per le palle.
Fuori del negozio di abbigliamento cheap le commesse aspettano che arrivi il titolare con le chiavi e le faccia entrare. Discutono di turni extra.
Poco più avanti nella boutique di gran nome, il vetrinista a piedi nudi sistema un manichino. Rappresenta una ragazza alta come una taglia 50 e magra come una 38, con un pantalone luccicante stretto all’altezza di polpacci inesistenti; sopra è ancora a petto nudo: una pila di golfini in cachemire attende la scelta. Il caschetto di capelli è viola. Il vetrinista le sparge coriandoli ai piedi e soffia stelle filanti qui e là nella vetrina. Apprendo così che è carnevale.
Più avanti un nord africano lustra le vetrine di un negozio di biancheria. A terra sono esposte mutandine leopardate e reggiseni push-up. Contro la porta c’è il suo borsone aperto. Dentro, un secchio, spazzole, giornali vecchi e qualche cosa che sembra un tappetino da preghiera arrotolato. Pregherà tra le mutande ed i push-up?
Un ragazzo consegna un pacco di giornali al portiere del piccolo albergo discreto e ultra chic a due passi da via Condotti. Il portiere quasi glielo strappa di mano. Qualche uomo d’affari al tavolo della colazione ha protestato? Sciupato il piacere di bere il caffè all’americana sfogliando il Sole? (I veri intenditori il Sole 24 ore lo chiamano solo il Sole).
La maggior parte dei negozi sono chiusi ma hanno già le luci accese. I titolari arrivano, le accendono e se ne vanno a fare colazione.
I mendicanti ancora non sono arrivati. Se la prendono comoda. Neanche i musicanti di strada sono al loro posto. Per un’ora ancora gira solo gente che va al lavoro, poco incline a mance ed elemosine.
Nella vetrina del grande Eleuteri, famoso per i suoi gioielli antichi, officia un uomo vestito di scuro. Si intravede la cassaforte aperta. L’uomo viene alla vetrina con un braccialetto, molto alto, molto importante, con complicati disegni floreali. Brilla di bianco e di verde e ha un’aria ottocentesca. Una dama piemontese lo indossava a corte? L’uomo, con cura reverente, lo dispone sul velluto blù di un vassoio. Lo guardo affascinata: i suoi gesti sono lenti, teneri, sensuali. Lo accosta ad un piccolo vaso di cristallo, con una sola calla. Alza gli occhi e mi guarda. Sembra infastidito dalla mia presenza come se l’avessi sorpreso in un atto intimo, d’amore. E forse lo è.
Dalle vetrine i negozi di abbigliamento chiamano: Saldi Saldi Saldi. Accanto ai maglioni, ai cappotti, alle giacche a vento sono comparsi i primi vestitini primavera. Le lunghe sciarpe di lana pesante attorcigliate più volte agli esili colli dei manichini sono sostituite da sciarpe di seta. Compare il classico di primavera, il bianco e blù. Compare addirittura un costume da bagno. Tutto aranciato, su un manichino di colore.
I camioncini delle consegne sostano ovunque, in doppia e tripla fila o sui marciapiedi. Si scaricano le merci davanti ai ristoranti: le casse di acqua minerale, quelle di pesce, verdura, frutta.
Commesse eleganti come duchesse entrano nel palazzetto Fendi. Una volta si chiamava palazzo Boncompagni Ludovisi, due famiglie della nobiltà romana. Mi chiedo se i meriti dei Boncompagni Ludovisi fossero maggiori di quelli delle sorelle Fendi. Bisognerebbe chiederlo ai Papi. Nel palazzo Fendi si tengono ogni tanto mostre di arte contemporanea. Gli stilisti, i couturier sono i mecenati di oggi. Benché tengano ad essere considerate mecenate le sorelle Fendi hanno fatto il loro bravo abuso edilizio nel cuore della città. Aumento di superficie - un orribile manufatto nero sul tetto- più una scala interna, sventrando un piano. La dirimpettaia, Principessa Ruspoli, fece fuoco e fiamme. Il comune bloccò i lavori, ne nacque una causa complicata. Non so come sia andata a finire, ma il cambio di nome mi indispettisce. Palazzo Fendi, ecchecazzo!
Vagabondare in centro prima che i negozi aprano mi piace. Non c’è rischio di farsi irretire. Vero è che da parecchio tempo non ho nessuna brama di acquisti. Mi tentano ancora ”capetti” adatti a mia figlia, ma resisto.
Però mi piace fermarmi a osservare le vetrine dei negozi chiusi. Hanno un’aria di mistero. Ognuno è una caverna del tesoro. Qualche volta la risposta al mio scontento sembra nascondersi dietro quella grata chiusa. E scruto nella semioscurità per identificarla. Le merci si intravedono appena. Vorrei magari saggiare un tessuto o accostare al viso un colore. Ma la sala del tesoro è chiusa. Così procedo e dopo solo due passi ecco che l’oggetto che mi aveva tentata è dimenticato e capisco che la risposta allo scontento non è nella caverna del tesoro. Capisco anche che la caverna del tesoro non esiste fuori di me e scopro anche di non desiderare niente di tutto quello che ammicca nelle vetrine, e mi sento liberata. Con lo stesso scontento di prima ma libera. So di essere sfuggita al lupo che nel bosco del consumo mi aveva tesa la sua trappola.
Invece capitolo nel negozio di alimentari, uno dei tre, quattro che ancora resistono nel centro della città, e scelgo con piacere i formaggi, le olive, gli affettati. Quando riprendo il cammino lascio una scia al profumo di coppa. Non è la fragranza più appropriata per percorrere le vie sacre dello shopping di lusso ma è un investimento sicuro.
Mi scelgo un tavolino prospettico all’angolo tra due piccole strade e mi siedo con il mio secondo caffè per qualche appunto sul mio fedele taccuino. E’ un dono di mia figlia che alla sua mamma non fa mai regali a casaccio.
Sono contenta del taccuino e di mia figlia e decido che sì, è arrivato il momento di dedicarle un post. Prossimamente su questo blog.

lunedì 2 febbraio 2009

post "post"

Queste righe le scrivo come spiegazione per il post notturno.

Non ho niente contro la carità. In quanto sentimento è dolce e affettuoso. Carità viene dal greco charis, attraverso carus è entrata nel latino dove ha dato caritas che, nella sua forma traslata, indica l’affetto che si prova per qualcuno o qualcosa. La famosa carità di patria, che oggi come oggi è merce introvabile, è la caritas patriae di Cicerone, l’amore per la patria. Quindi caritas è approdata nell’italiano. La chiesa cristiana ne ha fatto una delle virtù teologali, con un senso, se ricordo bene, diverso da quello usato nel linguaggio comune. La caritas virtù teologale è l’amore per Dio bene supremo. (Qui ci vorrebbe Julo). 

Poi c’è la pratica caritatevole, l’offrire aiuto ai bisognosi. E Caritas è sinonimo di assistenza al prossimo in stato di bisogno. La Caritas è la faccia degna della chiesa cattolica, secondo me.

Quello che ha reso per me poco accetto il concetto di carità è il fatto che essa costituisce spesso una pratica liberatoria, il sostituto più facile della responsabilità. A me piacerebbe un mondo in cui nessuno desse all’altro per carità, perché quell’altro è povero e bisognoso, ma perché gli vuole bene e vuole dargli gioia. E mi piacerebbe che l’altro fosse a sua volta in condizioni, materiali e spirituali, di dare gioia all’altro con il suo dare. Un mondo di uguali, per dirla semplicemente, in cui l’aiuto e il soccorso siano reciproci.

Ma questo mondo al presente non esiste e accedere alla pratica della carità è spesso l’unico modo di portare aiuto. Il sentimento con cui lo facciamo possiamo chiamarlo solidarietà (parola ormai abusata, se non addirittura imbrattata) e possiamo viverlo come responsabilità, ma al gesto che compiamo resta appiccicato un sentore di quella carità che a me non piace. Quella delle patronesse di una volta che benigne dispensavano qualche briciola del loro danaro prenotandosi un posto in prima fila nel loro paradiso.
La carità inoltre può essere anche pratica scaramantica: una tattica perché gli dei non si irritino con noi. Diamo, nel timore che la nostra fortuna ci venga rinfacciata e sfilata di sotto le mani.
Non voglio però disconoscere tutte le persone genuinamente caritatevoli, ricche o povere, credenti o no, che sentono il desiderio oltre che il dovere di aiutare i meno fortunati o, altrimenti detti, i poveri. Persone che lo fanno con slancio e senza nessun fine secondo, né in questo né nell’altro mondo. 

Ognuno di noi conduce le sue pratiche caritatevoli, comunque le viva e comunque le chiami. Io pratico le mie.
Lo faccio con la sensazione di fare semplicemente quello che si deve, contenta di poter essere utile ma nello stesso tempo mortificata per il fatto di non trovare un modo diverso di essere utile. Insomma è un po’ un casino di sentimenti.

Adesso voglio parlarvi di Muhammad. Muhammad ha dieci anni, è nato nel 1998 ed è uno dei 1855 bimbi feriti nella striscia di Gaza. Vive nel campo profughi di Jabaliya. Di lui so poco altro. Il nome del padre e quello del nonno paterno, assieme ad un codice di identificazione personale, attribuitogli dalla Onlus che ci ha messi in contatto, necessario perché i bambini Muhammad feriti sono tanti ed è facile fare confusione.
Di Muhammad ho anche una foto che non pubblicherò.
Di norma alle persone che sostengono a distanza un bambino in stato di bisogno viene inviata una foto del bambino stesso. Queste foto sono sempre strazianti.
Almeno per me. E’ proprio l’idea della foto che mi fa star male. L’idea che quel bambino o quella bambina si sia dovuta far ritrarre, forse addirittura mettere in posa, perché io vedessi che esiste davvero. O perché guardandola mi sentissi più generosa, più incline a non abbandonarla nel tempo. Fotografare questi bambini mi è sempre sembrato un gesto comprensibile ma violento. E’ vero che guardare la bambina o il bambino serve a creare un legame affettivo, ma a me ha sempre dato la sensazione che a quel bambino si chiedesse di vendersi.
La foto di Muhammad da questo punto di vista è parlante. Dice, esattamente, quello che io so da sempre. Che i bambini non vogliono farsi fotografare, che lo sentono come un peso, una cosa da fare affinché una persona estranea e lontana li veda ed abbia la prova che loro esistono e, con questa prova in mano, mandi dei soldi per loro, per mangiare, per curarsi, per studiare.

Nella foto che ho ricevuta ieri, Muhammad è in un ospedale da campo, su un lettino di ferro coperto solo da un telo. Non c’è cuscino. Accanto si vede il sostegno di una flebo. Mahammud è a torso nudo ed è coperto solo parzialmente da un lenzuolo bianco e da una coperta rosa. Entrambi sono scostati dal corpo, in modo da mostrare le numerose ferite. Tiene la testa girata di lato e gli occhi chiusi. Il volto è pieno di schegge di proiettili e così la parte del torace che è esposta.
Malgrado lo sguardo non si veda, la posizione contratta dà un’idea di malavoglia e di rassegnazione insieme. Non voleva essere fotografato Muhammad, lo so per certo. E mi fa star male il pensiero che abbia dovuto subire questa piccola violenza, sottoporsi a questo atto indiscreto e invasivo, perché lo si vedesse con le sue ferite, perché chi ha inviato del denaro, io, che ho inviato del denaro, io ho il diritto di guardarlo.
Vorrei potergli chiedere scusa.
Vorrei aver detto al responsabile della Onlus: Non mandatemi foto. Vi prego. Ho fiducia in voi. So che state usando il mio denaro per un bambino vero. Non voglio che Muhammad debba farsi fotografare per me. Manderò io a lui una mia foto, perché lui veda che io esisto davvero.
Debbo ricordarmelo per il futuro. 

 

in veglia

Per una persona che ha creduto per tutta la vita all' agire collettivo è brutto constatare che il solo modo che le è rimasto per influire minimamente sulla realtà sono i piccoli gesti caritatevoli.

Consideratelo solo un pensiero notturno.
All'alba starò meglio.

domenica 1 febbraio 2009

aveva dentro un milione di usignoli


Mahmud Darwish (1941-2008)

Darwish lo abbiamo salutato questa estate ma ancora ci parla.


Su questa terra

...Potete legarmi mani e piedi
Togliermi il quaderno e le sigarette.
Riempirmi la bocca di terra:
La poesia è sangue del mio cuore vivo
sale del mio pane, luce nei miei occhi.
Sarà scritta con le unghie, lo sguardo e il ferro,
la canterò nella cella della mia prigione,
al bagno,
nella stalla,
sotto la sferza,
tra i ceppi
nello spasimo delle catene.
Ho dentro di me un milione d'usignoli
Per cantare la mia canzone di lotta.




Innamorato della Palestina

Ho scritto sulla mia agenda:
amo l'arancio e odio il porto,
ho aggiunto sulla mia agenda:
al porto mi fermai
la vita aveva occhi d'inverno,
avevamo le bucce dell'arancio
e dietro di me la sabbia era infinita!
Giuro, tesserò per te
un fazzoletto di ciglia
scolpirò poesie per i tuoi occhi
con parole più dolci del miele
scriverò "sei Palestinese e lo rimarrai"
Palestinesi sono i tuoi occhi,
il tuo tatuaggio
Palestinesi sono il tuo nome,
i tuoi sogni
i tuoi pensieri e il tuo fazzoletto.
Palestinesi sono i tuoi piedi,
la tua forma
le tue parole e la tua voce.
Palestinese vivi, palestinese morirai.


Più volte uomini di cultura israeliani hanno tentato di far inserire nei testi scolastici di Israele poesie di Mahmud Darwish. Alla fine degli anni novanta un suo poema entrò a far parte dei programmi di letteratura delle scuole superiori israeliane. Fu poi il premier Ehud Barak in persona a porre il suo veto. Dopo la morte di Mahmud Rashid in Israele si è riaperto il dibattito, senza portare però a nessun risultato positivo.